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lunedì 28 settembre 2020

Si può discutere di un pontificato senza essere bollati come reazionari?

Un'interessante e approfondita riflessione del Blog di Sabino Paciolla.
QUI l'articolo di Matzuzzi di cui si parla.
Il clima ormai è da Nord Corea (addirittura i neo nordcoreani di Vatican Insider  si inventano QUI il finto brocardo "De Papa numquam satis" manipolando il "De Maria numquam satis" di S. Bernardo da Chiaravalle).
QUI l'articolo "nordcoreano"  di Civiltà Cattolica
QUI  QUI e QUI un altro articolo sulla vicenda.
Luigi

Si può discutere di un pontificato senza essere bollati come reazionari? Cosa insegna il “caso Matzuzzi”
Settembre 24 2020

di Luca Del Pozzo

Il dibattito in corso circa la spinta propulsiva dell’attuale pontificato, innescato da un denso saggio del direttore della Civiltà Cattolica,(leggi anche qui), padre Antonio Spadaro (per inciso, saggio molto elegante e raffinato, che tra i tanti pregi ha anche quello di gettare una luce nuova, muovendo da altra angolatura, sui pontificati precedenti), è stato arricchito tra gli altri da un’intervento del vaticanista de Il Foglio, Matteo Matzuzzi, che al tema ha dedicato un’ampia ed articolata indagine. Indagine che fin dal titolo – “Il tramonto di un papato” – esprimeva una chiave di lettura diversa rispetto a quanto sostenuto da p. Spadaro. In estrema sintesi, per p. Spadaro la carica propulsiva del pontificato di Francesco non si è affatto esaurita, ma per poterla apprezzare occorre comprendere come per Francesco il concetto di governo della Chiesa e di riforma faccia tutt’uno con un processo di costante conversione e discernimento – categoria chiave della spiritualità ignaziana – che in quanto tale rifugge schemi precostituiti o idee nate a tavolino. “Si comprende così – scrive p. Spadaro – che la domanda su quale sia il «programma» di papa Francesco non ha senso. Il Papa non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alla situazione umana vulnerabile”. Il Papa, scrive ancora p. Spadaro, “…ha ben chiaro il contesto, la situazione di partenza; è informato, ascolta pareri; è saldamente aderente al presente. Tuttavia, la strada che intende percorrere è per lui davvero aperta, non c’è una road map soltanto teorica: il cammino si apre camminando”.

Dal canto suo Matzuzzi ha notato, a mo’ di premessa, che “avere un programma non è delittuoso”, e che anzi i cardinali quando debbono scegliere chi eleggere Papa “guardano bene cosa pensa e cosa no su determinati temi”. Secondo, e cosa più importante, durante il suo pontificato “Francesco una rotta ben impostata l’ha mostrata eccome“. Rotta tracciata nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013, laddove Francesco dice che “Ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti”. Insomma, se non un programma vero e proprio, quanto meno una chiara direzione di marcia. D’altra parte, guardando indietro a questi sette anni e mezzo di pontificato gli indizi che dicono di una visione programmatica non mancano. A partire dai primi mesi quando, nota Matzuzzi, “più che dello spirito si parlò dell’amministrazione, di uffici e personale: chirografi su chirografi, commissioni e comitati per riformare, cambiare aggiornare”. E questo non per caso ma perché “nelle congregazioni generali del pre Conclave, i cardinali avevano preteso da chiunque fosse stato eletto un giro di vite, una grande riforma che solo un Papa-manager… avrebbe potuto realizzare”. Altro elemento, la creazione del C9, l’organismo voluto da Francesco con l’incarico di rifomare la Curia, “talmente istituzionale e strutturato che all’origine aveva un componente per continente”; e ancora, l’indicazione, contenuta sempre in Evangelii gaudium, circa lo statuto delle Conferenze episcopali “che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”. Vi sono poi stati i vari Sinodi (a partire da quelli del 2014 e 2015 che portarono alla discussa Esortazione apostolica Amoris laetitia) i cui temi – sottolinea Matzuzzi – “li ha scelti Francesco. E ha scelto temi che sapeva essere divisivi; temi che avrebbero incendiato gli animi e creato spaccature allargando fossati già distanti l’uno dall’altro”. Non solo. Anche la scelta, sempre operata da Francesco, di affidare al card. Kasper la relazione che aprì e indirizzò i lavori del Concistoro che precedette il doppio Sinodo sulla famiglia, non fu certo una scelta “neutrale” se solo si tiene conto che Kasper “fin dai tempi di Giovanni Paolo II aveva chiesto meglio e più di altri il via libera al riaccostamento dei divorziati risposati alla comunione; richieste sempre rispedite al mittente dal duo Wojtyla-Ratzinger”. E lo stesso dicasi per Claudio Hummes, il cardinale brasiliano cui Francesco affidò il Sinodo sull’Amazzonia, “da sempre convinto peroratore del via libera ai viri probati”. A sostegno del fatto che la questione del “metodo” di governo di Francesco non è forse così chiara come vorrebbe p. Spadaro, Matzuzzi adduce altri tre elementi. Primo, le reazioni – “in qualche caso fuori dalle righe” – di chi si aspettava ben altri risultati dall’azione di governo di Francesco, dimostrano che “anche tra i più entusiasti sostenitori della linea caratterizzante il pontificato si era fatta strada l’idea che oltre alla volontà ignaziana di «riformare le persone dal di dentro» ci fosse pure la determinazione di riformare la chiesa stessa in modo irreversibile”; secondo, il fatto – ciò che rappresenta un problema non di poco conto – che “ogni assemblea sotto Francesco si è trasformata in una disputa mai risolta dal Papa”. Da qui la domanda, legittima, che Matzuzzi pone: “Siamo sicuri che lasciare tutto in questa indeterminatezza sia non solo opportuno ma anche sano?”. Vi è poi il terzo elemento, che riguarda da vicino la politica estera, per così dire, di Francesco, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina. Questione da cui emerge con chiarezza che c’è, eccome, un disegno preciso che punta alla distensione con il governo di Pechino, obiettivo in nome del quale “Non una parola su Hong Kong – ma molte sulle tensioni socio-politiche negli Stati Uniti, ad esempio – nulla sugli uiguri, nonostante due cardinali di santa romana chiesa…abbiano accusato Pechino di commettere nei confronti di quella popolazione un vero e proprio genocidio”. Fatti che per Matzuzzi non lasciano adito a dubbi: “Sono scelte, non improvvisazione”. Alla fine della sua lunga indagine Matzuzzi torna alla domanda che p. Spadaro ha posto come sottotitolo al suo saggio sul governo di Francesco, “E’ ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato?”, per sottolineare che se il direttore della Civiltà Cattolica ha dovuto ribadire che cosa Francesco intenda per riforma e cosa no, forse questo significa che “qualcosa è andato storto: o nella comprensione del modo di governare di questo Papa (modo, non stile) o nel fatto che effettivamente il pontificato ha incontrato qualche ostacolo di troppo non previsto, e la spinta propulsiva ha subìto una battuta d’arresto”.

