Grazie a Sandro Magister per questa analisi sulle nuove nomine di Vescovi in Cina.
Luigi C.
30-1-25
Il 22 ottobre 2024, come si sa, è stato prorogato per altri quattro anni l’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi tra la Santa Sede e la Cina, firmato nel 2018 e già prorogato due volte nel 2020 e nel 2022. Un accordo che però continua a restare segreto nella sua formulazione e nel suo procedimento, che è a tutto vantaggio delle autorità di Pechino.
Se appena si analizza, infatti, come Pechino e Roma danno notizia di ogni nuova nomina, è facile notare rilevanti elementi di differenza, in primo luogo il totale silenzio da parte cinese sul papa e sul ruolo da lui svolto, come se nemmeno esistesse.
Proprio nei giorni scorsi altri due vescovi sono stati insediati in Cina. Ed è istruttivo confrontare i comunicati emessi dalle due parti.
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Riguardo al nuovo vescovo di Luliang, Anthony Ji Weizhong, 52 anni, ordinato il 20 gennaio, il bollettino vaticano pubblicato nello stesso giorno informa che la sua nomina è stata fatta dal papa il 28 ottobre 2024.
Ma il contemporaneo comunicato emesso dal sito ufficiale in mandarino della “Catholic Church in China” tace sulla nomina papale e informa invece che Ji “è stato eletto vescovo il 19 luglio 2024”. Come dire, leggendo assieme i due comunicati, che ci sono voluti più di tre mesi perché Roma digerisse la nomina decisa unilateralmente da Pechino.
Il comunicato cinese non esplicita da chi e come il nuovo vescovo sia stato eletto. Cita però, come fa abitualmente, una “lettera di approvazione” da parte della Conferenza episcopale cinese, organismo spurio mai riconosciuto dalla Santa Sede ma solo dalle autorità di Pechino. E fornisce un elenco dettagliato – che il bollettino vaticano tace – dei vescovi che hanno preso parte alla cerimonia di ordinazione, con le rispettive cariche nell’Associazione patriottica cattolica cinese, il principale organo di controllo del regime sulla Chiesa, che è anche il vero titolare del sito web della “Catholic Church in China”.
Quanto al “curriculum vitae” del nuovo vescovo, sia il bollettino vaticano che il comunicato cinese mettono in evidenza i suoi studi presso l’Istituto teologico di Sankt Augustin in Germania. A cui il comunicato cinese aggiunge il conseguimento di “un master in teologia negli Stati Uniti”.
Inoltre, nel bollettino vaticano – ma non nel comunicato cinese – si informa che il 28 ottobre 2024, lo stesso giorno della nomina del nuovo vescovo, il papa ha proceduto anche all’erezione della nuova diocesi di Luliang, con una precisa descrizione della sua estensione geografica, e alla soppressione della precedente diocesi di Fenyang, istituita dal Pio XII nel 1948.
Già altre volte, dopo la firma dell’accordo nel 2018, la Santa Sede ha dovuto ridisegnare i confini dell’una o dell’altra diocesi cinese, uniformandoli ai confini amministrativi come voluto dalle autorità di Pechino. Il risultato finale sarà la riduzione delle diocesi da 135, come nella vecchia mappatura vaticana, a poco meno di un centinaio, delle quali circa un terzo sono tuttora senza vescovo, all’incirca come lo erano sette anni fa prima della firma dell’accordo.
Nel bollettino vaticano, inoltre, la nuova diocesi di Luliang è definita “suffraganea di Taiyuan”, ma senza più specificare che quest’ultima è l’arcidiocesi a cui fa capo. Anche questo in obbedienza al regime di Pechino, secondo cui le arcidiocesi e gli arcivescovi non esistono più, ma le diocesi e i vescovi devono essere tutti considerati alla pari.
Taiyuan, nella provincia di Shanxi, fu teatro nel primo Novecento di una strage di cristiani, durante la ribellione dei Boxer, e nel 2000 Giovanni Paolo II canonizzò 119 di quei martiri.
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Più stringato, il 23 gennaio, è il bollettino vaticano sul trasferimento dalla diocesi di Xiamen a quella di Fuzhou, capoluogo della provincia di Fujian, del vescovo Joseph Cai Bingrui (nella foto), 59 anni, assegnato dal papa a questa sua nuova sede pochi giorni prima, il 15 gennaio.
Il contemporaneo comunicato cinese tace, come sempre, sull’atto compiuto dal papa, canonicamente l’unico che vale, e cita invece la lettera di approvazione da parte della Conferenza episcopale cinese.
Si dilunga sui vescovi che hanno partecipato alla presa di possesso di Cai della sua nuova diocesi, dando enfasi ai ruoli di ciascuno nell’Associazione patriottica e in altri organismi governativi.
Ma soprattutto dà conto delle promesse di piena sottomissione al regime fatte dal nuovo vescovo di Fuzhou all’atto del suo insediamento:
“Il vescovo Cai Bingrui ha detto che terrà sempre alta la bandiera del patriottismo e dell’amore per la Chiesa, aderirà al principio dell’indipendenza e dell’autogestione, aderirà alla direzione della sinicizzazione del cattolicesimo nel nostro Paese, unirà e guiderà i sacerdoti e i fedeli della diocesi di Fuzhou ad aderire a un percorso compatibile con la società socialista”.
