Quod Deus perdere vult, dementat prius.
Dalla, pessima, liturgia ai nuovi bizzarri paradigmi per la Chiesa, proponendo di passare da una Chiesa fondata sulle tre “S” (sacrificio, sacerdozio, sacramento), alle tre “T” (tavola, talamo, toilette).
Rimpiangiamo il grande attore Ugo Tognazzi e le sue 3 T cremonesi!
Luigi
Tavola, talamo e toilette: la Chiesa che verrà inquieta già
Luidella Scrosati, 28-02-2021, La Nuova Bussola Quotidiana
Passare dalle tre “S” (sacrificio, sacerdozio, sacramento), alle tre “T” (tavola, talamo, toilette): mangiare, copulare e occuparsi della reciproca pulizia, espressione del “prendersi cura”. Il caso di un forum col vescovo di Belluno delinea scenari da neo Chiesa senza più sacramenti.
La pandemia è diventata la ghiotta occasione per accelerare il processo di de-cristianizzazione della Chiesa cattolica. Dopo che l’idea di un “cambio di paradigma” nella Chiesa è stata sdoganata dall’attuale Pontefice, non passa giorno in cui non si abbiano notizie di applicazioni creative di questo nuovo ideale. Archiviato il principio dell’ermeneutica della riforma nella continuità, quasi fosse nient’altro che l’opinione personale di Benedetto XVI, non può che essere la fantasia la facoltà più produttiva di questa “stagione ecclesiale”.
Il 9 luglio scorso, il Vescovo della diocesi di Belluno, S. E. Mons. Renato Marangoni aveva preso parte ad un dibattito, organizzato dal forum di Limena, insieme ad Andrea Grillo. Titolo: la Chiesa che verrà (vedi qui). Ahi. Il titolo richiama un articolo di Ghislain Lafont, monaco benedettino dell’Abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire (fondata nel 1850 dalla grande figura di Jean-Baptiste Muard), pubblicato l’anno scorso sulla rivista Munera.
Nell’articolo, Lafont auspicava il passaggio da una Chiesa identificata nel binomio fides et sacramenta, che «corrispondeva a una percezione un po’ negativa della Rivelazione», ad una concepita come Evangelium et donum Spiritus Sancti. Lafont ritiene che questa “seconda chiesa” debba sì inglobare la fede e i sacramenti, ma mutandone il significato. La Chiesa, a dir suo, dovrebbe convertirsi, in funzione del lavoro comune per stabilire la fraternità tra gli uomini; «da rimedio per il peccato fondato su un’istituzione forte, opponibile a tutte le altre, dobbiamo passare a una capacità positiva di costruire la fraternità umana.
Da un atteggiamento esclusivo e ostile, giungere a un’apertura, a una comunicazione o persino a una collaborazione tra tutte le istituzioni. Passare dal denunciare l’errore (interno o esterno) a un incontro attivo per il bene». I riferimenti “profetici” di questa specie di conversione vengono rintracciati da Lafont nell’incontro interreligioso di Assisi, del 1986 e nell’appello di Abu Dhabi, del 2019. La dichiarazione Dominus Iesus, che si colloca in mezzo ai due “eventi profetici”, non viene ovviamente menzionata; anzi, dev’essere considerata uno spiacevole incidente del percorso, dal momento che la Chiesa che verrà è chiamata a rinunciare all’esclusività per accettare «di essere un mezzo, con altre Chiese, religioni, istituzioni non confessionali, di questa cultura attiva della fraternità».
Il senso del discorso è che non c’è (più) un’umanità da salvare: la salvezza «è già data, poiché il peccato è perdonato». Anche il Concilio Vaticano II dev’essere superato, in quanto esso, nel rapporto con le altre religioni, afferma pur sempre un ordine, «le cui forme sono pensate a partire dalla forma perfetta, quella cattolica». Brutta roba. Occorre invece privilegiare «l’aspetto dinamico: ognuna delle componenti di questo ordine articolato è ormai considerata nella sua capacità di costruire la fraternità umana».
