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lunedì 1 luglio 2024

Intervista al prof. Grillo, risposte e commenti

In relazione all'intervista di MiL al prof. Andrea Grillo (QUI; QUI la traduzione in lingua inglese; QUI la traduzione in lingua tedesca), pubblichiamo:
  1. la risposta di Grillo all'intervento del prof. Roberto Spataro pubblicata su MiL QUI.
  2. La risposta di Grillo all'intervento del prof. Padre Serafino Lanzetta su MiL QUI.
  3. Ampi stralci di un commento all'intervista a Grillo de Lo Spiffero (QUI).
A fianco e in fondo al post un utile articolo de La Verità sulla Messa Tradizionale e sull'intervista di MiL al prof. Grillo.
Luigi C.

Sul latino e le lingue vive: alcune distinzioni in dialogo con Roberto Spataro (QUI)
di Andrea Grillo

Capio aliquam voluptatem quod hac voluptate non capior

Gentile Prof. R.. Spataro,

grazie per il suo commento. Il riferimento alla lingua è sempre delicato. Le lingue sono morte quando nessuno le usa più. Questo non significa che anche queste lingue non debbano essere studiate e non diano a chi le studia grande diletto. Ma senza l’uso quotidiano elementare, la lingua si esaurisce. E’ giusto dire che il latino, che ha ancora un minimo di uso, non possa dirsi una lingua morta. Ma certo non è una lingua del tutto viva. La misura di questo è data da una semplice osservazione: vive sono le lingue parlate (e storpiate) dai bambini e dai vecchi, le lingue “materne” le lingue dei mercati e delle esperienze indimenticabili. Purtroppo, da molti secoli la lingua latina non è più lingua materna per nessuno. Già Dante, nel De vulgari eloquentia, scrivendo in latino, riconosceva che ormai la poesia era passata al volgare. Il che non deve sorprenderci, neppure nella Chiesa.

Le lingue possono uscire dall’uso e così perdere forza o morire del tutto. Questo fa parte di ciò che Dante chiama “ciò che non muore e ciò che può morire”. Le lingue passano, anche perché tutte, latino compreso, sono “lingue di Babele”. Tutte le lingue hanno “punti ciechi” e “zone d’ombra”, che altre lingue possono illuminare. La lunga tradizione in cui la Chiesa romana ha parlato latino (ma non all’inizio e non alla fine) è un punto di riferimento inaggirabile, la cui conoscenza non può mai essere sottovalutata. Ma altro è conoscere e altro è vivere. Qui io credo per la visione ecclesiale è necessario acquisire i risultati della “svolta linguistica”. La lingua non è solo strumento di espressione, ma principio di esperienza: noi pensiamo come parliamo. La esperienza del mistero oggi è mediata, in modo originalee inaggirabile, dalle lingue parlate. L’intera stagione dominata da Liturgiam authenticam (2001-2018) costituisce un profondo vulnus per la tradizione. La pretesa che le lingue parlate siano “traduzioni letterali del latino” dimentica precisamente questo punto: non si possono tradurre letteralmente le “figure retoriche”, che ogni lingua pensa e usa a modo suo. Questo si fonda sulla antropologia umana e sulla teologia della incarnazione e della Pasqua. Un Dio, che nel Figlio conosce il nascere e il morire, entra in tutte le lingue: non ha bisogno di una lingua sacra, ma rende sacra ogni lingua degli uomini e delle donne. Ogni lingua esprime del suo mistero umano e divino un aspetto unico, che le altre lingue non possono dire. Questa è la ricchezza con cui oggi, ma da soli 60 anni, abbiamo arricchito la tradizione con la preghiera liturgica espressa in ogni lingua dell’uomo. Questo fatto sarà in grado, nei secoli, di arricchire una tradizione che per molte generazioni ha parlato soltanto latino. Ma all’inizio non era così. E oggi la universalità non è garantita dal latino, ma dalla traduzione da lingua a lingua. Il latino non è lingua morta, in senso stretto, ma non è più lingua viva: soprattutto non è più lingua universale. Per questo la esperienza del mistero pasquale oggi nasce originalmente nelle lingue parlate. Questo fatto arricchisce la tradizione e non può essere considerato, come spesso si fa, una sorta di “riduzione” della tradizione latina. E’ invece la tradizione latina ad essere oggi riduttiva. Glielo dice un grande appassionato del latino, che però sa distinguere le lingue di uso dalle lingue “fissate” una volta per tutte da una grande storia, che si è esaurita: il vocabolario latino è chiuso, non quello italiano, francese, inglese o di una lingua africana o asiatica. Questa è la differenza insuperabile e irreversibile. Mi permetta di concludere con una piccola citazione, che traggo da Plinio il Giovane. Ciò che Plinio diceva con eleganza dei “ludi circensi”, da parte mia lo applico alla tentazione di coloro che pensano la tradizione latina come un assoluto, normativo anche oggi: “capio aliquam voluptatem quod hac voluptate non capior”.
Un cordiale saluto
Andrea Grillo

