Tradizione
e tradimento
di
Anthony Esolen
(titolo
originale: Tradition and Treachery, apparso sul portale Crisis
Magazine il 27/12/2024)
Il
cardinale di Chicago Blase Cupich ha emanato una direttiva per chiedere
ai parrocchiani della sua arcidiocesi di non inginocchiarsi per ricevere la
Santa Comunione, con la motivazione che ciò interrompe il flusso della
processione e richiama l’attenzione sul singolo individuo. Naturalmente,
inginocchiarsi a una balaustra della Comunione non interromperebbe
nulla, né richiamerebbe l’attenzione su alcuno; anzi consentirebbe di fare, in
un modo oltremodo potente e difficile da dimenticare, quella esperienza di
comunità umana che, si suppone a torto, dovrebbe garantire lo stare in
fila.
L’ho già detto molte volte in passato: quando sei inginocchiato alla balaustra, non devi preoccuparti delle scarpe di chi è dietro di te e che potresti calpestare, né di essere ragionevolmente celere nel farti da parte. Hai la possibilità di vedere altre persone che ricevono la Comunione mentre il prete si fa strada verso di te, persone di ogni tipo. Potresti benissimo essere inginocchiato accanto a uno sconosciuto o persino a qualcuno che ti è antipatico. Quando ciò accade è difficile che quella inimicizia non venga almeno un poco attenuata.
Tali
aspetti riguardano naturalmente ciò che di meramente umano si fa esperienza.
L’esperienza del divino mediata attraverso un determinato atteggiamento del
corpo è qualcos’altro, ed è difficile da spiegare a un popolo così eviscerato quanto
alla sua cultura come lo siamo noi ora; così esangui eppure così carnali.
Un
ragazzo sdraiato di schiena sull’erba che nella bella stagione guarda il cielo
e pensa a un benedetto niente, o a tutto; un ragazzo e una ragazza adolescenti che
ballano, in una vera danza con movimenti definiti, mano nella mano, in un
impeto di innocente divertimento; un ragazzo che balla con sua madre, o una
ragazza con suo padre; un gruppo di persone che canta vecchie canzoni popolari
insieme, a memoria, seduti accanto a un fuoco. Quando è stata l’ultima volta
che hai visto una di queste cose?
Chiunque
non sia del tutto ottuso riconoscerà che i gesti, le posture e la disposizione dei
corpi sono misteriosamente essenziali per l’atto. Semplicemente, «ballare» con
qualcuno eseguendo scatti spasmodici nelle sue vicinanze non è la stessa cosa
che ho descritto sopra; tantomeno lo è simulare un rapporto sessuale in
pubblico. Fissare uno schermo di un computer non è la stessa cosa che guardare
il cielo. Sentire a tutto volume musica non melodica e composta chissà dove, la
stessa a Buenos Aires come a Berlino, non è la stessa cosa che sentire melodie
antiche sgorgare dalla tua stessa voce e dalle voci di chi ti sta accanto, e
sapere che quei canti sono stati intonati anche dai tuoi genitori e da tuoi
nonni, molto tempo fa, da persone care di cui puoi ben percepire la presenza
volgendo lo sguardo agli oggetti familiari di casa.
Quando
ti capita di inginocchiarti, con le mani giunte, se non quando preghi? Di
sicuro, non possiamo supporre che le persone del nostro tempo finiscano per
logorarsi i pantaloni per lo stare in ginocchio; né è ragionevole immaginarli
riuniti spesso a intonare canti di altri tempi, o a trascorrere molti minuti a
guardare il cielo azzurro, o a danzare in coppia con festosa frequenza, un ragazzo
e una ragazza, nel modo statuito dalla natura ab immemorabile. Né,
presumibilmente, è molto il tempo ritagliato per leggere libri, in silenzio, in
un proprio angolino o in uno studio; né è tanto il tempo per la declamazione
delle poesie, che un tempo costituivano il cuore pulsante di una cultura.
Al
contrario, è veramente molto il tempo che trascorriamo facendo file, di solito lievemente
irritati: in farmacia, al supermercato, alla mensa, allo sportello dei
biglietti della metropolitana, ai gate di sicurezza dell’aeroporto. E
mentre lo facciamo, inevitabilmente pensiamo a quante persone ci sono davanti a
noi, e di solito vorremmo che si togliessero dai piedi, e in fretta. Questa è
la nostra esperienza con le file.
