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mercoledì 25 luglio 2018

Il Requiem per Guareschi: l'omelia di Don Marino Neri e la galleria fotografica

Riprendiamo dal sito degli amici del CNSP la cronaca della S. Messa di Requiem celebrata sabato scorso in occasione del 50° anniversario della morte di Giovannino Guareschi.


È stata celebrata sabato 21 luglio, nella chiesa parrocchiale di Roncole Verdi, dedicata a S. Michele Arcangelo, l’annunciata S. Messa di Requiem nel cinquantenario della scomparsa di Giovannino Guareschi, che cadeva l’indomani, 22 luglio, domenica. La S. Messa cantata è stata officiata da Don Marino Neri, Parroco di Linarolo (PV) e Segretario dell’Amicizia Sacerdotale Summorum Pontificum. Ha assistito anche il Parroco di Roncole, Don Gianni Fratelli, che con grande disponibilità ha accolto la cerimonia nella chiesa parrocchiale. Il canto è stato curato dalla Schola Cantorum di Cremona.

La celebrazione è stata promossa dal Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum, che ha voluto così commemorare con la solenne preghiera di suffragio della Chiesa il grande scrittore, innamorato della S. Messa di sempre. L’opera e la testimonianza di Guareschi, sia come romanziere e novellista, sia come giornalista, hanno concorso in modo particolarmente efficace a mantenere vivo anche nelle giovani generazioni il desiderio della liturgia tradizionale, favorendone e quasi anticipandone la rinascita conseguente al Motu Proprio Summorum Pontificum.



La S. Messa, originariamente pensata solo come commosso ed affettuoso omaggio alla memoria del creatore del Mondo Piccolo, ha poi assunto il carattere del ricordo ufficiale. Al CNSP si sono affiancati, quali promotori della celebrazione, la Delegazione Provinciale di Parma dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore delle Reali Tombe del Pantheon e la Delegazione per l’Emilia Romagna degli Ordini Dinastici di Casa Savoia. Guareschi, come sappiamo, fu incrollabilmente monarchico per tutta la vita, mantenendosi anche in questo sempre esemplarmente fedele a ciò in cui credeva, ed è stato dunque ricordato anche in questo non secondario aspetto della sua ricca personalità.


Alla S. Messa ha assistito la Famiglia Guareschi, nelle persone del figlio Alberto (l’Albertino di cui così spesso scrisse il padre), della nipote Angelica e di numerosi pronipoti. Alberto Guareschi ha voluto sedere nel banco occupato di consueto dalla famiglia, anche in ricordo della sorella Carlotta (la Pasionaria), scomparsa nel 2015. A sottolineare il carattere di ricordo pubblico dell’Autore, hanno voluto essere presenti al rito, con i gonfaloni comunali, il Dott. Giancarlo Cottini, Sindaco di Busseto, nel cui territorio si trova Roncole Verdi, che fu la residenza in vita dello scrittore e ne ospita l’ultima dimora; e il Dott. Marco Antonioli, Sindaco di Roccabianca, comune natale di Giovannino. Al termine, dopo l’assoluzione impartita dal celebrante, i due Sindaci hanno deposto una corona sulla tomba di Guerreschi.


Erano anche presenti, con i labari dell’Istituto, Dionigi Ruggeri, Ispettore per l’Emilia-Romagna dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon; Roberto Spagnoli, Delegato per la Provincia di Parma dell’Istituto; Raffaele Galliani, Delegato per la Provincia di Bologna dell’Istituto; Daniele Tizzoni, Delegato per la Provincia di Piacenza. Erano altresì presenti il Delegato Regionale degli Ordini Dinastici di Casa Savoia accompagnato dal Vicario per la Provincia di Reggio Emilia, Alessandro Nironi Ferraroni. Tra i fedeli, infine, numerosi amici provenienti dai Coetus Fidelium delle province di Parma, Piacenza e Reggio Emilia.


Di particolare momento la bellissima omelia pronunciata da Don Marino Neri, che Vi offriamo qui di seguito. Al termine, Vi proponiamo una piccola galleria fotografica della giornata.


