Vi proponiamo – nella traduzione curata dall’autore – l’articolo del dott. Gaetano Masciullo, pubblicato in originale il 2 luglio sul sito The Remnant (QUI) e poi in italiano il 3 luglio sul blog Gaetano Masciullo, in cui si ricostruiscono con dovizia di particolari il contesto e le ragioni che hanno portato all’emanazione di Traditionis custodes.
Ciò è fatto a seguito della pubblicazione, da parte della giornalista vaticanista Diane Montagna, dei documenti, mai divulgati in precedenza, i quali scoprono le menzogne che sono state alla base delle motivazioni dichiarate nell’atto di papa Francesco che ha limitato la celebrazione della Santa Messa tradizionale (QUI; QUI, QUI, QUI, QUI e QUI su MiL).
L.V.
La giornalista Diane Montagna ha recentemente pubblicato (QUI; QUI su MiL) il rapporto redatto dal Vaticano a seguito del questionario che, nel 2020, l’allora Congregazione per la dottrina della fede aveva inviato ai Presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Lo scopo – almeno a quanto sembrava – era quello di verificare come fosse stato recepito la lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum sull’uso straordinario dell’antica forma del Rito Romano (2007) di Papa Benedetto XVI e valutarne l’efficacia pastorale.
Con quell’atto legislativo, il Papa tedesco aveva inteso liberalizzare la celebrazione della Santa Messa secondo il Vetus Ordo, che egli stesso definiva «forma straordinaria del Rito romano», auspicando un ritorno alla pace liturgica all’interno della Chiesa. Fino ad allora, la celebrazione della Santa Messa tradizionale era possibile soltanto previo consenso ufficiale da parte del Vescovo ordinario. Il Papa argentino, invece, nel 2021, con la lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes sull’uso dei libri liturgici anteriori alla riforma del Concilio Vaticano II decise di sospendere quanto voluto «con magnanimità ancora maggiore» dal predecessore. La motivazione ufficiale risiedeva in un apparente crescente clima di divisione all’interno della Chiesa e il documento sarebbe servito a ristabilire l’unità ecclesiale.
Oggi, grazie alla pubblicazione del rapporto ufficiale relativo al questionario inviato ai Vescovi nel 2020 sull’applicazione della lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum, è possibile ricostruire con maggiore chiarezza il contesto e le ragioni che hanno portato all’emanazione della lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes.
Il ruolo del card. Arthur Roche
Com’è ormai noto, l’avversione di papa Francesco per la liturgia tradizionale era stata alimentata nel corso degli anni da tre uomini curiali: il card. Arthur Roche (dal 2021 Prefetto del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti), mons. Vittorio Francesco Viola O.F.M. (dal 2021 Segretario dello stesso Dicastero) e il card. Pietro Parolin (dal 2013 Segretario di Stato).
Fin dalla pubblicazione della lettera apostolica in forma di «motu proprio» di Papa Benedetto XVI, mons. Arthur Roche – all’epoca vescovo di Leeds, nel Regno Unito – si era impegnato a limitarne la portata, offrendo un’interpretazione restrittiva (QUI; QUI su MiL). Secondo la sua lettura, la possibilità di introdurre la Santa Messa tradizionale in una Parrocchia era riservata esclusivamente ai parrocchiani già appartenenti a quella comunità e che avessero partecipato da tempo alla forma straordinaria del Rito romano. In altre parole, chi desiderava avvicinarsi per la prima volta alla liturgia antica non poteva beneficiarne. L’applicazione concreta del documento si riduceva dunque, secondo questa impostazione, a un gesto concesso per accontentare gli anziani e i nostalgici. Questa interpretazione fu ufficialmente respinta come falsa dal Vaticano nel 2011, quando la Pontificia Commissione Ecclesia Dei pubblicò l’istruzione Universae Ecclesiae sull’applicazione della lettera apostolica Summorum Pontificum in forma di motu proprio. All’interno di essa si ribadiva la destinazione universale del provvedimento.
Mons. Arthur Roche si faceva all’epoca portavoce di una serie di Vescovi e curiali che guardavano da anni con grande preoccupazione al Papato di Benedetto XVI e alle sue posizioni percepite come conservatrici, se non addirittura «tradizionaliste». Tra questi vi era l’alfiere dei neomodernisti, il card. Carlo Maria Martini S.I., Arcivescovo emerito di Milano (1927-2012). Proprio costui, infatti, attaccò frontalmente la lettera apostolica in forma di «motu proprio» ratzingeriana sulla stampa italiana in un articolo che ben riassumeva i tre motivi per cui la Santa Messa tradizionale fosse da bandire completamente dalla vita della Chiesa (QUI). Anzitutto, il card. Martini riteneva che il Concilio Vaticano II e la conseguente riforma liturgica di mons. Annibale Bugnini C.M. avesse portato un significativo progresso nella comprensione della liturgia, specialmente per la maggiore centralità della Parola di Dio. In secondo luogo, il contesto liturgico e spirituale legato al rito preconciliare trasmetterebbe una visione rigida, meno aperta alla libertà e alla responsabilità personale del fedele. In terzo luogo, la convivenza di due forme diverse (anche e forse anzitutto sul piano teologico) dello stesso Rito avrebbe messo in crisi l’unità della Chiesa e avrebbe reso più complesso il servizio pastorale dei Vescovi.
