«Siate forti! Non si deve cedere… Si deve combattere non con mezzi termini, ma con coraggio; non di nascosto, ma in pubblico; non a porte chiuse ma a cielo aperto»
(san Pio X).
Un altro denso articolo di Peter Kwasniewski, questa volta non di argomento liturgico.
QUI altri articoli del Nostro, su temi principalmente liturgici.
Luigi
18 Gennaio 2021, Marco Tosatti
Carissimi Stilumcuriali, pubblichiamo, ringraziando Carlo Schena per il prezioso lavoro di traduzione e di controllo del testo, il terzo articolo del dott. Peter Kwasniewski dedicato alla Dottrina Sociale della Chiesa. Un articolo che tocca – in maniera diremmo quasi provvidenziale, visto quello che sta accadendo – temi quali libertà di pensiero e censura. Buona lettura.
Venga il suo regno: La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica
Parte III – Libertà contro licenza
Questo articolo è apparso per la prima volta nell’edizione cartacea di giugno 2020 di Catholic Family News e ripreso il 18 luglio 2020 dal sito online della medesima testata.
Parte III: Libertà contro licenza
Gli uomini del moderno occidente (e forse gli americani più di tutti) tendono a provare una forma di amore – per non dire di ossessione – per la questione della libertà – “vivi libero o muori!” recita un motto assai comune oltreoceano – ma se li si interroga sul significato di questa parola ben pochi saprebbero fornirne una spiegazione coerente. Su questo come su tanti altri punti ci viene in aiuto la dottrina sociale della Chiesa, con un insegnamento chiaro, profondo e ricco di applicazioni pratiche.
L’enciclica Libertas Praestantissimum (1888) di Papa Leone XIII – a volte citata come De Libertate Humana o più semplicemente Libertas (in seguito: LP) – contiene quella che è di gran lunga la più ampia trattazione della libertà umana nel Magistero della Chiesa. L’enciclica può suddividersi in tre parti: il libero arbitrio (§3 – §6), il diritto (§7 – §13) e gli errori del liberalismo (§14 – §46) [La versione italiana disponibile sul sito della Santa Sede, a differenza di quella inglese, non è divisa in paragrafi, NdT]. Già dal primo paragrafo emerge il tono dell’enciclica. La libertà conferisce all’uomo la dignità di essere padrone delle sue azioni, eppure questa stessa libertà può essere il mezzo non solo per raggiungere il sommo bene, ma anche per sprofondare nel male più infimo. Sebbene Nostro Signore Gesù Cristo abbia liberato l’uomo dal peccato e gli abbia donato un’autentica libertà spirituale, alcuni pensano che la Chiesa sia nemica della libertà umana perché ne hanno un’idea perversa o esagerata (§1). Il resto dell’enciclica sviluppa questo concetto: una vera nozione di libertà messa a confronto con una nozione falsa e assurda, e le implicazioni politiche di ciascuna.
La Libertà e il Bisogno della Legge
Leone XIII incomincia con un’analisi filosofica che molto deve a San Tommaso d’Aquino. La libertà naturale è definita come la “facoltà di scegliere i mezzi idonei allo scopo che ci si è proposti” (§5). Dal momento che “la libertà è tutt’uno con la volontà […] ne consegue che anch’essa, come la volontà, [tenda verso un] bene conforme a ragione” (§5), vale a dire verso qualcosa che la ragione percepisce essere buono e giudica degno di essere scelto. Tuttavia, tanto la ragione quanto la volontà sono facoltà imperfette e possono commettere errori. La ragione può ritenere buona una cosa che, in realtà, per una determinata persona è un male; quando la volontà, che dipende dalla ragione, agisce liberamente secondo questo falso giudizio, ciò che ne risulta è il peccato (§6). Quindi il peccato sta alla libertà come la malattia sta alla salute, mentre una libertà perfetta che agisca con perfetta saggezza compirebbe sempre e senza eccezioni ciò che è meglio. Dio e i santi, che non possono scegliere il male, non sono meno liberi, ma più liberi, mentre più il peccatore pecca, più diventa schiavo del peccato (cfr. Gv 8,34).