Omelia pronunciata da Don Marino Neri durante la S. Messa di suffragio per Giovannino Guareschi nel cinquantesimo anniversario della morte. 

Roncole Verdi, 21 luglio 2018 

Carissimi fedeli, da questa solenne liturgia di suffragio, che decanta meravigliosamente e implora la Misericordia divina sull’anima del defunto, siamo provocati a riflettere su quello che è il fine della vita di un uomo, a partire dal quale essa potrà, in ultima analisi, dirsi realizzata pienamente o fallita irrimediabilmente! 

La considerazione del fine, infatti, è la prima cosa da farsi nell’approcciare una qualsiasi realtà dinamica, non statica, come è la vita umana. Poiché la vita cristiana è essenzialmente dinamica e perfettibile, almeno nell’attuale condizione di viatori, è necessario che anzitutto sappiamo dove andiamo, qual è il fine che intendiamo raggiungere, orientando a esso la nostra volontà. Il tempo vorticoso ed eccessivamente “rapido” in cui ci troviamo a vivere sembra spesso dettare ritmi e necessità che portano molti uomini sì ad agire, ma talvolta senza considerare il fine in vista del quale si agisce, se esso sia buono oppure no. Alla vita cristiana si possono così assegnare due fini: un fine ultimo o assoluto e un fine prossimo o relativo. Il primo è la gloria di Dio; il secondo, la nostra santificazione. Dio è infinitamente beato in se stesso e non ha alcun bisogno delle creature, è vero; ma Dio è amore, e l’amore, per sua natura, è comunicativo, tende a uscire da se stesso e a comunicarsi. Dio è il bene infinito, e il bene tende a diffondersi: bonum est diffusivum sui, dicono i filosofi. Ecco, per esempio, il motivo della creazione. Dio volle comunicare le sue infinite perfezioni alle creature, per la sua gloria estrinseca. Dio è sommamente beato e glorioso nella sua essenza. Tuttavia, comunicando le sue perfezioni, tra cui, in primisl’essere, alle creature, manifesta liberamente la sua glorificazione “al di fuori di sé”: la glorificazione di Dio da parte delle creature è, in definitiva, la ragione ultima della creazione. Tale è il fine ultimo e assoluto di tutta la vita cristiana. Verso questo fine l’anima che aspira a santificarsi deve mirare, verso di esso deve indirizzare tutti i suoi sforzi e i suoi desideri. Nulla deve prevalere. La santificazione della nostra anima non è, quindi, il fine ultimo della vita cristiana: sopra di essa sta la gloria della SS. Trinità, termine assoluto di tutto quanto esiste. E tuttavia, ciò che collega i due fini non è un legame puramente estrinseco (come se non vi fosse alcun rapporto tra di loro, ma fossero stati meramente giustapposti), bensì costitutivo: nella misura in cui un’anima vive per la gloria di Dio, essa progredisce anche nella personale santificazione, così come chi vuole essere santo (che significa meritare di vedere Dio nell’eternità), non ha altra strada che rendere gloria alla Trinità in quest’esilio terreno con una vita che sia “splendore della Verità” increata. La santità, in ultima analisi, consiste in un progressivo conformarsi a Cristo, sotto la mozione della Grazia, così da avere in noi i suoi stessi sentimenti. Farsi santi…un cammino per tutti, ma ahimè oggi sempre meno battuto. Conformarsi a Cristo…no, dice la coscienza moderna narcisisticamente egotistica, a nessun altro devo assomigliare se non a me stesso. Fare la volontà di Dio…giammai, solo la mia volontà, grida l’emancipato uomo post-moderno. E così facendo, non solo non ci si fa santi, ma ci si disumanizza lentamente, assumendo stili di vita, modelli di pensiero, atteggiamenti pubblici e privati indegni non solo di un’anima cristiana, ma anche di un retto intelletto naturale. 

