Dopo aver pubblicato – quasi in tempo reale – la notizia della sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti (QUI), seguita dalla dichiarazione della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (QUI), dalla puntuale analisi del prof. Paolo Carozza (QUI), dall’articolato commento del prof. Ermanno Pavesi (QUI) e dalle limpide dichiarazioni di mons. Suetta (QUI), oggi vi proponiamo la riflessione del prof. avv. Mauro Giovannelli, già docente a contratto di Diritto amministrativo alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali istituita presso l’Università degli Studi di Firenze e membro della Commissione Italo-Vaticana per la formulazione di norme in materia di enti ecclesiastici e di revisione degli impegni finanziari dello Stato nei confronti della Santa Sede, pubblicato sul sito del Centro studi giuridici Rosario Livatino.
L.V.
Proseguendo nelle riflessioni a margine della sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti del 24 giugno 2022, interviene oggi il prof. Mauro Giovannelli, avvocato del foro di Firenze, con importanti esperienze istituzionali e accademiche, nell’auspicio che il dibattito si sviluppi con franchezza, ma senza i non pochi anatemi finora ascoltati: tanto urlati quanto ignari del contenuto della decisione.
La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti n. 597 del 24 giugno 2022 in tema di aborto segna davvero una svolta importante, oltre che nella giurisprudenza americana, nel dibattito pubblico circa i diritti fondamentali riguardanti la vita umana e il diritto delle donne di ricorrere senza limiti all’aborto.
In fondo la Corte statunitense ha detto sostanzialmente che la Costituzione non garantisce il diritto delle donne al libero aborto e quindi la regolamentazione della interruzione volontaria della gravidanza va rimessa alla legge dei singoli Stati, e cioè al popolo e ai suoi rappresentanti, i quali possono limitarlo in vario modo senza violare la Costituzione: “l’aborto pone una questione morale profonda, la Costituzione non proibisce ai cittadini degli stati di regolamentare o proibire l’aborto. Roe e Casey si arrogano questa autorità. Noi annulliamo queste decisioni e restituiamo questa autorità al popolo e ai suoi rappresentanti eletti”.
Peraltro, la precedente sentenza Roe vs. Wade del 22 gennaio 1973 aveva un impianto teorico debole, perché fondata esclusivamente sul diritto alla “personal privacy”. Tale principio veniva qualificato come diritto alla libertà personale inclusivo della “decisione di una donna di interrompere o meno la gravidanza”, ma non della protezione del feto alla sua esistenza, in quanto considerato “non persona”, perché tale concetto sarebbe “utilizzato dalla Costituzione americana solo per i nati o naturalizzati negli Stati Uniti”.
Si è trattato, quindi, di un’interpretazione da un lato eccessivamente estensiva e dall’altro troppo limitativa.
Inoltre la sentenza Roe vs. Wade difesa dai movimenti abortisti non consentiva il diritto illimitato di disporre a piacimento del proprio corpo, sia in via generale, sia in relazione all’altro concetto di “viability”, secondo cui lo Stato può avere interesse a tutelare la vita del feto dopo la “viability” (almeno dalla ventiquattresima settimana in avanti) e così a vietare l’aborto dopo tale periodo.
Cosa cambia allora con la recente sentenza? E perché tanto rumore dei mass media e tanta intolleranza?
Che l’aborto non sia un diritto costituzionalmente garantito lo si può rilevare da molte costituzioni vigenti.
La nostra in particolare garantisce i diritti inviolabili dell’uomo tra cui quello di nascere e di vivere e promuove l’uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalla loro condizione economica e sociale. Protegge la maternità e l’infanzia.
La stessa legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge 194/1978), all’articolo 1, “tutela la vita umana dal suo inizio”.
Allora che scandalo c’è a riconoscere che l’aborto non è un diritto costituzionalmente garantito, ma va quantomeno contemperato, come ci dice la storia della legislazione anche più incline all’aborto, con altro diritto, questo sì fondamentale che è quello del nascituro a nascere e a vivere?
E non si tratta, come dicono senza fondamento logico i più ostinati favorevoli all’interruzione della gravidanza, di garantire l’aborto, ma il diritto di scelta delle donne.
Ma il diritto di scelta non può essere illimitato, perché non riguarda solo le donne che lo esercitano, ma un altro soggetto degno di tutela e su cui lo Stato, se non sempre, almeno in certi casi, deve garantire la protezione.
Allora il punto è un altro.
La sentenza della Corte americana non chiude la questione, perché la rimette alla legislazione dei singoli Stati, ma certo riapre il dibattito che il movimento abortista avrebbe voluto sopire.
E questo dibattito è esigito non solo dalla tutela della vita del nascituro, ma dalle stesse esigenze sociali, che registrano un pauroso calo di natalità specialmente nell’emisfero occidentale evoluto.
Forse è presto da noi per rivedere la legge 194 in senso restrittivo, ma la sentenza della Corte americana pone il problema e risollecita il dibattito sul significato della vita umana, sulla sua protezione, sulla donna, sulle sue scelte e sulla tutela effettiva della maternità, aprendo il campo a nuove più civili ed umane prospettive.
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