Penso
che inginocchiarsi faccia bene all’anima. Ti solleva rendendoti, in statura,
non più alto di un bambino. Ma oggi le persone che si inginocchiano per
ricevere la Comunione sono considerate con disprezzo. Ci viene detto che danno
spettacolo, che rompono la comunione con i loro simili che non si
inginocchiano.
È,
naturalmente, l’accusa da fare più facile al mondo. La prima ragione è la più
ovvia. Noi esseri umani siamo sempre tentati di recitare, di voler essere
visti, come gli ipocriti – i «commedianti» – che Gesù condannava. L’ipocrita
religioso lo avrai sempre con te perché la malattia stessa, l’ipocrisia, la
recitazione, l’esibizionismo, il darsi delle arie, il mettersi in mostra, è
endemica. Non è limitata ai religiosi in modo specifico; e tra i religiosi, non
è limitata a coloro che tendono alla severità. Molti ipocriti religiosi tendono
a una superficiale bonomia, o a una compiaciuta rilassatezza, persino a un
furbo desiderio di offendere coloro che prendono più seriamente la loro fede;
tali ipocriti dell’irreligione religiosa, tra i preti di una certa generazione,
sono fitti come le pulci sul sedere di un cane.
Ma
la seconda ragione per cui l’accusa è facile è che non esige alcuna prova e non
è possibile difendersi. Come osa qualcuno leggere l’anima di chi cade in
ginocchio per ricevere la Comunione? Conosco un sacco di cattolici che amano le
canzoni sdolcinate, incoerenti e spesso eretiche che ci sono piovute addosso
come una nuvola di locuste, e alcuni di questi cattolici si comportano
decisamente da prepotenti quando pretendono che anche il resto dei parrocchiani
apprezzino quelle canzoni. Ma il cattivo gusto non dice nulla sullo stato dell’anima
di qualcuno. «Non ne conoscono di più belle», mi dico, e mi sforzo di pensare che
«forse stanno facendo del loro meglio, in questo momento». […]
La
natura peculiare del gesto, inginocchiarsi per ricevere la Comunione, entra
nella memoria come specificamente legata all’atto del Sacramento e al luogo
in cui si riceve. Di nuovo, nessun’altra cosa che facciamo durante la settimana
vi assomiglia. Inginocchiarsi alla balaustra significa essere in un determinato
posto, non per un semplice istante, ma abbastanza a lungo – forse per un minuto
o giù di lì – per dire una preghiera, abbastanza a lungo per pensare a qualcosa
che avresti dovuto fare, o a qualcosa che non avresti dovuto fare; abbastanza a
lungo – e, se è ogni domenica, abbastanza spesso – per rendere quel posto,
quella balaustra e nessun altro posto, pieno di significato. Intendo la parola
nel suo senso preciso: il posto diventa un segno.
E
questo segno è facile da associare nella tua mente ad altre persone, ad altri
tempi. Proprio a questa balaustra, non a un’altra, mio padre e mia madre si
sono inginocchiati. Qui mi sono inginocchiato io quando ero un ragazzino. Senza
dubbio mia nonna ha appoggiato le mani su questa lastra di marmo. Puoi vederla;
puoi toccarla; se è adornata con simboli eucaristici, questi possono parlarti
mentre lasci che i tuoi occhi si posino su di loro. Tutte queste cose ti
sono state tramandate. Sono preziose e legano le generazioni. Sono una
parte della tua tradizione.
È
necessario che sottolinei quanto una cultura umana senza tradizione sia una
contraddizione in termini? Sì, so che le persone possono fare un idolo della
tradizione; proprio come possono fare un idolo dell’iconoclastia. Se proprio devi
sbagliare, fallo dal lato della gratitudine verso coloro che ci hanno
preceduto, non dal lato di chi presume che fossero ottenebrati e che un posto
loro appartenuto dovrebbe disconoscerli[1]. Se devi sbagliare, fallo
dal lato della riverenza, non dal lato del frivolo o del negligente. Non so se il
tal prete che guarda di traverso le persone inginocchiate per ricevere la
Comunione sia un uomo buono o cattivo. Dirò che porta la medicina sbagliata.
Sta prescrivendo il riposo a letto per gli indolenti, i dolci per i diabetici,
la rilassatezza per gli sciatti. Della sua colpevolezza non dico nulla. È sulla
sua saggezza che ho qualche dubbio.