Grazie agli amici di Campari e de Maistre per questa analisi sul nuovo Messale ambrosiano.
Luigi C.
di Samuele Pinna, 12-12-24
Mi è stato chiesto di dire qualcosa sull’uscita del nuovo Messale Ambrosiano ma, essendo io un teologo di seconda mano e uno scrittore di quart’ordine, mi limiterò a delle banali e frivolissime riflessioni. E devo partire dai segni dei tempi: sì, perché fino a qualche anno fa quanto da poco pubblicato dall’Arcidiocesi di sant’Ambrogio avrebbe creato un subbuglio generale con correnti di pensiero diametralmente opposte che per spuntarla se le sarebbero suonate di santa ragione, anche se poi – come in questo caso – era destinato ad avere la meglio chi tiene il coltello dalla parte del manico. Oggi viviamo in un mondo più veloce – si dice –, più fluido, più virtuale e, quindi, i profondi dibattiti sono stati sostituiti da brevi slogan urlati come fossimo in un perenne talk show. Nel nostro tempo a vincere è la lamentela, ma non quella retorica sostenuta da ragioni, bensì quella istantanea, rapida, a effetto, che domani può aver già mutato di segno. Si rifugge da dispute sui contenuti, perché ciò che conta è lo stato emotivo del momento che fa uscire dal ventre giudizi senza controllo o diabolicamente mirati. Tale modo di comportarsi non è per nulla cristiano, ma anche dentro casa cattolica le divisioni non mancano e sembra assente molto spesso l’annuncio schietto e rispettoso della verità, così come tramandata dalla Chiesa. I più maligni sono persuasi che la probabile causa sia dovuta all’aria sinodale che si respira e che rassomiglia molto – sono sempre i più maligni a sostenerlo – a quanto il genio di Guareschi attribuiva alla democrazia (basta cambiare la parola “democrazia” con “sinodalità” e il gioco è fatto): «La democrazia – ha lasciato detto Giovannino – è quella cosa dove tutti discutono alla pari e poi uno dispari decide». Ergo, mi appaiono tramontati i tempi dei grandi dibattiti, forse perché in una società sempre più scristianizzata ognuno tenta di campare come meglio può, anche per evitare attenzioni indesiderate, così da non prendere posizioni controcorrente.
La Liturgia pare non avere più un grande ascendente sulle persone, a meno di essere dei ferventi cristiani che cercano una comunione profonda col divino. Certo, ci sono pure – grazie al cielo – gli appassionati e, purtroppo – grazie al diavolo –, gli ossessionati (per i quali l’amore per la formalità del culto non è proporzionale all’amore verso il prossimo).
Il Messale Ambrosiano può suscitare qualche perplessità se lo si osserva dal punto di vista del principio lex orandi, lex credendi, perché in controluce s’intravvede qualche piccola ideologia, che – a essere onesti – alla fin fine ci fa sorridere. Non vorremmo essere irriverenti né buttare tutto in caciara, ma in effetti l’ironia pungente era presente anche cinquant’anni fa – nonostante la primavera ecclesiale appena partorita dall’ultimo Concilio ecumenico – e diverse erano le prese in giro rivolte al Messale Ambrosiano edito negli anni Settanta. Lo chiamavano “serbocroato”, perché la Congregazione del Rito Ambrosiano di allora – capitanata da Giacomo Biffi – aveva impiegato in modo massiccio il verbo serbare, preferendolo a conservare, perché richiamava le conserve, o al peggiore per allusione preservare. La critica più feroce che ha continuato a girare negli anni decretava la cattiva traduzione dell’eucologia, dimenticando un piccolo particolare: per vicende storiche (che non si ha il tempo di richiamare) il testo era stato composto prima in italiano e solo in un secondo momento in latino: dunque, semmai sarebbe stata la parte latina a essere stata tradotta male dall’italiano.
Il nuovo Messale Ambrosiano non propone grandi cambiamenti, se si eccettua l’accettazione – ovviamente in toto – della riforma del Lezionario avvenuta nel 2008, che invece ha portato a una sorta di piccola rivoluzione. Tra le altre cose, colpisce l’“invenzione” – assente precedentemente – di una settima domenica d’Avvento. Sì, perché ponendo molta enfasi su san Martino di Tours (tanto, se non erro, da elevarne la memoria a festa liturgica), è stato deciso d’iniziare l’Avvento con la prima domenica dopo l’11 di novembre, col risultato che ciclicamente capita di avere sette anziché sei domeniche prima del Natale. Se nella Congregazione non mancavano specialisti di tante discipline, probabilmente era assente un matematico: facendo, infatti, partire il conteggio dei giorni prendendo come riferimento il 12 novembre le settimane sarebbero state sempre e solo sei. Quando il cardinal Biffi mi spiegava questo piccolo ma non trascurabile particolare, ci teneva a dire che la sua scelta non era stata fatta per devozione sconsiderata a san Giosafat (che cade per l’appunto il 12 novembre), ma serviva soltanto a far quadrare i conti, perché – è il Presule ancora a puntualizzare – non ha senso «inventare una “domenica prenatalizia non di Avvento”, della quale nessuno aveva mai sentito parlare, anche perché sembra un concetto contraddittorio: “prenatalizia” non può che essere di “preparazione al Natale”, e una domenica di preparazione al Natale, nella sostanza, è una domenica di Avvento».