Il perché del risalto dato a queste promesse di sottomissione è legato alla pugnace opposizione di una larga parte dei fedeli e del clero di Fuzhou al precedente vescovo Peter Lin Jiashan, morto a 88 anni nell’aprile del 2023, accusato d’essere troppo subordinato al regime. Quanto fatto dire dal nuovo vescovo suona come un richiamo all’ordine, rivolto al clero e ai fedeli.
Fuzhou, sulla costa di fronte all’isola di Taiwan, è culla storica del cristianesimo in Cina, fin dai tempi di Matteo Ricci. Conta oggi più di 300 mila cattolici, con un centinaio di sacerdoti e mezzo migliaio di religiose, ed è propriamente un’arcidiocesi, qualifica che però la Santa Sede ora tace, al pari di quella di arcivescovo per il suo nuovo titolare, come imposto dalle autorità cinesi.
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Poco dopo l’ultima proroga dell’accordo tra Roma er Pechino è divenuta operativa anche una terza nomina, di indubbio rilievo: quella del vescovo coadiutore di Pechino, Matthew Zhen Xuebin, 55 anni, resa pubblica nel giorno della sua ordinazione episcopale, il 25 ottobre 2024.
Il bollettino vaticano data al 28 agosto 2024 la sua nomina da parte del papa, taciuta del tutto, come sempre, dal comunicato cinese, che invece retrodata la sua “elezione” in Cina, con l’immancabile lettera d’approvazione della Conferenza episcopale, al 21 marzo 2024, ben cinque mesi prima che Francesco – dice il bollettino vaticano – ne abbia “approvata la candidatura”.
All’ordinazione episcopale di Zhen hanno preso parte, come rende noto il comunicato della “Catholic Church in China”, il vescovo di Pechino in carica, Joseph Li Shan, con altri quattro vescovi.
Nella biografia del nuovo vescovo, il comunicato cinese mette in evidenza che è stato fin dal 2007 segretario generale della diocesi di Pechino e in precedenza vicepresidente del Collegio filosofico e teologico della stessa diocesi.
Tace però che Zhen ha conseguito la licenza in liturgia dopo cinque anni di studi negli Stati Uniti presso la St. John’s University, dal 1993 al 1997, come invece fa notare il bollettino vaticano. Parla inglese e ciò gli potrà essere utile nei contatti internazionali.
L’elemento più sorprendente della nomina di Zhen è che Li Shan, il vescovo di Pechino in carica, ha 60 anni, appena cinque più di lui. Il “coadiutore”, infatti, è un vescovo ausiliare con assicurata la successione alla testa della stessa diocesi, e di solito tale carica è data quando il titolare è vecchio o malato e il passaggio delle consegne è ritenuto vicino.
Ma Li è anche presidente dell’Associazione patriottica e vicepresidente della Conferenza episcopale e secondo alcune fonti sarebbe stato lui stesso a chiedere la nomina a coadiutore di Zhen, già da tempo suo stretto collaboratore nella guida della diocesi (propriamente anch’essa arcidiocesi, ma ormai non più qualificata come tale neppure dalla Santa Sede).
Sta di fatto che con questa nomina la diocesi della capitale politica della Cina è blindata per anni, se non per decenni, nelle mani di due fedelissimi del regime.
Così come la diocesi della capitale economica, Shanghai, dove nel 2023 il regime comunista ha insediato il 4 aprile un vescovo tra i più organici al partito, Joseph Shen Bin, 55 anni, senza nemmeno preavvertire come dovuto la Santa Sede, che reagì con una dichiarazione di protesta ma dovette tre mesi dopo, il 15 luglio, ingoiare l’affronto, con la firma del papa sull’atto di nomina.
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Un’ultima osservazione. I vescovi incaricati ogni volta di procedere alle ordinazioni episcopali e di sovrintendere agli ingressi in diocesi sono evidentemente scelti dalle autorità cinesi senza alcun accordo con Roma, che infatti non ne comunica mai i nomi. E anche i sacerdoti, le religiose e i fedeli ammessi a questi riti sono accuratamente selezionati.
E guai a chi disattende il programma della cerimonia, come avvenne nel 2012 nella cattedrale di Shanghai, quando il nuovo vescovo Thaddeus Ma Daqin, appena ordinato, si dissociò dall’Associazione patriottica per riaffermare la sua piena fedeltà alla Chiesa di Roma, e per questo fu arrestato e messo al confino nel seminario di Sheshan, dove vive tuttora senza alcun incarico, nonostante l’atto pubblico di sottomissione al regime da lui sottoscritto nel 2015.
Insomma, da una lettura sinottica dei comunicati emessi dalla Santa Sede e dalla “Catholic Church in China” ad ogni nuova nomina episcopale risulta evidente che a comandare il gioco è il regime di Pechino.
Non sorprende quindi che l’accordo segreto sottoscritto dal Vaticano sia oggetto di dure contestazioni, o comunque di analisi critiche ben argomentate e documentate come queste a firma di Gianni Criveller del Pontificio Istituto Missioni Estere: