Qualche interessante notizia di politica ecclesiale.
E, di nuovo, il ritorno di fiamma di Enzo Bianchi.
Luigi C.
Cei striglia il Governo ma batte cassa. Cazzuola salesiana, mura progressiste
Eusebio Episcopo, Lo Spiffero, 8-9-24
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L’ultimo numero della Rivista di Pastorale Liturgica, organo dell’esoterica casta dei liturgisti italiani, è dedicato al tema dei «Riti senza preti». Lo studio ha come premessa il solito refrain del «cambiamento d’epoca» che comprende anche la consueta «fine della cristianità», uno degli argomenti in conseguenza del quale non vale più la pena evangelizzare ma stare comodamente accoccolati nel presente, per cui non si esige più la conversione personale di se stessi a Gesù Cristo, ma bensì «una riforma ecclesiastica che accetti di guardare in faccia e gestire la paura della perdita connessa al cambiamento, concentrandosi sull’essenziale: la vita della comunità dei battezzati che trova la sua ragion d’essere nella fede in Gesù Cristo. Questo cambiamento riguarderà anche il ministero presbiterale e il ruolo dei laici quali presidenti di celebrazioni liturgiche». Insomma, poiché senza sacerdote non vi è Eucaristia, siamo alla comunità che celebra sé stessa anzi, come avrebbe detto Joseph Ratzinger, «all’introdursi di un attivismo sociologico nella liturgia».
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Una delle scene più spassose del film di Carlo Verdone Un sacco bello è quella in cui il prete progressista, don Alfio, chiamato dall’amico Mario (un memorabile Mario Brega) ad ascoltare i deliri dello svampito figlio hippy, a un certo punto si alza e dice: «Me vado a lavà le mani come quando Pilato se lavò le mani davanti a... a...». Al che Mario sbotta: «A nostro Signore! Santa Madonna, manco le basi del mestiere te ricordi! Ma che ca...o, Arfio!!!» Così il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, che ha assunto una postura molto critica verso il governo, in una intervista fiume di due pagine su Avvenire, dove ha parlato di argomenti essenziali come la riforma istituzionale, l’autonomia differenziata, l’immigrazione e altri temi politici, mai una volta ha nominato Gesù Cristo. Per salvare gli uomini basta la politica operando, secondo i suggerimenti del cardinale e della Cei – diventata sotto la sua presidenza una sorta di sezione clericale del Pd – le «mediazioni al rialzo» e accodandosi alla narrazione quotidiana della Sinistra per cui Zuppi ha potuto fare una affermazione che sulla bocca, non solo di un vescovo, ma anche di un semplice cristiano, ha dell’incredibile: «Il ruolo della Chiesa non è quello di contrapporsi ai processi culturali», ma di sovvenire alle necessità della gente e dei poveri.
Come diceva una certa Madre Teresa di Calcutta «la prima povertà dei popoli è non conoscere Cristo» e Benedetto XVI, dopo aver citato queste sue parole, aggiungeva «Chi non dà Dio dà troppo poco». Il predecessore di Zuppi sulla cattedra di San Petronio, il cardinale Giacomo Biffi, scriveva nel lontano 2000: «Deve essere ben chiaro che non è di per sé compito della Chiesa risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Compito nostro e inderogabile è invece l’annuncio del Vangelo e l’osservanza del comandamento dell’amore. Dovere statutario della Chiesa cattolica, e di essa di ogni battezzato, è di far conoscere a tutti esplicitamente Gesù di Nazaret, il figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell’universo, unico salvatore dell’umanità intera». Per tornare ancora più indietro nel tempo ricordiamo come il fondatore di Cl, don Luigi Giussani – i cui presunti eredi in terra subalpina sono oggi impegnati nella pia pratica dell’occupazione di posti nei Cda delle fondazioni bancarie – ebbe a criticare nel 1976 il titolo del famoso convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, affermando che si sarebbe dovuto sostituire la «e» congiunzione con il verbo «è» in quanto, annunciare il Vangelo, è la prima promozione dell’uomo e dei veri valori umani.