Ora non voglio offendere i liturgisti coinvolti, ma devo ammettere che della riforma del 2008 c’è un’altra cosa che non mi è andata mai a genio: il Vangelo della risurrezione. È assai curioso incontrare un brano evangelico all’inizio della celebrazione – a sostituzione tra l’altro dell’Atto penitenziale – quando la costruzione liturgica vuole che esso sia l’apice nell’esposizione della parola di Dio (Antico Testamento, Nuovo Testamento e – tratto dal Nuovo Testamento – il Vangelo). Biffi stesso la valutava come una non gran bella trovata, esteticamente e pedagogicamente. La risposta piccata di Cesare Alzati, deputato dalla Congregazione per difendere la scelta, mi era parsa all’epoca del dibattito fuori luogo, come quando si fa uno strappo più grande cercando di cucire la toppa: «Definire la lettura di un brano evangelico della Resurrezione – aveva scritto Alzati – nel contesto dell’officiatura domenicale una “trovata” significa volutamente ignorare l’uso costante dell’Oriente greco fin dalla testimonianza di Egeria, nonché – ai nostri giorni – gli usi della comunità latina gerosolimitana del Santo Sepolcro, dell’anglicana Community of the Resurrection, della Comunità di Taizé». Cosa c’entrino l’uso costante dell’Oriente greco e gli usi della comunità latina gerosolimitana del Santo Sepolcro, dell’anglicana Community of the Resurrection, della Comunità di Taizé con la liturgia ambrosiana non riesco ancora a comprenderlo.
Ora non voglio offendere neppure le femministe, ma trovo poco piacevole l’utilizzo codificato di “Fratelli e sorelle”, che può non stonare nelle parti mobili (cioè quelle dove il Presidente della celebrazione può parlare a braccio), ma che infastidisce non poco quando si è costretti a leggerlo. E questo per semplice amore dell’italiano, perché – come è stato spiegato dall’Accademia della Crusca – per il plurale in italiano si usa ancora il maschile “non marcato”. È vero che lingue cambiano, ma perché appoggiare noi cristiani ideologie avverse al cristianesimo?
Ora non voglio offendere neppure gli esegeti, ma una cosa che proprio non mi entra nella zucca è la modifica della traduzione del Gloria in excelsis Deo, dove “uomini di buona volontà” è diventato “amati dal Signore”. Non capisco questo cambio: il Gloria è una preghiera, un inno, non una traduzione o traslitterazione della Bibbia: il suo autore aveva quindi la possibilità di parafrasare o di restituire in modo diverso il senso di un passo scritturistico. Non fa così anche sant’Ambrogio nei suoi versi metrici? Per fortuna sono stato confortato dalla lettura dalla prof.ssa Federica Favero, la quale mi conferma: «Significativo è il caso del Gloria in excelsis Deo, dove l’espressione hominibus bonae voluntatis è stata modificata secondo la nuova traduzione della Bibbia CEI, operazione che non tiene conto del fatto che l’inno è una preghiera che certamente contiene un rimando biblico, ma che non ha senso modificare, proprio in quanto tale rimando è inserito in un contesto innodico e non vuole perciò essere una traduzione della Sacra Scrittura, bensì un recupero in funzione poetica di un passo biblico» (“Versato per molti”. Note a margine a una Lettera di Benedetto XVI, in Benedetto XVI. L’ultimo europeo, cur. Campari & de Maistre, Historica Giubilei Regnani, Roma 2023, p. 173).
Ora non voglio offendere nessuno, ma – mi si consenta un poco di umorismo – il Nuovo Messale Ambrosiano mi ha dato un grande dispiacere. Un’orazione che aspettavo tutto l’anno, è stata mutilata e non ho potuto che dolermene. La nuova riforma ambrosiana non manca di arcaismi (come, per esempio, sostituire il tempo ordinario riproponendo le vecchie diciture o riportare in auge la Quaresima di san Martino, vecchia di mille anni e abbandonata da secoli), ma non ha avuto il buon cuore di lasciare l’unico presente nell’edizione precedente. Il passo incriminato invocava Dio, il quale non vuole che i convitati alla Sua mensa indulgano alle orge sfrenate del demonio, per sostituirlo con un più blando: «che ai commensali del tuo Figlio comandi di non avere parte alcuna con il Maligno». Nulla da eccepire (per carità!) nella nuova formulazione, ma rammento bene quando il cardinal Biffi mi spiegò che si trattava di un riferimento al mondo pagano, quando in epoca antica si svolgevano feste orgiastiche in onore del dio Giano Bifronte. Mi disse, inoltre, tra il serio e il faceto, in sua difesa verso chi criticava quel testo: “Ma scusa, oggi non ci sono le orge? E se ci sono le orge queste non sono sfrenate? E se sono orge sfrenate non vengono dal demonio?”.
In soldoni, ciò che fa specie del nuovo Messale Ambrosiano sono le linee guida dichiarate, ma non seguite sino in fondo: è stato scelto il criterio di essere più fedeli possibile alla lettera, come nel caso della rugiada dello Spirito (nella versione precedente effusione), ma in altri contesti si è preferito il criterio cosiddetto “pastorale”, come nel caso del non abbandonarci alla tentazione del Padre nostro (che nn è di certo la traduzione letterale).
Davanti a queste e altre anomalie – qui non riportate – che fare? Un tapino come me suggerisce – come insegnerebbe il mio don Augusto – di essere «liberi e fedeli»: liberi nel dissentire sul piano delle idee e fedeli nell’obbedire alle norme, mantenendo insieme verità e carità, legate tra loro dal personale sacrificio offerto per amore. Detto così può suonare retorico, allora preferisco rifarmi a un sant’uomo e illustre teologo come Charles Journet – lui, sì, di prim’ordine –, che scriveva in una lettera a una persona convertita: «Ben sapevo che questo entrare nella Chiesa le avrebbe portato una grande gioia profonda che sarà per lei tutta la sua vita. Ci saranno certamente molte sofferenze, molti screzi, ma sempre il senso delle prove le diventerà luminoso nella luce della croce. E più avrà da soffrire per la Chiesa, più essa le diventerà cara».