Dando eco alla peggiore retorica terzomondista ed ecologista della recente Laudate Deum (di cui abbiamo parlato qui), l'Arcivescovo Caccia* è recentemente intervenuto al Terzo Comitato sul Punto 68 dell'Agenda (Diritti dei popoli indigeni).
Tre aspetti ci lasciano perplessi: 1) l'indigeno descritto dall'Arcivescovo Caccia risulta perfetto. Senza macchia. Pare quasi che la nuova Città di Dio, secondo la proposta bergogliana, diventi il villaggio indigeno. Se poi l'indigeno ha ucciso qualche gesuita o ha compiuto sacrifici umani sulle piramidi di Tenochtitlàn, bè... quello è un dettaglio.
2) E' vero che "il loro impatto [è] minimale sul cambiamento climatico" ma è pur sempre il risultato di un modello che prevede un aspettativa di vita molto bassa e standard sanitari, di mobilità, alimentazione e riscaldamento equiparabili agli standard primitivi. Si tratta di un modello osannato dal clero progressista ma in cui abbiamo assistito (storicamente) alla fuoriuscita di persone piuttosto che alla loro entrata. (Un po' come con il Novus Ordo Missae...)
3) Prendiamo atto che la Laudate Deum sta alla climatologia come questa Agenda sui Popoli Indigeni sta all’etnografia. Da quando il magistero della Chiesa snobba la metafisica e il pensiero tomista, cedendo il passo alle scienze sociali, è diventato un pensiero orizzontale dove Dio e trascendente non trovano più spazi.
Qui il link e di seguito il post di Vatican News:
“Riaffermare la dignità e i diritti di tutti i popoli indigeni, insieme al rispetto e alla protezione delle loro culture, lingue, tradizioni e spiritualità”. È l’appello della Santa Sede all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso a New York, espresso dall’osservatore permanente l’arcivescovo Gabriele Caccia. Intervenendo al Terzo Comitato sul Punto 68 dell'Agenda (Diritti dei popoli indigeni), monsignor Caccia ha affermato che: “L’intolleranza e la mancanza di rispetto per le culture popolari indigene è una forma di violenza, basata su un modo di vedere freddo e giudicante, che non può essere accettato”. Ha quindi chiesto che venga riconosciuta l’esperienza delle popolazioni originarie “in vari campi, come la protezione dell’ambiente e della biodiversità e la difesa del patrimonio culturale”; esse, infatti, “offrono un esempio di vita vissuta in armonia con l’ambiente che hanno imparato a conoscere bene e che si impegnano a preservare”.
Indigeni, custodi della biodiversità
“Dato il loro rapporto privilegiato con la terra e attingendo alle loro conoscenze e pratiche tradizionali, i popoli indigeni possono contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico aumentando la resilienza degli ecosistemi”, ha aggiunto il presule. Inoltre, le loro terre contengono “l’80% della biodiversità rimanente nel mondo”, rendendo i popoli indigeni “custodi insostituibili della sua conservazione, del suo ripristino e del suo uso sostenibile”.
I rischi di tratta, lavoro forzato, abusi
Purtroppo, però, ha sottolineato Caccia, “le aree protette vengono spesso istituite senza consultare o ottenere il consenso delle popolazioni indigene”, a loro volta “escluse dall’amministrazione e dalla gestione dei loro territori tradizionali e lasciate senza un adeguato risarcimento”. “Questo può esporli al rischio di ulteriori danni”: tratta, lavoro forzato e sfruttamento sessuale. A tutto ciò si aggiungono “attività estrattive illegali” che, ha sottolineato l’osservatore permanente, “minano ulteriormente l’ambiente, espressione fondamentale dell’identità indigena”. “In questo senso, i diritti dei popoli indigeni, compreso il diritto al consenso libero, preventivo e informato, devono essere rispettati in tutti gli sforzi”, ha aggiunto.