Chiosava l’allora Arcivescovo emerito di Milano nell’articolo in questione:
confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l’Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le celebrazioni né suscitare dal nulla ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli.
Esclusiva, sterile e divisiva. Potremmo sintetizzare con questi tre aggettivi la visione che il card. Carlo Maria Martini aveva della liturgia tradizionale. Una visione fatta propria dal card. Arthur Roche, dal card. Pietro Parolin e quindi da papa Francesco. E da tutti coloro che continuano ad avversare la liturgia tradizionale.
Il card. Arthur Roche era prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti quando la lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes fu promulgata. Come testimoniato da numerose fonti, egli è stato il responsabile principale dell’attuazione di questo motu proprio, spesso in modo particolarmente autoritario e a volte eccedendo il suo mandato (QUI; QUI su MiL). Nel 2023, il card. Roche giunse a dire ai microfoni della BBC che «la teologia della Chiesa è cambiata» e perciò la Santa Messa tradizionale non riusciva più a esprimere correttamente la nouvelle théologie oggi dominante (QUI). Ancora più grave, nella sua risposta al card. Vincent Gerard Nichols, Arcivescovo metropolita di Westminster, il card. Roche ha affermato che San Paolo VI avrebbe «abrogato» il Missale Romanum di San Pio V: una dichiarazione non solo discutibile, ma anche teologicamente infondata (QUI; QUI su MiL). A confermarlo sono le parole di Papa Benedetto XVI e, soprattutto, la formula magisteriale utilizzata da San Pio V nel 1570 al termine della costituzione apostolica in forma di bolla Quo primum tempore, con cui promulgò il Missale Romanum, dichiarando esplicitamente che esso non poteva essere abrogato.
Un altro importante prelato che si oppose con forza sin da subito al Pontificato di Papa Benedetto XVI, e di cui il card. Arthur Roche seppe farsi abile portavoce, fu l’inglese card. Cormac Murphy-O’Connor (1932-2017), Arcivescovo metropolita di Westminster. Grande avversario della liturgia tradizionale, accolse ufficialmente con favore la lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum, ma chiese ai suoi Parroci di continuare a chiedergli un’autorizzazione formale per poter celebrare secondo la forma straordinaria, nonostante le disposizioni contrarie del Papa. Va ricordato che il card. Murphy-O’Connor fu tra i membri della Mafia di San Gallo, il gruppo di prelati progressisti che, ogni anno dal 1995 al 2006, si incontravano in Svizzera per discutere non solo delle riforme riguardanti nomine episcopali, collegialità, primato petrino e morale sessuale, ma anche delle strategie per influenzare i conclavi a proprio favore.
Mons. Vittorio Francesco Viola
Mons. Vittorio Francesco Viola O.F.M., Segretario del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti dal 2021 (quindi dallo stesso anno in cui il card. Arthur Roche divenne Prefetto), è la seconda mente che si nasconde dietro l’ideazione e l’attuazione della lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes. Egli si dichiara grande estimatore di mons. Annibale Bugnini (1912-1982), del quale vuole continuare la rivoluzione liturgica in senso anti-tradizionale, tanto da indossare devotamente il suo anello episcopale.
Com’è ormai noto, mons. Annibale Bugnini era stato iniziato in Massoneria. Ciò è stato confermato sia da fonti massoniche sia da fonti cattoliche. Per quanto riguarda le fonti massoniche, secondo quanto pubblicato dal giornalista Mino Pecorelli, mons. Bugnini sarebbe stato affiliato in Roma alla Gran Loggia d’Italia, il 23 aprile 1963, con matricola 1365/75 e pseudonimo BUAN. Per quanto riguarda le fonti cattoliche, il canadese mons. (poi card.) Édouard Gagnon P.S.S. investigò segretamente sulle infiltrazioni massoniche nella Curia Romana, dietro pressione del card. Giovanni Benelli e con il placet timido di San Paolo VI. Il dossier del card. Gagnon fu in seguito rubato. Grazie ai testimoni dell’epoca, sappiamo che tra i nomi individuati da mons. Gagnon c’era anche quello di mons. Bugnini.
Tornando a mons. Vittorio Francesco Viola, nel Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti è noto per essere stato molto più operoso del card. Arthur Roche. A quanto risulta da alcune fonti, mons. Viola sarebbe stato il principale artefice dei documenti della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti pubblicati dopo la lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes, e soprattutto egli sarebbe stato il redattore della lettera apostolica Desiderio desideravi sulla formazione liturgica del popolo di Dio (2022), da molti considerata la «carta liturgica di papa Francesco», ma in realtà un tipico sottoprodotto della letteratura servita nei corsi di liturgia dei seminari italiani ad opera del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, l’ateneo romano dedicato alla liturgia (QUI; QUI su MiL).
A lui si attribuiscono i ripetuti divieti imposti negli ultimi anni ai giovani sacerdoti, nonostante le richieste dei rispettivi vescovi, di celebrare la Santa Messa tradizionale. È il caso di mons. François Touvet, Vescovo coadiutore di Fréjus-Tolone, al quale era stato comunicato da mons. Vittorio Francesco Viola che i candidati della Société des Missionnaires de la Miséricorde Divine potevano essere ordinati solo con il rito riformato e quindi avrebbero potuto officiare esclusivamente il Novus Ordo. Emblematico anche il rifiuto di autorizzare la celebrazione secondo la forma straordinaria nella Basílica de Santa María la Real di Covadonga, in Spagna, per la chiusura della 4ª Peregrinación Nuestra Señora de la Cristiandad. Tale rifiuto gli è valso il soprannome di «mons. Nada, Nada, Nada», in contrasto con il noto «todos, todos, todos» di papa Francesco.
Il card. Pietro Parolin
Il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato, ha rivestito un ruolo centrale, determinante e profondamente incisivo nell’elaborazione e nell’attuazione della lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes. La sua posizione, secondo testimonianze attendibili, non è stato soltanto di cauta riserva, ma di chiara e ferma opposizione alla liturgia tradizionale, che egli considera inconciliabile con il «nuovo paradigma» ecclesiale promosso da papa Francesco.
Questo nuovo paradigma – ispirato a una rilettura «pura» del Concilio Vaticano II – è descritto dal card. Pietro Parolin in termini di sinodalità, globalizzazione e decentralizzazione della Chiesa, in opposizione alla visione più gerarchica, sacrale e unitaria della Tradizione. In tal senso, il card. Parolin ha contribuito in maniera determinante all’ideazione della lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes, sostenendone pienamente la filosofia di fondo e l’impianto normativo.
Durante una sessione preparatoria del sondaggio che ha costituito la base del motu proprio, il card. Pietro Parolin avrebbe persino affermato: «Dobbiamo mettere fine a questa Messa per sempre» (QUI). In un’altra riunione, nel gennaio 2020, espresse preoccupazione per la crescente attrattiva del Vetus Ordo tra i giovani e per la resistenza degli istituti ex Ecclesia Dei a uniformarsi al rito riformato e alla concelebrazione (QUI; QUI su MiL). A suo giudizio, tale attaccamento alla Tradizione costituirebbe una «forma di disobbedienza ecclesiale». Di conseguenza, il card. Parolin ha più volte richiesto che i gruppi fedeli alla liturgia tradizionale dimostrassero «segni concreti di comunione”», tra i quali la celebrazione continuata della Messa Novus Ordo.
Questa visione teologica del card. Pietro Parolin si inserisce in una più ampia corrente riformatrice del pontificato bergogliano, accostandosi ad altri documenti controversi come l’esortazione apostolica Amoris laetitia sull’amore nella famiglia. L’ecclesiologia elaborata dal cardinale vicentino tende a privilegiare una Chiesa fluida, globale e dialogica, piuttosto che una Chiesa sacrale, ancorata alla Tradizione e alla continuità organica del culto divino.
Non sorprende quindi che, nel 2024, il card. Pietro Parolin abbia sostenuto mons. Vittorio Francesco Viola nell’idea di ulteriori restrizioni, più radicali di quelle già imposte dalla lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes (QUI; QUI su MiL). Il nuovo documento proposto mirava a vietare del tutto la forma straordinaria del Rito romano, eccetto nei pochi istituti autorizzati, impedendo ai Vescovi di autorizzarla nelle loro Diocesi e annullando anche i permessi concessi in precedenza. In tale iniziativa egli avrebbe trovato sostegno in altri prelati, tra cui i il card. Víctor Manuel Fernández, Prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, il card. Claudio Gugerotti, Prefetto del Dicastero per le Chiese orientali e mons. Celestino Migliore, Nunzio apostolico in Francia.
Cosa è accaduto davvero?
La pubblicazione del rapporto ufficiale emanato dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 2020, all’indomani del questionario inviato alle Conferenze episcopali di tutto il mondo per valutare l’efficacia pastorale della lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum, ci permette di ricostruire con maggiore precisione la storia della lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes.