La liturgia secondo Lanzetta: non “cronolatria”, ma “cronofobia” in un video

27 Giugno 2024 nel blog: Come se non

In un video di 75 minuti (comprendente conferenza e dibattito) il prof. Serafino Lanzetta ha proposto una comprensione del cuore della mia intervista su Messainlatino, nella quale non posso proprio riconoscermi. Il professore usa toni felpati, ma utilizza concetti rozzi e grossolani. Perciò ritengo utile brevemente replicare alle sue affermazioni più azzardate e più ingiuste, non tanto verso di me, che conto niente, ma verso la Riforma Liturgica, Paolo VI e papa Francesco.

a) La comprensione della liturgia offerta da Lanzetta è preghiera e dottrina: il ruolo della azione sembra totalmente assente. Sembra che Lanzetta non conosca nessuno dei grandi padri del Movimento Liturgico: né Guardini, né Casel, né Vagaggini, né Marsili, né Jungmann. Per questo sembra del tutto ignorare la lunga stagione che ha preparato il Concilio Vaticano II e che ha messo in opera quel delicato lavoro di “traduzione della tradizione” che è la riforma liturgica. Invece Lanzetta esaspera il ruolo della “riforma” come se fosse una “cosa nuova”, un “prodotto originale”, senza rapporti con la storia e con la tradizione. La sottolineatura del “futuro”, che lui traduce in “rottura”, è un vero errore metodologico nel comprendere non tanto quello che ho scritto io, ma quello che il Movimento Liturgico, il Concilio, Paolo VI e Francesco hanno detto lungo un secolo. Tutto questo per Lanzetta non esiste: lui vede soltanto l’arbitrio di una “rottura”, dimenticando la profonda rilettura della tradizione che ha preparato e accompagnato la riforma liturgica.

b) Ad un certo punto, Lanzetta propone un esempio. Ma l’esempio fa letteralmente cadere le braccia. Era difficile scegliere un esempio peggiore. Egli dice: la riforma liturgica è come una “mela” che vuole essere valorizzata, ma condannando il ramo su cui era attaccata, il fusto da cui sporgeva il ramo e le radici che sostenevano il tutto. Ora, questo esempio è del tutto fuoriluogo. Se per capire un interlocutore io lo costringo in un esempio distorto, ho facilmente ragione, ma non sto parlando con lui, ma con la mistificazione che di lui mi sono costruito. La riforma liturgica valorizza l’intero albero, dalle radici al frutto. Non è una parte, ma il tutto in una nuova figura. Ed è qui che Lanzetta sembra totalmente sordo: il rito romano, nella sua pienezza, sta ora nella forma assunta con la riforma successiva al Vaticano II, dal Vaticano II richiesta e posta alla Chiesa come obiettivo. Nessuno condanna lo sviluppo che ha portato alla riforma, ma ciò che viene giudicato errato (da Paolo VI e da Traditionis Custodes) è il fatto di creare una condizione in cui il rito romano, la cui forma è stata riformata, possa essere celebrato e vissuto come se la riforma non ci fosse stata. Questo è il vulnus: e se Lanzetta non se ne accorge, il problema sono le categorie con cui legge il fenomeno.

