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Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

mercoledì 28 agosto 2013

L'arte del discepolo

Da Romualdica:

Dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935), mio Padre secondo l’istituzione e il diritto, lo fu anche di fatto, per avermi ammesso ai voti solenni di religione nella sua abbazia di Sept-Fons, e per avermi dato qualche piccola cosa in più. Dom Chautard si poneva come un maestro assai deciso quanto all’essenziale della vocazione monastica: l’orazione. “Figlio mio, fate orazione?”, questo era l’invariabile ingresso in materia quando riceveva uno dei suoi monaci. Con una tale insistenza, che rispondeva alla sua convinzione profonda, imprimeva un marchio nei nostri spiriti; ci dava un impulso per il resto della vita. Appartiene in effetti al padre di fissare per sempre le priorità. Dom Chautard amava la santa Scrittura, soprattutto i Vangeli e le Lettere di san Paolo. Aveva sofferto la penuria di dottrina spirituale che si viveva alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX. Don Bremond non aveva ancora attirato l’attenzione sull’interesse degli scritti degli spirituali. Nondimeno, Dom Chautard era riuscito a scovare alcuni scrittori accettabili: Mons. Gay., Mons. De Ségur, Dom Vital Lehodey, più tardi Dom Marmion. Apprezzava il piccolo libro dal titolo Lo spirito di santa Teresa del Bambino Gesù. Fra gli scrittori anteriori, aveva saputo scegliere i gesuiti Grou e Lallemant; di Bossuet, il piccolo trattato Maniera breve e facile per fare l’orazione nella fede. Li citava spesso. Di san Francesco di Sales, gli Incontri spirituali; qualche lettera di santa Jeanne de Chantal sull’orazione. Risalendo ancora più indietro, amava gli scritti di santa Teresa d’Avila. Le Conferenze IX e X di Cassiano, e naturalmente la Regola del nostro santo Padre Benedetto, da cui traeva in ogni circostanza dei princìpi di vita spirituale. Non gli sarebbe mai venuta l’idea di fare legittimare questi princìpi dai voti della sua comunità, né di discutere della loro attualità nei crocicchi. L’uomo che sente il bisogno di seguire la folla per farsi ascoltare non è un maestro. Dom Chautard coltivava il gusto spirituale, accoglieva ogni domanda pertinente, comprendeva i problemi di ciascuno. Ma quando insegnava, bisognava ascoltarlo! Non sospendeva la sua dottrina all’acquiescenza dei suoi ascoltatori. Non me lo immagino proprio dichiarare al proprio uditorio, dopo ogni istruzione – come oggi fanno taluni –, giudicando ciò di un effetto eccellente: “Vi ho detto quel che penso; ma non v’impedisco di pensarla diversamente, se avete avuto una diversa esperienza”. Attitudine completamente non intelligente! Perché proporre un insegnamento e lasciare nello stesso tempo ciascuno libero di sottrarsene? Perché gettare in un solo colpo nella palude quanto si sta costruendo? Da parte sua, Dom Chautard sapeva mostrarsi perentorio: “Per questa strada, figlio mio, non perverrete mai all’unione con Dio”. Una volta detto, bisognava trarne le conseguenze. Poiché non si è mai troppo fermi quando s’insegna; soprattutto quando s’insegnano delle verità o dei comportamenti che svolgeranno un ruolo nelle scelte importanti e nei destini. Fare delle scelte, e insegnare al discepolo a fare le medesime scelte: è sempre da lì che occorre partire. Un indicatore stradale non decide nulla, e il suo compito è svolto per il solo fatto che reca uno dei segnali del codice. Il ruolo di un maestro non si può limitare a questo. La sua mansione non consiste nell’indicare indifferentemente tutte le strade possibili, ma egli deve decidere quale occorre intraprendere. Giacché voi gli avete conferito il diritto di escludere e di affermare, il diritto di dirigere le vostre preferenze. Diversamente, la vostra ricerca non sarebbe seria. Da parte mia, ho subito i metodi di più di un pedagogo; varie influenze si sono esercitate su di me. Ora, oggi, non mi ricordo che di tre o quattro maestri i quali furono fermi nella loro lezione ed esigenti. Provo gratitudine e ammirazione per questi pochi che sapevano imporsi per la loro autorità magistrale. Non mi ricordo degli altri. Brave persone senza potenza persuasiva, costoro non mi sono stati utili. Sono solo esistiti? E adesso, verso costoro, presi in blocco, provo qualche amarezza che abbiano accettato, a mio riguardo, la loro propria inconsistenza. Dom Chautard ebbe dei discepoli; li ha meritati. Ma direte: “Altri tempi, altri costumi”. Sì e no. In ogni caso, per quanto qui ci occupa, la storia della spiritualità dimostra che i costumi delle anime, come quelli di Dio, non cambiano con i tempi. Se la Chiesa, a seconda delle epoche e precisamente durante la nostra, ha molto cambiato nella sua maniera di fare, per contro, in ciò che riguarda la vita delle anime che cercano Dio, non potrà mai dire “a partire da quest’anno, Dio ha completamente modificato il suo modo di fare”. In questo ambito, occorre dunque sempre tornare alle medesime leggi. Ricordo la prima testimonianza che ho inteso a proposito del monastero di Sept-Fons. Credo si debba situare verso il mese di novembre del 1928, a Friburgo. Ricevemmo alla tavola di famiglia due monaci di Maredsous che passavano per andare al nuovo priorato di Corbières. Durante la cena, si parlò del mio probabile ingresso in un monastero cistercense. Quando uno dei commensali precisò che forse si sarebbe trattato di Sept-Fons, uno degli onorevoli benedettini dichiarò: “A Sept-Fons, secondo il Reverendissimo Abate di Maredsous, si trovano ancora dei giganti della preghiera”. Questo apprezzamento avrebbe fatto piacere a Dom Chautard, non per l’espressione un po’ magniloquente, ma perché significava l’essenziale di ciò che egli desiderava. Giacché allora io ignoravo tutto della vita di preghiera, non compresi se non vagamente cosa potesse significare questa specie particolare di gigantismo. Nondimeno mi sentii lusingato che si dicesse questo della mia futura comunità; m’immaginavo già di parteciparvi! Vent’anni dopo, Dom Godefroid Belorgey O.C.S.O. (1880-1964) mi diede la consegna seguente: “Per voi, continuate il tempo di presenza, le ore di presenza davanti al tabernacolo”. Voleva perpetuare la razza di giganti? Non ci pensava, senza dubbio. Sapeva che nella professione monastica, non si tratta né di statura elevata né soprattutto di prestigio. Lui che conosceva queste cose dall’interno, non avrebbe detto “giganti della preghiera”, piuttosto: fedeli alla preghiera. All’epoca, d’altronde, non avrei compreso il termine “fedele” meglio di “gigante”. Com’è possibile che il termine “fedele”, il più bel complimento che si possa fare a un innamorato, convenga anche a un monaco? Lo comprendo meglio ora, precisamente grazie a quelle ore davanti al tabernacolo. Fedele? Colui che l’usura non può mai vincere; né quella del soggetto, né quella – apparente – dell’Oggetto!

[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 10-14, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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