Quello che è l’attuale sfacelo antropologico, a vari livelli, Giovannino Guareschi intravvide oltre cinquant’anni fa, e ne additò ironicamente, ma non meno efficacemente le cause. Da uomo, da galantuomo qual era, vide l’avanzare dei “nuovi costumi” nell’Italia del dopoguerra; da italiano, vide l’avanzare della nuova politica (lui fedele al credo monarchico che non abbandonerà mai, coraggiosamente, fino alla sua morte), dalla quale dovette subire anche la carcerazione, nonché l’abbandono e l’oblio; da cattolico, vide l’avanzare del “nuovo” nella Chiesa, che sembrava promettere una primavera dello spirito, salvo poi essersi scoperti in un freddo inverno. A tal proposito, Giovannino, a più riprese ebbe a stigmatizzare un certo atteggiamento troppo “dialogico” nei confronti del mondo di molto clero e molti laici dell’immediato postconcilio, ma fu inascoltato…come tanti profeti (benché numerosi, laici ed ecclesiastici, oggi si siano uniti ai rilievi critici di Giovannino). Così, scrivendo idealmente a don Camillo, affermava il suo disappunto perché questi «aveva dovuto distruggere l’altare della chiesa parrocchiale e sostituirlo con la famosa “Tavola calda” modello Lercaro, relegando il Suo amato Cristo crocifisso in un angolo, vicino alla porta, in modo che l’Assemblea gli voltasse le spalle» (G. Guareschi, Lettera a Don Camillo, “Il Borghese” del 19 maggio1966). O ancora, sempre parlando al “suo” Don Camillo, con cattolico buonsenso, diceva: «Ognuno ha i suoi fatti personali da confidare a Dio [durante la Messa]. E si viene in chiesa apposta perché Cristo è presente nell’Ostia consacrata e, quindi, lo si sente più vicino. Lei faccia il suo mestiere, Reverendo [celebrando la Liturgia], e noi facciamo il nostro [pregando]. Altrimenti se Lei è uguale a noi a che cosa serve più il prete?» E a noi, che a cinquant’anni dalla morte, ci troviamo a ricordare, liturgicamente, la scomparsa di un grande uomo, di un grande italiano e di un gran cattolico, che dobbiamo fare? 

Innanzi tutto, pregare: pregare per lui, perché nessuno, neanche il più santo, che si allontani da questa esistenza terrena e compaia davanti al giudice eterno può presumere di avere sufficienti meriti per essere salvo…può solo sperare nella Misericordia divina e nel suffragio dei vivi. E questo stiamo facendo, attraverso il s. Sacrificio dell’Altare che rinnova il Calvario e ne applica le grazie all’anima di Giovannino. Ma poi, considerando la vita e la testimonianza di quest’ultimo, dobbiamo da lui trarre esempio e auspicio per una civiltà migliore: «Che ove speme di gloria agli animosi/Intelletti rifulga ed all’Italia,/ Quindi trarrem gli auspici.» (U. Foscolo, Dei Sepolcri, 186-188). Oggi alla scuola di Giovannino Guareschi, del suo “mondo Piccolo”, del suo “Don Camillo”, vogliamo trarre esempio e coraggio per combattere la buona battaglia della Fede e della bella Civiltà Cristiana, preservando il “seme” tanto evocato da più voci e in più contesti, ma quanto mai veridicamente: «Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo nella terra resa ancora più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più: ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri», dice il Crocifisso a don Camillo. Oggi, una volta di più, è quello che dice a noi, oggi: salviamo il seme della Fede, della Tradizione, della vera umanità, e prima di tutto lasciamo che attecchisca nei nostri cuori e nelle nostre vite, irrorato dalla Grazia celeste, cosicché ne sortisca un albero robusto e ricco di frutti, alle cui fronde gli uomini smarriti possano trovare ristoro, conforto e speranza. Sì, quei frutti di opere buone che rallegrano il Sacratissimo Cuore di Gesù e che restano per la Vita Eterna. Amen.
Ed ecco la galleria fotografica, che dobbiamo per lo più all’Amico Ivo Musajo Somma.