Dal momento che è fallibile, il nostro esercizio del libero arbitrio, in questo mondo, ha bisogno di “idonei e saldi presidi che [indirizzino] al bene tutti i suoi impulsi e [lo allontanino] dal male”. In una parola, abbiamo bisogno della legge, una determinazione della ragione che prescriva alla volontà ciò che essa dovrebbe seguire o evitare per raggiungere il fine ultimo dell’uomo (§7). La legge naturale scolpita nell’anima di ogni uomo è “l’umana ragione che ci ordina di agire rettamente e ci vieta di peccare” (§8). Questa legge è la partecipazione della creatura razionale alla legge eterna che è Dio stesso, intelligenza e bontà infinite, Creatore e Dominatore di tutto il mondo.
“Ciò che la ragione e la legge naturale operano nei singoli uomini, del pari [realizza] nella società la legge umana promulgata per il bene comune dei cittadini” (§9). Le leggi umane non trovano la loro origine solamente nella società civile, né la loro correttezza deriva dal consenso umano; la loro origine si trova piuttosto nella legge naturale e nel suo modello eterno, e la loro funzione è quella di specificare quanto i cittadini devono fare o non fare per servire il bene comune, nonché di neutralizzare coloro che sono intenzionati a danneggiarlo. Quindi,
“nella società umana la libertà nel vero senso della parola, non consiste nel fare ciò che piace (cosa che porterebbe a grande disordine e confusione, e in definitiva all’oppressione del popolo) ma consiste nel vivere più facilmente in conformità ai dettami della legge eterna proprio grazie alle leggi civili”. (§10) [adattamento all’italiano corrente ad opera del traduttore, NdT]
La libertà vera, o “morale”, consiste in realtà nel “poter vivere ciascuno secondo le [giuste] leggi e la retta ragione” (§13).
L’Errore del Liberalismo
Passando al tema del liberalismo, Leone XIII non usa mezzi termini: il liberale, che “abusa della libertà per tradirla”, è un imitatore di Lucifero, “che lanciò quell’empio grido: non servirò”(§14). Il liberalismo è la controparte sociale del naturalismo e del razionalismo, in base ai quali si riconosce il primato della sola ragione umana, e viene rifiutata ogni sottomissione all’autorità di Dio e della sua Chiesa (§15; cfr. §36 ss.). Questo rende ogni uomo “legge per sé stesso”, e la società civile il prodotto della volontà collettiva; l’autorità civile si considera derivata dal mero consenso dei governati, e la giustizia delle leggi si ritiene coincidere col fatto di essere volute dalle “autorità”. Tali errori distruggono la distinzione tra bene e male, fanno di ciò che più aggrada il criterio della legalità e aprono la strada alla corruzione universale, “che è la via inclinata verso il regime tirannico” (§16). In una società del genere è inevitabile “l’abolizione di ogni culto pubblico e la massima incuria per tutto ciò che ha attinenza con la religione” – uno dei tanti esempi in cui questo grande pontefice prevede lo stato del mondo in cui oggi viviamo, nel quale il liberalismo è così onnipresente da non essere più nemmeno riconosciuto come tale.
Più avanti, Leone XIII presenta un insegnamento che oggi farebbe molto discutere, e attacca frontalmente “la funesta opinione che la Chiesa deve essere separata dallo Stato”, una posizione “assurda” che nega in sostanza il legame tra la vita quotidiana dell’uomo e il suo destino eterno (§18). Con un discorso che mostra quanto “integralista” sia in realtà la posizione cattolica tradizionale, Leone insegna che i governanti sono tenuti a provvedere non solo alla prosperità terrena della nazione, ma anche, e maggiormente, a coltivare il bene spirituale del popolo. Il potere politico è dato da Dio (e non dal popolo) per guidare a Dio gli uomini. ”Perciò è necessario che la società civile, proprio in quanto società, riconosca Dio come padre e creatore suo proprio, e che tema e veneri il suo potere e la sua sovranità. Pertanto, la giustizia e la ragione vietano che lo Stato sia ateo” (§21). L’armonia che dovrebbe esistere tra Chiesa e Stato può essere paragonata alla relazione tra anima e corpo. Se l’anima è separata dal corpo, la prima rimane viva perché immortale, ma il secondo muore e ritorna in cenere (ibid.).