Come si vede, un’indagine argomentata e dai toni assolutamente pacati. Ma tanto è bastato perché al povero Matzuzzi fosse affibbiato lo stigma di “reazionario” dalla solita cerchia degli autoproclamatisi guardiani della rivoluzione, con l’aggiunta di commenti e giudizi (questi sì “reazionari”) che non hanno fatto altro che confermare, con buona pace della narrativa mainstream, l’accresciuto nervosismo di certi ambienti. Tra l’altro, sono essi per primi a rendere un pessimo servizio al Papa che non ha certo bisogno di improbabili avvocati d’ufficio; tanto più che stiamo parlando di un pontefice – come ebbe a sottolineare uno dei più autorevoli vaticanisti d’Oltreoceano, John Allen, che “ha invitato un robusto ed aperto dibattito sui problemi della Chiesa, che comprende certamente la sua leadership. Quando qualcuno esprime riserve, quindi, non è tanto un atto di sfida quanto uno di obbedienza”. Sarebbe oltremodo sciocco pensare che un saggio come quello di p. Spadaro potesse passare inosservato, siccome tocca un tema di assoluta rilevanza per chiunque, credente o no, segua da vicino le vicende della Chiesa. In esso p. Spadaro ha dato una lettura del governo di Francesco che si può condividere o meno. Così come si può condividere, in tutto in parte o per nulla, ciò che sull’argomento ha scritto Matzuzzi o altri che pure hanno affrontato la questione. Per fare un altro esempio, appare alquanto discutibile l’affermazione “I Papi non fanno programmi, seguono il vento dello Spirito”, con cui Maurizio Crippa (altra firma del Foglio) ha chiuso un suo recente intervento sulla vicenda dopo essersi premurato di ricordare i fallimenti (a suo dire, s’intende) dei programmi dei papi che hanno preceduto Francesco, da Paolo VI a Benedetto XVI passando per Giovanni Paolo II, per sottolineare di contro quanto siano ancora feconde e valide le intuizioni originarie di ciascuno. Si tratta di un’affermazione discutibile per due motivi. Primo, perché non necessariamente l’una cosa esclude l’altra, tenuto conto che un programma di governo altro non è se non il tentativo di tradurre nella realtà ciò che lo Spirito suggerisce (e viceversa: seguire lo Spirito non è mai una cosa astratta, e anzi comporta e richiede sempre indirizzi concreti e scelte precise). Secondo, e cosa più importante, perché è tutto da capire di quale Spirito stiamo parlando. Se cioè si tratta della terza persona della Trinità o di qualcos’altro. La qual cosa, evidentemente, non è affatto così scontata come potrebbe sembrare (neanche quando c’è di mezzo un Papa) né tanto meno indifferente. A meno che qualcuno non ritenga davvero un seguire lo Spirito e il “ripartire dall’annuncio del Vangelo e dalla testimonianza, dall’abc delle preghiere e dal catechismo della misericordia”, come scrive Crippa, una predicazione ecclesiale centrata per lo più sulla denuncia dei mali della società e dei problemi che affliggono la Chiesa, muovendo da una prospettiva che da più di un osservatore è stata definita sine ira ac studio “troppo umana”. Per non parlare di quelli che, sempre per restare sull’attuale corso ecclesiale, per Crippa sarebbero dei “semi” che un domani germoglieranno; ad esempio, “lo sguardo sulla diversità sessuale” che – udite udite – “è semplicemente la presa d’atto di quel che il mondo vive”. Cioè, vediamo se abbiamo capito: il mondo vive l’omosessualità né più né meno come un fatto assolutamente normale e la semplice presa d’atto di questo fenomeno sarebbe addirittura un “seme”?? Seguendo questo ragionamento se un domani (per altro non molto lontano) il mondo sdoganasse la pedofilia (vedi anche qui), che facciamo? Anche in questo caso la Chiesa dovrebbe “prendere atto” e basta in ossequio ad una malintesa interpretazione del principio di realtà? Va bene che voltarsi indietro vagheggiando i bei tempi andati è un esercizio tanto inutile quanto velleitario così come, all’opposto, propugnare improbabili balzi in avanti verso una Chiesa solo immaginaria; ma da qui ad attestarsi su una posizione ultra-realista, ce ne passa (e da questo punto di vista, ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano per cui lo accenno solo, sarebbe da approfondire quanto dietro certe posizioni discendano da una imprecisa teologia dell’Incarnazione). E’ vero che ai suoi tempi, come ebbe a dire il gesuita in chief padre Arturo Sosa, non c’erano registratori, però da quei Vangeli nei quali noi semplici pecorelle ci ostiniamo a credere risulta che fin dall’inizio della sua predicazione Gesù non faceva altro che ripetere “convertitevi e credete al Vangelo”: dice niente? O la Chiesa non crede più che bene e male siano concetti oggettivi e in quanto tali indisponibii all’”Io e alle sue voglie”, per usare un’espressione cara a Benedetto XVI? Oppure quello che predicava Gesù andava bene allora mentre oggi c’è bisogno d’altro? Un conto è la sacrosanta necessità di incarnare nell’oggi il Vangelo, tutt’altra faccenda è la tentazione di (ri)scrivere di volta in volta un vangelo diverso a seconda dell’oggi e della situazione che si ha davanti. 