Il passaggio è dunque tra questi due modelli di Chiesa: il primo basato sulla fede e sui sacramenti necessari per la salvezza eterna; il secondo su un Vangelo sine glossa, ossia, secondo la spiegazione di Lafont, che vada al di là delle formulazioni dogmatiche e magisteriali, per aprirsi ai doni dello Spirito. E questa conversione, necessaria per costruire la fraternità, deve comportare un «nuovo modo di fare e comprendere: il modo di dire la fede, quello di celebrare e pensare la liturgia, quello di assicurare il governo». Aspetti che certamente – Lafont ne è consapevole – incontrano forti resistenze; ma «chissà se il trauma della pandemia non vincerà queste resistenze?». Benedetta pandemia, che ci dà una mano a rovesciare la barca di Pietro!
E’ quello che si auspica Mons. Marangoni, evocando l’immagine dei discepoli di Emmaus di Arcabas (de gustibus...): «dopo l’incontro di Cleopa e del suo compagno con il Risorto l’artista raffigura la porta aperta, il cielo stellato, una sedia che si sta rovesciando… quella sedia che si sta rovesciando è un’immagine molto bella di Chiesa in questa stagione che stiamo vivendo». Contento lui, stiamo tutti più tranquilli.
Anche Andrea Grillo propone un cambio di paradigma, proponendo di passare da una Chiesa fondata sulle tre “S” (sacrificio, sacerdozio, sacramento), alle tre “T” (tavola, talamo, toilette). Sissignori: mangiare, copulare (non si capisce se il vincolo coniugale sia richiesto) e occuparsi della reciproca pulizia, espressione del “prendersi cura”.
Marangoni inizia così la rivoluzione auspicata dal duo Lafont-Grillo, rallegrandosi del fatto che la pandemia ha finalmente permesso di togliere i banchi e mettere le sedie. In effetti a tavola (la prima delle tre “T”) con una panca... è alquanto scomodo. Non osiamo immaginare cosa diventeranno le chiese quando si passerà al talamo e alla toilette.
Intanto però la pandemia sta offrendo l’opportunità di realizzare il grande sogno di detronizzare l’Eucaristia, che da fons et culmen della vita cristiana, viene letteralmente dissolta nel nuovo moralismo del “prendersi cura”. Altrove, infatti, (vedi qui), Ghislain Lafont ricordava che «il sacramento dell’eucaristia non sembra al primo posto nell’economia della fede. Ciò di cui si tratta per l’umanità è rendere a Dio un sacrificio spirituale che consiste interamente nella pratica della carità: verso Dio, verso se stesso, verso il prossimo. Sacrificio nella misura in cui questo si realizza nel movimento di donare, di chiedere, di ricevere, che è il ritmo stesso dell’amore e implica una felice rinuncia».
Di fronte alla proibizione di celebrare pubblicamente l’Eucaristia «avrei preferito con la mia comunità monastica continuare a celebrare insieme – almeno finché il Coronavirus non ci separi - la Liturgia delle Ore senza celebrare l’Eucaristia. Tenuto conto che non si può condividere l’Eucaristia con gli altri battezzati a noi vicini, ma la si può celebrare solo “tra noi” a porte chiuse».
Forse bisognerebbe riconsiderare con maggiore attenzione l’episodio che gli evangelisti Marco, Matteo e Giovanni mettono in luce, appena prima del tradimento del Signore. La condanna scandalizzata dell’unzione di Gesù da parte di Maria di Betania si unisce ad una inopportuna preoccupazione dei discepoli per i poveri. Il più scandalizzato è proprio lui, il traditore, che sembra anche il più zelante difensore dei “poveri”. In verità, san Giovanni lo smaschera: dei poveri non gli importava nulla.
E non poteva essere diversamente, perché non gli importava più nulla del Signore. Se l’Eucaristia non è al centro, se l’amore verso il Signore presente nell’Eucaristia non è più al primo posto – come auspicato da Lafont e dai suoi epigoni – il “prendersi cura”, la fratellanza, i poveri sono solo dei pretesti per nascondere la tremenda verità del tradimento. E Giuda era, a quanto pare, membro attivo del primo “collegio episcopale”.