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domenica 23 marzo 2025

“Forma breve, verità mutilata: la tentazione costante della CEI di cancellare l’inferno”

Grazie ad Investigatore Biblico per questa analisi sulle sciagurate "forme brevi" del Lezionario NOM.
Luigi C.

12-3-25

Nella seconda domenica di Quaresima di quest’anno (Domenica prossima 16/03/2025), la liturgia ci propone un passo della Lettera ai Filippesi che risuona come un invito a scrutare il senso ultimo della nostra vita. Si tratta di Fil 3,17-4,1, un brano nel quale l’apostolo Paolo, con affetto ma anche con fermezza, parla della sorte che attende l’uomo, secondo la verità del Vangelo. Accanto a questa proclamazione, si offre una forma breve, ridotta a Fil 3,20-4,1. È una scelta che merita attenzione e, oserei dire, un interrogativo sincero.
La forma breve, di per sé, è una possibilità offerta dal Lezionario e rientra in una prassi liturgica della Chiesa, quando alcuni brani biblici risultano eccessivamente lunghi o di difficile comprensione per l’assemblea. Ma nel caso presente, il taglio si applica a una lettura che è già essenziale, sobria, incisiva. E allora la domanda si impone: perché questa abbreviazione? Perché escludere proprio quei versetti in cui l’apostolo, con le lacrime agli occhi, avverte la comunità circa il destino di coloro che rifiutano la croce di Cristo?
San Paolo non indulge a un linguaggio minaccioso. Non c’è odio, non c’è durezza nelle sue parole. Egli piange, e piange non per sé, ma per coloro che camminano verso la perdizione. La loro fine – dice Paolo – è la rovina. E noi leggiamo, nell’originale, il termine apóleia, la distruzione, la perdita definitiva. Sono parole che ci fanno tremare, ma che non possiamo cancellare o accantonare. Esse fanno parte del tessuto vivo dell’annuncio evangelico, che non conosce sconti, ma che proprio nella verità più radicale apre alla speranza più grande.

La scelta della forma breve sembra, al contrario, rispondere a un’intenzione che possiamo comprendere solo fino a un certo punto. Forse si teme che l’assemblea non sia in grado di accogliere una parola così difficile. Forse si preferisce non turbare chi è già oppresso dalle domande ultime. O forse, più semplicemente, si evita di parlare della perdizione, di quel mistero tremendo che è il rifiuto della salvezza, per non evocare il tema dell’inferno, di cui ormai si tace quasi sempre. Si preferisce tacere, piuttosto che annunciare l’intero messaggio, nella sua luce e nella sua ombra. Si preferisce evitare, piuttosto che affrontare, insieme, il mistero del giudizio e della misericordia.

Eppure, è proprio in quella parola severa che si cela l’urgenza dell’appello. Se togliamo dal discorso di Paolo il grido di dolore per chi si allontana da Dio, ci rimane solo una consolazione che rischia di diventare retorica. Senza la realtà della libertà umana – capace di rispondere all’amore di Dio ma anche di rifiutarlo – l’annuncio del Regno perde forza, diventa tiepido, incapace di risvegliare le coscienze.

Paolo parla della perdizione finale non per condannare, ma per scuotere, per riportare i fratelli sulla strada della vita. La sua è una parola accorata, che nasce dalla responsabilità di chi ha visto la luce e non può tacere sull’oscurità. Se la Chiesa oggi sceglie di sorvolare su questi passaggi, per timore o per prudenza, rischia di mutilare il Vangelo, di farne un discorso che consola ma non converte.

Non possiamo temere la verità. Non possiamo aver paura di pronunciare, nella carità, parole che interrogano profondamente. Il giudizio fa parte dell’annuncio. Il Vangelo è lieta notizia perché ci libera dall’incubo della perdizione, ma senza negare che questa possibilità esiste, ed è reale. La fede non è una rassicurazione generica, ma una chiamata urgente a scegliere la vita.

Chi ascolta il Vangelo ha diritto alla verità tutta intera. Ha diritto di sapere che la nostra libertà ha un peso eterno. Ha diritto di ascoltare, anche se con fatica, che l’uomo può smarrirsi in modo definitivo, ma che Cristo lo cerca fino all’ultimo respiro.

Il Cardinale Carlo Maria Martini ci ricordava spesso che la Parola di Dio non è mai dura, ma sempre esigente. Esigente perché ama. Oggi ci si chiede se sia amorevole togliere al popolo di Dio una parola esigente, ma vera. Io credo che non lo sia. Credo che sia un errore pedagogico e spirituale. Credo che sia una scelta che impoverisce l’annuncio e che non rende giustizia al cuore stesso del Vangelo.

Proporre solo la forma breve di questo brano – o farla prevalere per consuetudine liturgica – è una resa alla logica del non disturbare, del non inquietare, del non provocare. Ma il Vangelo è una parola che disturba, che inquieta, che provoca, perché risveglia e salva. Non si può avere la risurrezione senza la croce. Non si può annunciare la patria celeste senza ricordare che possiamo anche perderla, se ci chiudiamo all’amore.

Vorrei che questa Quaresima fosse per noi tutti un tempo in cui non temere la verità. Un tempo in cui chiedere al Signore di donarci la forza di ascoltare anche le parole più difficili, sapendo che sono dette per amore. Solo così possiamo prepararci a celebrare, nella verità, la Pasqua di Cristo, che vince la morte perché ne conosce il volto, e la trasfigura con la luce della vita eterna.