Leggendo il documento, scopriamo come esso ci offre un quadro chiaro e articolato di una realtà complessa, ma tutt’altro che marginale (QUI). L’impressione generale che ne scaturisce è che, sebbene la liturgia tradizionale fosse presente all’epoca in una percentuale relativamente contenuta (intorno al 20 per cento delle Diocesi di rito romano di tutto il mondo), essa abbia prodotto frutti importanti e duraturi sia per i fedeli sia per la vita della Chiesa.
Dall’analisi delle risposte episcopali emerge una diffusa soddisfazione, soprattutto tra quei Vescovi che hanno saputo accompagnare pastoralmente i cosiddetti «gruppi stabili», comunità spesso composte da giovani e da convertiti che hanno trovato nella solennità del rito antico un porto sicuro nella tempesta secolarizzante. Si osservano anche effetti benefici sulla liturgia riformata celebrata dai sacerdoti «biritualisti»: maggiore cura, maggiore sacralità, maggiore attenzione al silenzio e alla dignità del culto.
Eppure, in alcune realtà ecclesiali persistevano resistenze: il Rito Tradizionale era visto da taluni con sospetto, a volte apertamente osteggiato, altre volte interpretato come veicolo di dissenso verso il Concilio Vaticano II. Il timore espresso da più Vescovi era ben diverso: la sospensione, l’abrogazione o il ridimensionamento della lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum avrebbe comportato la riapertura di ferite che si stavano cicatrizzando. Si percepiva un eventuale cambiamento legislativo come rischioso, in quanto avrebbe delegittimato non solo l’opera di Papa Benedetto XVI, ma anche quella di San Giovanni Paolo II, che nel 1988 volle la lettera in forma di motu proprio Ecclesia Dei con la quale viene istituita una Commissione per favorire la piena comunione ecclesiale della Fraternità sacerdotale San Pio X, dei suoi membri o di quanti ad essa si associano, proprio per cercare di evitare scismi e salvare l’unità della Chiesa. Tornare a un regime d’indulto – avvisavano i Vescovi in risposta al sondaggio del 2020 – significherebbe, per molti fedeli, tornare a una Chiesa in cui essi si sentono ospiti tollerati, e non figli riconosciuti. I fedeli legati alla liturgia tradizionale, spesso per anni trattati con sufficienza o addirittura ostilità, avevano trovato nella lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum un segno di paternità. Significativa è la risposta che era stata fornita da un Vescovo delle Filippine: «Lasciamo la gente libera di scegliere».
Il rapporto ufficiale confuta il giudizio di Martini-Roche-Viola-Parolin
Il documento che raccoglie le risposte dei Vescovi sul della lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum rappresenta una smentita implicita ma potente della visione espressa dal card. Carlo Maria Martini sulla liturgia tradizionale. Contrariamente all’idea martiniana di una liturgia preconciliare chiusa, rigida e incapace di parlare all’uomo moderno, molti Vescovi riferiscono che il Vetus Ordo è frequentato in prevalenza da giovani, famiglie numerose e convertiti; non si tratta dunque di un rifugio nostalgico, ma di un’esperienza viva, capace di generare vocazioni e attaccamento alla fede. Lungi dall’essere sterile, la Santa Messa tradizionale appare molto più feconda del rito riformato, particolarmente vulnerabile alla «creatività liturgica».
Quanto alla presunta divisività, il documento mostra che, laddove il Vescovo ha saputo esercitare un’autentica paternità spirituale, la coesistenza tra le due forme del Rito Romano non solo è possibile, ma persino auspicabile: molti riferiscono che la presenza del rito tradizionale ha elevato il livello delle celebrazioni ordinarie. La divisione nasce non dal rito in sé, ma dall’intolleranza verso di esso. La lettera apostolica in forma di motu proprio Traditionis custodes – in generale, il Pontificato di papa Francesco – è risultato molto più divisivo della lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum. E questo è apparso in maniera chiara anche dalla scelta dei cardinali di eleggere come successore di papa Francesco un uomo come il card. Robert Francis Prevost O.S.A., ritenuto capace di ripristinare l’unità perduta.
Infine, sull’accusa di esclusività, si evidenzia un paradosso: è proprio il ritorno a una gestione centralizzata e restrittiva — come quella auspicata dal card. Carlo Maria Martini — ad avere creato nuove tensioni e sofferenze. La lettera apostolica in forma di «motu proprio» Summorum Pontificum, al contrario, ha saputo includere e riconciliare, senza obbligare nessuno, ma lasciando libertà nel solco della Tradizione. Ha saputo, insomma, ridare responsabilità al singolo fedele. Proprio ciò che il card. Martini non sapeva riconoscere nella Santa Messa tradizionale.

Roche in Inghilterra non ha riscosso molta stima perché ha lasciato la sua diocesi indebitata. Per quello ha trovato rifugio e carriera a Roma. I suoi confratelli vescovi non ne hanno una buona opinione.
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