Mantenere, controllare, proteggere il patrimonio culturale
Per monsignor Caccia, “il patrimonio culturale dei popoli indigeni è costituito da conoscenze, esperienze, pratiche, oggetti e luoghi culturalmente significativi”. Pertanto “proteggere e preservare queste componenti è essenziale per raggiungere i fini della cultura, ovvero lo sviluppo integrale della persona e il bene della società nel suo complesso”. Da qui l’appello - in linea con la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni - affinché questi popoli possano “mantenere, controllare, proteggere e sviluppare il proprio patrimonio culturale”. Essenziale, in tal senso, “l’apertura al dialogo” per “promuovere una cultura dell'incontro contro un ‘indigenismo’ completamente chiuso, a-storico e statico che rifiuta qualsiasi tipo di fusione”.
Il rischio del turismo non sostenibile
A conclusione del suo intervento, l’arcivescovo Caccia ha espresso la preoccupazione della Santa Sede per le attività turistiche non sostenibili: esse, ha avvertito, “possano portare, tra l’altro, alla mercificazione, alla perdita e all'uso improprio della cultura indigena, così come all’espropriazione delle loro terre e risorse”. “La sostenibilità del turismo, infatti, si misura dall'impatto sugli ecosistemi naturali e sociali – ha aggiunto - occorre una sensibilità che allarghi in modo concreto la tutela degli ecosistemi, in modo da garantire un passaggio armonioso dei turisti in ambienti che non gli appartengono”. Il rischio è che lo straordinario patrimonio di molti popoli indigeni finisca per “essere compromesso dai tentativi di imporre uno stile di vita omogeneo e standardizzato, anche da parte dell'industria turistica”, la quale “talvolta trascura le differenze culturali e avanza una nuova forma di colonizzazione ammantata dalla prospettiva dello sviluppo”.
*L'Arcivescovo Gabriele Caccia, ordinato sacerdote nel 1983 dal cardinale Carlo Maria Martini, allora Arcivescovo di Milano, nunzio in Libano dal 2009 al 2017, dal 2017 al 2019 nelle Filippine e dal 2019 nominato da Papa Francesco Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York.
Gabriele
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Presentazione della rubrica
il confronto tra le due immagini è improprio: sono due civiltà che hanno un livello di organizzazione e specializzazione totalmente diverso, dovuto anche al fatto che i secondi sono anche molti di meno*
RispondiEliminasarebbe meglio paragonare la prima immagine con qualcosa tipo Tenochtitlan, le città maya, o Cahokia, che avevano un livello di progettazione urbanistica molto elevato. Tenochtitlan era probabilmente molto meglio gestita di molte città europee dell'epoca, e persino Cortez la definì 'la città più bella del mondo'
* prima della conquista acune civiltà amazzoniche erano giunte a un discreto livello di organizzazione politica, ma collassarono a causa del tracollo demografico dovuto a malattie e incursioni dei conquistadores. quelli della fotografia sono gli eredi di civiltà cadute
cito da https://www.rigenerazionevola.it/lanima-primitiva-e-forse-umanita-degenerata/
RispondiEliminaL’interesse crescente che da un paio di decenni si è manifestato nell’ambito della stessa sociologia e della storia delle religioni per il mondo dei selvaggi è un altro fenomeno che si può ricondurre allo stesso significato di sintomo. Una scienza nuova, ormai agguerritissima, l’etnologia, si è appunto consacrata all’esplorazione dell’«anima primitiva», della mentalità, della visione del mondo e delle forme di vita delle società selvagge. In ciò si è anzi voluto vedere un equivalente, nel dominio della cultura, di quel che nel dominio della natura è la geologia: come il geologo studia le stratificazioni della terra e attraverso i fossili rintraccia le forme scomparse della vita dei primordi, del pari l’etnologo presume di ricostruire gli strati arcaici dell’umanità partendo dall’esame dei popoli selvaggi sopravvissuti come «fossili viventi»; poiché – si pensa – tali popoli rappresentano fasi di civiltà conservatesi quasi fuor del tempo, della storia. Una indagine condotta su tale materiale, condurrebbe assai più lontano, in epoche assai più remote, che non lo studio delle grandi civiltà antiche, quali l’egizia, la sumera, l’indù e la sinica.