c) Il terzo punto riguarda proprio il MP Summorum Pontificum. Lanzetta dice che quel provvedimento era una grande intuizione teologica di unità, non era principio di divisione. Ma io chiedo a Lanzetta: è sicuro che sia una buona teologia quella che “pensa in astratto”? Se uno pensa in astratto che mettere in concorrenza due forme diverse e conflittuali del rito romano possa essere “pacificazione”, ma realizza solo “conflitto”, io credo che si debba mettere in dubbio che quella sia una buona teologia. La teologia non si fa in astratto, ma in concreto. Fin dal 2007 era chiaro che SP sarebbe stato un disastro, non avrebbe portato pace dove c’era conflitto e avrebbe invece portato conflitto dove c’era pace. Così è stato. Due forme, che interpretano non solo due figure di liturgia, ma diversi equilibri ecclesiali, spirituali e oranti, non possono essere “contemporanee”. Nella storia sono le forme legittime, ma di una evoluzione che non può essere né fermata né capovolta. Per questo si dice “irreversibile”: perché la storia non si può negare. Il vero problema non è che vi sia una “cronolatria”. Il vero problema è quello di una forma astratta e astorica di comprensione della teologia e della liturgia. Non cronolatria, ma una cronofobia e una rimozione della storia hanno illuso alcuni che si potesse, attraverso una “rianimazione” del VO, arrivare a negare il Concilio Vaticano II. La paura della storia fa cercare in un passato idealizzato la forma della liturgia in reazione alla forma vigente, che non si accetta per principio e per pregiudizio.

d) Infine, nella foga (sempre misurata) con cui Lanzetta esponeva le sue idee, ad un certo punto è arrivato a dire (riferendosi non a me, ma a Traditionis Custodes) che così si nega la tradizione e che la riforma liturgica è una rottura con la tradizione. Poi subito si è preoccupato di precisare che “gli altri”, i “più radicali” dicono così. Ma che, in qualche modo, questi sono giustificati perché certi professori affermano che c’è una condanna dell’albero e delle radici per affermare soltanto i diritti della mela. Dire che c’è “una sola lex orandi” non è affatto una rivoluzione, ma è dire la cosa più elementare, che vale sempre in ogni unità di tempo e di spazio. Da sempre è così. La cosa strana, frutto di “cronofobia”, è pensare che tutto resti contemporaneo e che lo sviluppo sia solo apparenza. Le forme del rito romano nella storia sono state diverse. Ma in ogni tempo una sola era vigente, salvo i casi di specificità locali o personali. Pensare di poter celebrare, oggi, nella forma riformata o nella forma senza riforma significa sollevare il dubbio sulla necessità di promuovere una riforma della liturgia e della chiesa, come il Concilio Vaticano II ha espressamente domandato. Ridurre questo alla fissazione di alcuni, professori o papi che siano, non è una bella prestazione per la fatica del concetto che il prof. Lanzetta cerca di esercitare, certo con accurata applicazione, ma in questo caso con un eccesso di irriflessa unilateralità.