Tornando alle (scomposte) reazioni nei confronti dell’indagine di Matzuzzi, va ribadito che le osservazioni in essa sollevate possono non piacere ma restano più che legittime. Per sua natura il ministero petrino non ha solo una dimensione spirituale, ma anche pastorale e di governo che, in quanto tali, richiedono una chiara visione dei problemi sul tappeto e un’altrettanto chiara rotta da seguire. Che poi lo si voglia chiamare programma o in altro modo poco importa. Ma di sicuro un pontefice non può permettersi il lusso di navigare a vista (né questo, by the way, è il caso di Francesco, come lo stesso Matzuzzi ha dimostrato), altrimenti è a rischio l’essenza stessa di ogni pontificato, quell’essere la “roccia” che conferma i fratelli nella fede. Anche per questo certe reazioni appaiono sempre stonate e fuori luogo. Intendiamoci, non che sia una novità. Non è stata la prima e non sarà l’ultima volta che chi, svolgendo il suo lavoro, solleva dubbi o muove una qualche seppur rispettosa critica, viene fatto oggetto di attacchi. Per tacere di episodi sfociati nel grottesco come quando – lo ricordò il diretto interessato in un’intervista che gli feci per Tempi – pretoriani e custodi vari promossero nei confronti di Vittorio Messori, reo di aver dato voce ad alcune rispettose perplessità nei confronti di Francesco, niente meno che la formazione di un comitato che pretendeva (sic!) che il Corriere della Sera gli sospendesse la collaborazione. L’aspetto singolare di quella vicenda, e che si ripresenta tale e quale oggi, fu che gli attacchi a Messori giunsero da quegli stessi ambienti che, anni addietro, contestavano un giorno sì e l’altro pure la Chiesa e i papi di allora (Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI). Con una piccola differenza: che quando un pontefice viene criticato, per semplificare, da sinistra, è lui che sbaglia e i suoi critici sono tutti martiri del libero pensiero; quando invece il Papa è criticato da destra allora è lui che ha ragione e i suoi detrattori hanno torto marcio. Al solito, due pesi e due misure. Ma tant’è. E’ una delle costanti della storia, non solo ecclesiale, che chi ieri stava sulle barricate e contestava, poi te lo ritrovi dall’altra parte a sventolare cartellini rossi. Lupi che hanno perso il pelo ma non il vizio di ergersi a maestrini col ditino sempre puntato, con la stessa sicumera e lo stesso tono altezzoso con cui di volta in volta a papi, vescovi ed “eretici” di turno, pretendono di insegnare come debba essere la Chiesa e come si debba vivere il Vangelo. Avanti il prossimo.

2 commenti:

  1. Perché? L'essere reazionario è diventato un marchio d'infamia? Con lo schifo nel quale hanno precipitato la Chiesa dagli anni '60 in qua, direi che essere PERLOMENO reazionario è il minimo che si possa fare.

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  2. Ma soprattutto è da reazionari porsi il problema se l'attuale chiesa sia ancora "Chiesa Cattolica"?

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