Su ciò intervengono però diversi equivoci, dovuti alla parte che, malgrado tutto, nell’etnologia hanno le «idee fisse» caratteristiche per la mentalità moderna, e in prima linea quella evoluzionistica. Certo, non si è più ai bei tempi di Spencer e compagni, che consideravano senz’altro il selvaggio come l’antenato diretto dell’uomo civilizzato, pensando che uno sviluppo evolutivo lineare abbia condotto dall’uno all’altro. Correntemente, i più pensano però ancor oggi così, sbagliando: perché non si vede mai un selvaggio «evolvere»; i ceppi primitivi si estinguono, come se si trattasse di forme che hanno esaurito le loro possibilità vitali. Il selvaggio che si fa civilizzato non si «evolve» ma piuttosto si snatura, passa da un mondo ad un altro, sostanzialmente diverso dal suo.
Attacchi vergognosi, ma ormai ci siamo abituati!
RispondiEliminaCome mai non dite anche le la “civiltà figlia della teologia di San Tommaso” (?) ha prosperato anche perseguitando, colonizzando, depredando, ammazzando?
Europei tutti santi perché andavano alla messa in latino?
Tuttologia. Dopo l’apice degli insegnamenti del Magistero sociale della Chiesa raggiunto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, si precipita nel nulla. Anzi nel ricolo, scimmiottando analisi etnografiche e sociali zeppe di ideologia e del tutto estranee al ruolo e all’essenza del Magistero stesso.
RispondiEliminaBisognerebbe provare sulla propria pelle la vita primitiva : no gas, no riscaldamento con i termosifoni, non auto, no vestiti confortevoli,no cibo del supermercato...provare..
RispondiEliminaPer scoprire le radici più profonde del cambiamento epocale che sta raggiungendo il suo apice ora ('motus in fine velocior'), non dovremmo forse tornare al 'cogito ergo sum' di Cartesio più che al CVII?
RispondiEliminaIl CVII sta bene un po’ su tutto.
EliminaA proposito di impatto minimale sul cambiamento climatico, il climatologo Franco Prodi e il premio Nobel Rubbia sostengono che è minimale anche quello di tutti gli altri (secondo il primo le temperature medie globali negli ultimi dieci anni non sono aumentate ma diminuite). Ai posteri e ai ricercatori non ideologizzati l'ardua sentenza, ma ho il vago presentimento che abbiano ragione loro due e tanti altri.
RispondiEliminaLa cosa che mi lascia molto perplesso (eufemismo) è che chi parla di "popoli indigeni" mai si prenda la briga di definire chiaramente cosa vuol dire "indigeno". I Maori sono indigeni? E i Filippini? E i Kosovari?
RispondiEliminaUn po' come quegli che usano a vanvera la parola "sinodalità".
This Convention applies to:
Elimina(a) tribal peoples in independent countries whose social, cultural and economic conditions distinguish them from other sections of the national community, and whose status is regulated wholly or partially by their own customs or traditions or by special laws or regulations;
(b) peoples in independent countries who are regarded as indigenous on account of their descent from the populations which inhabited the country, or a geographical region to which the country belongs, at the time of conquest or colonisation or the establishment of present state boundaries and who, irrespective of their legal status, retain some or all of their own social, economic, cultural and political institutions.
articolo 1 della Convenzione Internazionale sui popoli indigeni e tribali (ILO C169)
chi cerca trova, se cerca...
Giustissimo. Anche gli italiani sono indigeni!
EliminaMa ormai la lingua è divenuta strumento di propaganda.
La Santa Sede ha tante cose immensamente più serie di cui occuparsi . La salvezza delle anime è o dovrebbe essere la preoccupazione suprema e invece fanno i gretini .Di questo passo fra poco vedremo vescovi accovacciati per terra sulle strade ad impedire il passaggio delle auto o in giro per le città d'arte ad imbrattare i monumenti.Sfidano il ridicolo credendo così di essere alla moda ......
RispondiEliminaHa deposto re e imperatori, partecipato a guerre, diviso il mondo...
EliminaNon può fare anche questo?