Le Libertà Destabilizzanti della Modernità
Dopo aver chiarito questi principi, Papa Leone XIII prende in considerazione diverse libertà propugnate dal liberalismo – la libertà di religione (§19-§22), la libertà di parola (§23), la libertà accademica (§24-§29), la libertà di coscienza (§30) – spiegando perché una libertà illimitata in ciascuno di questi casi è impossibile in teoria e tremendamente destabilizzante ogni volta che si prova a attuarla in pratica. ”Infatti il diritto [ius] è una facoltà morale: è assurdo pensare che essa sia concessa dalla natura in modo promiscuo e accomunata alla verità e alla menzogna, alla onestà e alla turpitudine” (§23). ”Ripugna alla ragione che la menzogna abbia gli stessi diritti della verità” (§34). Dal momento che l’errore e il vizio morale si oppongono direttamente al bene comune della società, essi non possono avanzare alcuna pretesa di protezione da parte dell’autorità civile. ”Non è assolutamente lecito invocare, difendere, concedere una ibrida [cioè confusa, incondizionata, NdT] libertà di pensiero, di stampa, di parola, d’insegnamento o di culto, come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo. Infatti, se veramente la natura li avesse concessi, sarebbe lecito ricusare il dominio di Dio” (§42). Più tardi torneremo sul punto e approfondiremo la questione della libertà di parola.
Ma si può ancora dire che esiste una libertà di coscienza? Possiamo dare un significato legittimo a questa espressione oggi così popolare? Certo, risponde Leone XIII, e la Chiesa lo ha sempre fatto:
“all’uomo è lecito, nel civile consorzio, seguire la volontà e i comandamenti di Dio secondo coscienza e senza impedimento alcuno. Questa vera libertà, degna dei figli di Dio, che assai giustamente tutela la dignità della persona umana […] attesta ad un tempo il supremo e giustissimo potere di Dio sugli uomini e l’assoluto e primario dovere degli uomini verso Dio”. (§30)
La libertà di coscienza è non solo legittima, ma è una delle libertà umane più nobili, una libertà per la quale hanno dato la vita innumerevoli martiri. Il punto cruciale è però di capire che “libertà” qui significa l’uso corretto della nostra volontà in direzione del Bene Supremo e di tutto ciò che è in armonia con quel Bene, mentre “coscienza” significa una facoltà di giudizio pratico ben informata.
La Tolleranza Prudenziale del Male
Come a voler rispondere a una domanda che sa presente nella mente dei suoi lettori, Leone XIII unisce alla sua critica del liberalismo una elaborata chiosa sulla necessità di una politica di tolleranza in alcuni Stati (§33-§35).
“Tuttavia la Chiesa, con intelligenza materna, considera il grave peso della umana fragilità e non ignora quale sia il corso degli animi e delle vicende da cui è trascinata la nostra età. Per queste ragioni, senza attribuire diritti se non alla verità e alla rettitudine, la Chiesa non vieta che il pubblico potere tolleri qualcosa non conforme alla verità e alla giustizia, o per evitare un male maggiore o per conseguire e preservare un bene”. (§33)
Anche Dio – dice il papa – permette alcuni mali affinché non venga impedito un bene maggiore o ne derivi un male maggiore. Sebbene una simile tolleranza possa essere giustificata dalle esigenze del bene comune, il male non può mai cessare di essere chiamato male, né può essere approvato o considerato desiderabile, quasi che la condizione migliore per uno Stato fosse quella in cui gli errori delle false religioni vengano tollerati o, peggio, incoraggiati in una sorta di relativismo delle pari opportunità. Più uno Stato è costretto a tollerare i mali, più è lontano dalla perfezione; quindi anche la tolleranza si deve limitare a quanto le circostanze rendono strettamente necessario, e ci sono dei momenti in cui la tolleranza di un dato male sarebbe sbagliata (§34). ”Se poi accade che, per particolari condizioni dello Stato, la Chiesa si adegui a certe moderne libertà [questo avviene] non perché le prediliga in quanto tali, ma perché giudica opportuno permetterle” ( ibid.). Il papa si premura anche di specificare quale tipo di liberalismo sta condannando (§37 – §46), chiarendo che “è onesto il parere” di coloro che vorrebbero che la Chiesa sia più tollerante con “quelle misure che nella amministrazione degli Stati sono suggerite dalla moderna avvedutezza”; a patto però che questo compromesso porti ad una “ragionevole equità che possa coesistere con la verità e la giustizia”, e che appaia chiaramente che si tratta una forma di accondiscendenza, uno stato di cose non ideale (§41).
Sebbene LP non affermi nulla che non possa ritrovarsi nelle pagine di San Tommaso d’Aquino o negli documenti pontifici precedenti, la sua splendida sintesi della dottrina cattolica sull’argomento trattato la rende un documento di eccezionale valore. Richiamata abitualmente dai papi della prima metà del ventesimo secolo, LP fa una comparsa quasi inaspettata nelle note a piè di pagina del Concilio Vaticano II (ad esempio, in Dignitatis Humanae e in Gaudium et Spes), per quanto il suo significato sia contraddetto dal tenore generale dell’insegnamento del Concilio; LP continua ad essere citata nel Magistero postconciliare (ad esempio, Centesimus annus, Veritatis Splendor, il CCC). Sembra quasi che un documento così imponente non possa venire semplicemente ignorato, ma che ad esso si debba fare almeno un cenno, anche solo di circostanza. È senz’altro auspicabile che venga un tempo in cui i vertici della Chiesa tornino a condividere realmente e senza riserve il suo insegnamento.
Il Problema delle Libertà Civili
Nel campo della filosofia politica, una domanda fondamentale che si ripropone quotidianamente, è quale misura di libertà di comportamento debba essere consentita, o sia connaturata, ai cittadini di uno stato – da qui il termine “libertà civili”, distinto da altri tipi di libertà (ad esempio, la libertà psicologica che coincide con la libera volontà, la libertà spirituale che coincide con la santità). Non tutto è lecito, poiché alcune azioni causano gravi danni alla vita della società; ma non tutti i comportamenti immorali possono essere proibiti, per evitare il rischio che una eccessiva tensione della nostra natura decaduta porti a confusione e disordini sociali.
Fino ai tempi moderni, quasi tutti i filosofi e i teologi concordavano sul fatto che qualsiasi esercizio significativo della libertà nella sfera pubblica – formare associazioni con altri, esprimere o pubblicare i propri pensieri, intraprendere atti di culto in comune, e simili – si doveva sottoporre a certi limiti per salvaguardare il bene comune della società, e che il governo avesse il potere e il dovere di imporre tali limiti. Nei paesi cattolici, i governanti erano tenuti a difendere la fede dall’eresia, e la legge dello stato doveva riflettere la legge naturale così come interpretata dalla Chiesa.
Il moderno problema delle libertà civili deriva dalla concezione laicista e individualista della vita sociale propria dell’Illuminismo, in cui il primato teorico è riconosciuto alla percezione del bene del singolo individuo, e il governo di una nazione diventa essenzialmente il portavoce, lo specchio e il gendarme dei cittadini. Nell’ambito del cosiddetto “contratto sociale” si presume che i cittadini abbiano diritto all’esercizio di tutte le libertà compatibili con “l’ordine pubblico”, inteso in senso positivistico. Ad esempio, ogni uomo deve essere lasciato totalmente libero di determinare il proprio credo religioso; di adorare un solo Dio, o venti dèi, o nessun dio; di difendere o attaccare, a voce o a mezzo stampa, qualunque opinione consideri giusta o sbagliata.
La risposta della Chiesa
Papa Gregorio XVI chiarì il principio di base nell’enciclica Mirari Vos (1832): una libertà illimitata di agire, di parlare o di pubblicare ogni fantasiosa opinione è una idea “assurda ed erronea”, che senza dubbio finirà per lacerare il tessuto sociale e causare la perdita di innumerevoli anime. Pio IX riaffermò questo giudizio nell’enciclica Quanta Cura (1864) e nell’allegato Sillabo degli errori (vedi punto n. LXXIX). Tuttavia bisogna attendere fino all’enciclica di cui abbiamo discusso, la Libertas Praestantissimum, perché la Chiesa formuli una trattazione esaustiva dell’argomento. Per Leone XIII, il riconoscimento e l’esercizio delle libertà civili si può comprendere soltanto in riferimento alla perfezione morale dell’individuo e al sano ordine della società civile – vale a dire in riferimento al perseguimento da parte del corpo sociale di quegli autentici beni comuni quali la pace, la giustizia, la verità e, in definitiva, Dio. Giovanni Paolo II coglie bene le preoccupazioni di papa Leone:
“In [Libertas Praestantissimum] era richiamato il legame costitutivo della libertà umana con la verità, tale che una libertà che rifiuti di vincolarsi alla verità scadrebbe in arbitrio e finirebbe col sottomettere se stessa alle passioni più vili e con l’autodistruggersi. Da cosa derivano, infatti, tutti i mali a cui la Rerum novarum vuole reagire se non da una libertà che, nel campo dell’attività economica e sociale, si distacca dalla verità dell’uomo?” (Centesimus Annus, d’ora in poi CA, §4)
L’errore, continua,
“consiste in una concezione della libertà umana che la sottrae all’obbedienza alla verità e, quindi, anche al dovere di rispettare i diritti degli altri uomini. Contenuto della libertà diventa allora l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e del prossimo, amore che conduce all’affermazione illimitata del proprio interesse e non si lascia limitare da alcun obbligo di giustizia”. (CA , §17)
Limiti Intrinseci alla Libertà di Parola
L’espressione “libertà di parola” è un modo per esprimere in breve la questione giuridico-politica di quale tipo di diritto di manifestare il proprio pensiero nella sfera pubblica appartiene alla persona, per legge naturale o civile, e di quali possano o debbano essere i limiti posti a questa attività . Questo argomento è un ottimo banco di prova per studiare come funzionano (o come dovrebbero funzionare) le libertà civili, perché mette in gioco tutti gli elementi della DSC.
L’analisi tipica della tradizione cattolica parte dall’osservazione di un dato della natura umana, cioè che il parlare è un’attività razionale che può essere svolta bene o male, nel modo giusto o nel modo sbagliato. Un esercizio corretto di tale attività si misura in base al suo scopo, che è, in generale, la comunicazione della verità, e quindi anche la scoperta e la difesa della verità (ivi incluse non solo verità teoretiche, ma anche consigli, opinioni, previsioni e simili, il tutto nell’ottica di avvicinarsi il più possibile alla verità). Da questa intima connessione tra mente umana e verità scaturisce un diritto inalienabile al corretto uso della parola in tutte le sue forme, che si traduce in una giusta pretesa che gli altri (privati cittadini o autorità pubbliche) rispettino tale diritto.
Andando a colpire la inclinazione naturale dell’intelletto alla verità, quando l’autorità pubblica va a proibire la giusta libertà di parola, essa compie né più né meno che un atto tirannico. Noti esempi di tale tirannia ci vengono dai regimi totalitari del ventesimo secolo, che idolatravano come “verità” l’una o l’altra ideologia, mettendo al bando tutti coloro che cercavano la verità al di fuori di essa (significativamente, il giornale del Partito Comunista Sovietico si chiamava Pravda, “Verità”.) Al contempo, i principi della tradizione cattolica fanno luce sull’errore contrario del liberalismo, che assolutizza i diritti ignorando o negando i beni determinati su cui essi poggiano, cioè scindendo l’esercizio di un’attività dal suo scopo naturale. Nelle democrazie liberali, la libertà di parola viene tipicamente intesa in termini assoluti e individualistici – cioè come una libertà intrinseca di dire o scrivere ciò che si vuole, con la sola condizione di non turbare un “ordine pubblico” positivisticamente inteso (cfr. CCC , 2109): esattamente quella che Gregorio XVI nel 1832 definiva “quella pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita «libertà della stampa» nel divulgare scritti di qualunque genere; libertà che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore” (Mirari Vos).
Qual è il Bene su cui si poggia la Libertà di Espressione?
A ben vedere, la facoltà di parola, come ogni cosa creata, è un bene finito; come ogni bene finito, essa è ordinata a un fine al di fuori di sé stessa, e la sua bontà consiste nel suo essere ordinata a quel fine, e soprattutto nel riuscire a raggiungerlo. L’uomo, per sua natura, non è né una bestia né un dio: è un animale sociale che vive la sua vita in una comunità di concittadini che condividono fatiche, piaceri e idee. La mente di un individuo è ordinata alla verità non solo in vista della sua perfezione, ma anche a beneficio degli altri che possono entrare in conversazione con lui. Dal momento che la mente umana nutre un desiderio naturale per la verità (e niente di meno della verità è degno di un simile desiderio), un oratore o uno scrittore deve agli altri consociati la verità stessa, e li danneggia quando si rifiuta di condividere quella conoscenza a cui essi hanno diritto, quando diffonde errori o quando, più semplicemente, mente (ed è questo il caso più ovvio di abuso della facoltà di parola).
Come spesso afferma sant’Agostino, qualsiasi cosa buona, ma suscettibile di abuso, non può essere un bene perfetto o incondizionato, ma è piuttosto un bene relativo e imperfetto, la cui bontà deriva strettamente dal bene maggiore verso cui tende. Di conseguenza, nessuno può vantare un “diritto” illimitato di usare, o esercitare, qualcosa che non è un bene illimitato; o, vista in senso positivo, si può fare liberamente uso di un bene limitato soltanto entro i debiti limiti. Due sono i limiti in questione: la verità, che si pone come misura o forma per la mente umana (e in questo senso la “limita”: quando una certa verità perfeziona la mia mente – ad esempio, il teorema di Pitagora – essa esclude al contempo tutte le opinioni matematiche incompatibili con tale teorema); e il bene degli altri membri della società, ai quali è dovuta la verità (tale condizione impone a chi parla in pubblico di esprimere soltanto quello che ritiene essere vero, e non in modo indiscriminato, ma tenendo conto delle giuste circostanze di pubblico, luogo, tempo, modalità e scopo).
In effetti, l’esistenza stessa della legittima autorità civile e di ciò che più l’aiuta, la pace o tranquillità dell’ordine (S. Agostino), dipendono dalla non assolutezza dei diritti individuali, e dalla superiorità rispetto ad essi dei beni comuni a tutti – beni tra i quali primeggia la verità, e in particolare la verità su Dio. Porre un diritto come illimitato equivale a favorire la tirannia, poiché in tale ipotesi chiunque detiene il potere può esercitare il suo “diritto” come vuole, e chi non detiene il potere viene semplicemente calpestato (cfr. LP 16 e 31; CA 44 e ss.). È proprio questa, in realtà, la premessa nascosta di un ordinamento giuridico positivistico: è solo in forza del “consenso comune”, sempre mutevole e sempre in mutamento, che una qualsiasi forma di comportamento è da considerarsi offensiva e punibile – o meno. Così, col tempo, anche l’omicidio dei bambini non nati e l’abominio della sodomia hanno trovato i loro difensori, ben pagati, e nella mente di molti sono stati rimossi, per così dire, dalla lista dei crimini. Se una società o un regime volta le spalle alla legge naturale, ogni valutazione morale si riduce ad atto di volontà positivista e auto-motivato; la legge diventa nient’altro che un riflesso dell’egoismo della maggioranza . Ovviamente, una simile perversione della vita sociale, incessantemente criticata dalla Chiesa cattolica, scaturisce da una visione dei diritti personali che non può trovare fondamento né su criteri naturali né soprannaturali.
L’Uomo non ha alcun Diritto di Abusare di un Potere che Dio gli dona
Dal momento che Dio ci ha donato la parola per scoprire, dichiarare, esaminare o difendere la verità, questo potere viene usato in modo virtuoso ogni volta che colui che parla si sforza, in buona coscienza, di dire la verità, e così di condurre gli altri alla conoscenza della verità o lontano dalla menzogna. Quando, invece, esso è usato per l’inganno, per la crudeltà, per lo spergiuro, per la depravazione morale, etc., colui che parla abusa del potere di parola, rinunciando così all’immunità che gli garantisce la legge naturale e rendendosi soggetto alla repressione da parte della legge dello stato. Quello della parola è un potere naturale, e l’uso della parola è un bene naturale: di conseguenza, l’ abuso della parola è contrario alla natura e non può essere un diritto naturale né civile.