Grillismo e parrocchie senza preti. Parte l'Anno Zero della Chiesa


[...] Da un po’ di tempo i due campioni del progressismo italiano, l’ex priore di Bose Enzo Bianchi e il liturgista Andrea Grillo, si occupano dei tradizionalisti con preoccupazione e questo dice che quanto va sostenendo il nunzio apostolico a Parigi, l’arcivescovo monsignor Celestino Migliore, circa la loro insignificanza e marginalità è detto soprattutto per tranquillizzare i vescovi francesi, questi sì, e da tempo, sempre più marginali. Secondo il guru di Albiano d’Ivrea il più che controverso arcivescovo Carlo Maria Viganò non darà luogo a nessuno scisma perché non avrebbe alcun seguito e su questo conveniamo. C’è però un aspetto della questione che Enzo Bianchi non coglie. I progressisti, in tutte le loro accezioni, pur avendo spesso molti più motivi dei conservatori per separarsi da Roma, non faranno mai uno scisma, che potrà avvenire solo e sempre da «destra». Non soltanto per motivi teologici, ma anche per ragioni molto più terra a terra.


Andarsene da Roma vuol dire lasciare tutti i benefici pratici ed economici che rimanervi comporta e perseguire la via stretta delle privazioni e delle ristrettezze, quindi niente più 8 per mille in Italia o proventi della tassa sulla Chiesa in Germania. Infatti, per affrontare tali disagi bisogna avere fede, una fede convinta e rocciosa. E poi molto del programma dei modernisti – la conquista di Roma dall’interno – è stato per gran parte realizzato. Così si esprimeva Ernesto Buonaiuti (1881-1946) nel 1943: «Fino ad oggi si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma, fare che la riforma passi per le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero ed infallibile metodo, ma è difficile. Hoc opus, hic labor. Il culto esteriore durerà sempre come la gerarchia, ma la Chiesa, in quanto maestra dei sacramenti e dei suoi ordini, modificherà la gerarchia e i culto secondo i tempi: essa renderà quella più semplice, più liberale, e questo più spirituale e per questa via essa diventerà un protestantesimo; ma un protestantesimo ortodosso, graduale, e non uno violento, aggressivo, rivoluzionario, insubordinato, un protestantesimo che non distruggerà la continuità apostolica del ministero ecclesiastico né l’essenza del culto». Come oggi per i neo-modernisti la loro ragione si lega sempre al potere e mai alla Verità.


Per Bianchi e, in termini più articolati, per l’economista Luigino Bruni che è intervenuto dalle pagine di Avvenire sul tema del divorzio tra cattolicesimo e cultura, il declino della Chiesa è dovuto non ai disastri del post-Concilio ma all’intransigentismo e alla condanna del modernismo che avrebbe generato quello «scisma sommerso» descritto più di venticinque anni fa dal filosofo Pietro Prini (1915-2008). Bruni parte dal teologo martire Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), dal suo mondo diventato adulto e secolare e della necessità per i cristiani – secondo una visione prettamente storicistica – di adeguarsi ad esso a partire dal linguaggio. Il teologo tedesco era protestante e la sua visione è perfettamente coerente con la rottura luterana tra natura e grazia, ma per un cattolico il mondo non potrà mai divenire adulto e completamente secolare in quanto la grazia non avrebbe più nessuna influenza sulla natura e quindi sulla società. Quando il cristianesimo si sarà modernizzato diventerà insignificante e incomprensibile e anche la Parola rimarrà senza parole.


Circa Andrea Grillo, questi ha risposto ad alcune domande postegli dal blog Messa in latino dove ha menato fendenti, senza esclusione di colpi, contro Benedetto XVI e contro la possibilità che si possa celebrare ancora la Messa antica. Secondo lui 18.000 giovani che si sobbarcano ogni anno il pellegrinaggio da Parigi a Chartres sono irrilevanti e anche la scarsità di vocazioni o il deserto delle chiese non sono che «il segno di un travaglio necessario». Per arrivare dove non si sa. Per il “Grillo parlante” occorre invece «dare ai nuovi riti la figura personale ed ecclesiale, individuale e comunitaria, di iniziazioni alla preghiera, come linguaggio primordiale, di iniziazione all’incontro con ogni altro, per scoprirne e onorarne la infinita dignità». Sfidiamo chiunque a spiegarci che cosa questo oscuro linguaggio – corrente fra i liturgisti – significhi.

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