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Nell’entourage del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, incaricato dei rapporti con la Chiesa ed esponente di spicco di Alleanza Cattolica, circola una battuta e cioè che la Cei telefoni a Palazzo Chigi solo ed esclusivamente per questione di soldi. Pare infatti che, secondo la premier Giorgia Meloni, i vescovi siano un po’ troppo attenti all’8 per mille. Pochi però sanno che all’inizio di quest’anno, proprio per una decisione di Mantovano, si è puntato a rafforzare la devoluzione dell’8 per mille allo Stato con lo scopo di potenziare le politiche antidroga: una decisione che alla Cei non è proprio andata giù e in un incontro avvenuto in primavera tra Zuppi e Mantovano, alla presenza della premier, c’è stato un mezzo scontro. Di qui la raffica di prese di posizione contro il Governo da parte di alcuni vescovi, tra cui si è distinto quell’inguaribile presenzialista del vicepresidente della Cei, monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Ionio, il quale, con toni veementi, ha definito la legge sull’autonomia differenziata un «pericolo mortale», paventando il rischio di creare il Far West. A lui ha risposto il governatore del Veneto, Luca Zaia, dichiarando che «come cattolico trovo offensivo che si ipotizzino cattolici buoni e cattivi, così “cattivi” da pianificare di lasciar morire di fame i primi» e, auspicando il dialogo, ha ricordato cosa disse il siciliano don Luigi Sturzo nel 1949: «Sono unitario ma federalista impenitente». Per la Sinistra, tali interventismi episcopali sulle leggi non sono configurabili come intromissioni o invasioni di campo in munere alieno, ma giuste e profetiche parole. Lo sarebbero state soltanto se, come avveniva ai tempi di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, si fossero criticate le leggi su aborto ed eutanasia. Allora sì, ci si sarebbe stracciate le vesti, concretizzandosi una grave lesione dei principi dello Stato laico con conseguente denuncia del Concordato, non solo da parte dei laicisti, ma anche dei «cattolici adulti». Eppure, anche papa Francesco, fin dal 2015, aveva messo in guardia i vescovi italiani dal volersi intromettere nella politica spiegando che dovevano piuttosto «essere testimoni gioiosi del Cristo Risorto per trasmettere gioia e speranza agli altri».
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Continua, incessante e senza posa, l’opera di monumentalizzazione e di autoesaltazione dell’ex priore di Bose, Enzo Bianchi, assurto ormai al rango di un Padre della Chiesa progressista. In un suo recente fondo egli ha trattato del bene comune che «deriva dall’esercizio sempre rinnovato della giustizia e, di conseguenza, della solidarietà, della legalità, dell’equità, della responsabilità» avendo come suo fondamento la fraternità. Valori sacrosanti mancanti però di quei principi che, per un cattolico, dovrebbero essere a fondamento di tutti gli altri – l’espressione «non negoziabili» è ormai impronunciabile – e cioè la tutela della vita in tutte le sue fasi, il riconoscimento e la promozione della struttura naturale della famiglia quale unione fra un uomo e una donna fondata sul matrimonio, la tutela del diritto dei genitori a educare i propri figli. In una intervista successiva, l’attuale superiore della Madia di Albiano d’Ivrea si lascia andare alle amare considerazioni di quella generazione – la sua – che vide «grandi occasioni di riforme: Papa Giovanni, il Concilio, Papa Francesco» constatando che dopo queste aperture la Chiesa si è richiusa; non è detto, ma è chiaro che la colpa di siffatto regresso è da addebitare a San Paolo VI, San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Oggi a quelle proposte crede soltanto «una minoranza, un piccolo gregge che ha la forza di praticare la radicalità del Vangelo», cioè i puri. Mentre gli altri, naturalmente nemici di Francesco, cioè la maggioranza dei cattolici, sono «persone dal cuore duro che hanno la grande pretesa di essere sempre nella verità, che hanno bisogno di nettezza: tenebra di fronte a luce».
La purezza di cuore e la trasparenza di fratel Enzo risplende invece, contro le tenebra di fantomatici nemici, nella prima parte dell’intervista dove, richiesto di cosa fosse successo nel 2020 da indurre il Vaticano – cioè il papa – ad allontanarlo da Bose, il guru risponde che le accuse contro di lui erano fondate «su non si sa bene cosa» accennando, con dire criptico e allusivo, ad una persona nel quale aveva riposto la sua fiducia – un traditore – che «improvvisamente e senza che ve ne siano ragioni, ti consegna a chi può farti del male». Perdonarlo? «No, non ci riesco ancora. Se si è onesti con sé stessi dobbiamo sapere che il tempo deve fare il suo cammino, poi si vedrà». Unico conforto, le parole di papa Francesco che, dopo averlo allontanato, gli scrisse: «Stai in croce e verrà l’ora che capirai». Da tale paradossale e inquietante vicenda, il comune osservatore di cose ecclesiastiche trae sempre più la convinzione che ciò che veramente successe a Bose nel 2020 sia ormai paragonabile, per illazioni e mezze verità, al quarto segreto di Fatima e che i suoi attori debbano ancora regolare tutti i conti. Per chi accusa gli altri di essere figli delle tenebre non c’è male, eppure si vorrebbe conoscere – in primis dall’Autorità che dispose il provvedimento – soltanto la verità di come andarono veramente le cose in quel modello di fraternità che era la Bose di Enzo Bianchi e compagni. Il quale, rispondendo a quanti negano che il sinodo di ottobre abbia come scopo cambiamenti nelle posizioni tradizionali della Chiesa, afferma: «Vedrai che non porterà molto né sul ruolo delle donne, né sull’omosessualità».
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