Papa Pio XII ha ribadito l’insegnamento tradizionale per cui “l’errore non ha diritti”: ciò che è di per sé falso non può mai essere un bene per nessun intelletto (discorso Ci Riesce, 6 dicembre 1953). Per quanto l’errore non abbia diritti, tuttavia, non si può concludere che la persona che erra, l’errante, non abbia diritti; pertanto, le persone devono essere sempre trattate con rispetto, mentre gli errori e altri mali meritano disprezzo e, per quanto possibile, dovrebbero essere eradicati. Qualcosa come la pornografia non ha alcun diritto di esistere, né coloro che la producono hanno il diritto di farlo. Molti parlano in modo equivoco di questi “diritti”, ma essi sono pura finzione, come lo sono i cosiddetti “diritti” all’aborto, alla sterilizzazione, all’eutanasia, al “matrimonio” omosessuale e così via.
Per il bene della società nel suo insieme, l’autorità civile deve limitare, e in pratica ha sempre limitato, l’esercizio dei poteri naturali. Ad esempio, proprio come non posso uccidere o mutilare il vicino che mi dà fastidio, così non posso annunciare le mie opinioni in mezzo alla strada alle 3 del mattino; anzi, se le mie opinioni sono sufficientemente fastidiose, mi può essere proibito di esprimerle a qualsiasi ora del giorno o della notte. Un viaggiatore così sciocco da lasciarsi scappare, in aeroporto, una battuta come: “Immagino che quelle guardie non abbiano visto il coltello nella mia borsa”, verrebbe certamente perquisito in un lampo da un agente di sicurezza che sentisse per caso quel commento. Se nel mondo non ci fosse il male, si potrebbe permettere agli uomini di dire e fare tutto ciò che vogliono, e tutto andrebbe per il bene. La libertà di parola era illimitata nel Giardino dell’Eden, prima del Peccato Originale. Ma dal momento che al mondo ci sono i furfanti che operano il male, gli onesti cittadini hanno bisogno di essere protetti: altrimenti, sarà messa in pericolo la loro stessa felicità, e la comunità non potrà prosperare. Come scrisse Leone XIII: “Concessa a chiunque illimitata libertà di parola e di stampa, nulla rimarrà d’intatto e d’inviolato; non saranno neppure risparmiati quei supremi e veritieri principi di natura che sono da considerare come un comune e nobilissimo patrimonio del genere umano” (LP 23). Non c’è nemmeno bisogno di dimostrare quanto vera sia, oggi, questa osservazione.
Una Prudente Discrezionalità rispetto al Male
Ammesso, come la Chiesa ha sempre fatto, che lo Stato ha per sua stessa natura il diritto e il dovere di vietare gli usi nocivi della facoltà di parola, e persino di distruggere quelle pubblicazioni che minano il bene comune della società (cfr. Leone XIII, Immortale Dei; LP 23), rimane da affrontare ancora una domanda importante: come determinare la politica dello Stato nei confronti degli abusi della libertà di parola o di stampa?
Sulla scorta dell’Aquinate, Leone XIII insegna che i mali possono essere tollerati se, e soltanto se, i tentativi di abolirli porterebbero a un male ancora maggiore o impedissero un bene maggiore. Tale tolleranza non implica il volere positivamente detti mali, ma semplicemente permettere che questi non siano repressi (LP 33-35). La distinzione non è meramente semantica, perché sottolinea la verità per cui il governante non sceglie il fine ultimo del governo; ma sceglie piuttosto i mezzi con i quali, a suo giudizio, questo fine può essere raggiunto al meglio. Il fine supremo della società politica è il conseguimento del bene comune (vedi, ad esempio, Leone XIII, Immortale Dei e Rerum Novarum; Pio XII, Summi Pontificatus). È quindi evidente che ogni attività contraria al bene comune può essere legittimamente limitata o proibita dalla pubblica autorità.
Una posizione più o meno rigida nella concessione delle libertà civili e nella tolleranza dei mali legati alla libertà è rimessa alla prudente discrezione dello statista, che deve mirare alla massima realizzazione del bene comune nell’ambito delle possibilità offerte dalle circostanze concrete.
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