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giovedì 14 novembre 2024

Dal sogno “green” all’incubo “green”: un “ritorno al reale”? – seconda parte #300denari

Cari amici del blog 300, nell’ultimo post si è tratteggiata la genesi politica dei c.d. “
investimenti green” nonché dei problemi progressivamente emersi. Oggi, si intende fornire pratica evidenza della disillusione che sta maturando negli operatori del mercato nonché della bolla finanziaria (e, soprattutto, delle connesse conseguenze sociali) che tali politiche hanno generato.

Dal “sogno” alla “realtà
Passando dal mondo dei sogni alla realtà, si registra un progressivo disincanto verso le politiche “liberal-socialiste” in esame.
Nel biennio 2022-2023, il trend di collocamento di nuovi fondi ESG è diminuito, a livello globale, del 75% rispetto al 2021. In particolare, i fondi focalizzati sul clima hanno attirato 37,8 miliardi di dollari nel 2023, mentre nel 2021 gli investimenti raccolti erano stati pari a 151 miliardi di dollari.
La disillusione per l’artificiale mondo green è più marcata oltre oceano (vedi qui, qui e qui): «i grandi fondi statunitensi» verso la fine del 2023 hanno fatto «marcia indietro sugli investimenti verdi. Prima JPMorgan Asset Management, poi State Street Global Advisors, poi Pimco. Infine, la riduzione dell'impegno di BlackRock. L'alleanza Climate Action 100+, forse la più importante per la finanza sostenibile con oltre 700 investitori istituzionali e asset totali per circa 68mila miliardi di dollari, perde pezzi. In vista delle elezioni statunitensi, il posizionamento di un numero sempre maggiore di attori di Wall Street è a senso unico: basta con il sostenibile». In particolare, nell’ultimo trimestre del 2023 «poco meno 5 miliardi di dollari sono stati ritirati dai fondi Esg a stelle e strisce solo tra ottobre e dicembre, per un totale su base annua di 13 miliardi».
Plastica esemplificazione della bolla creata dagli “incentivi regolamentari” (che nel corso del 2020-2021 hanno portato a una forzata concentrazione di capitali in imprese green), si rinviene dall’esame dei corsi di borsa delle azioni Fisker (costruttore di auto elettriche) che nel marzo 2021 valevano 24,80 dollari e la relativa avventura imprenditoriale è terminata nel giugno 2024 con un fallimento. Quelle di Rivian (anch’esso costruttore di auto elettriche) nel novembre 2021, in sede di IPO, hanno raggiunto il prezzo di 129,95 dollari mentre alla fine di ottobre 2024 chiudevano a poco più di 10,00 dollari (riduzione pari al 92,17%). Passando a quelle di ChargePoint (società attiva nella costruzione di reti di ricarica per veicoli elettrici) nel dicembre 2020 hanno segnato il prezzo massimo di quotazione a 46,10 dollari mentre a fine ottobre 2024 si attestavano a 1,24 dollari (riduzione pari a circa il 97%).
Le nefaste conseguenze delle dirigistiche politiche “green” sono ancor più evidenti sul piano sociale. Nella vecchia Europa, maggiormente connotata sul piano ideologico rispetto agli Stati Uniti, il prezzo della pervicace adesione all’ideologica green si sta pagando sulla pelle di decine di migliaia di persone con la chiusura di tre stabilimenti della Volkswagen nella sola Germania, a cui si aggiunge la chiusura dello stabilimento di Bruxelles dell’Audi (che impiega circa 3.000 lavoratori per la produzione del suv elettrico Q8 e-tron, entrata in crisi per mancanza di domanda) e la crisi di Stellantis per “colpa dell’elettrico. E ciò con ulteriori gravi conseguenze sull’intero indotto: Michelin e Schaeffler hanno annunciato il licenziamento di migliaia di dipendenti in Europa.
La disillusione ha portato dalla fase del disimpegno dagli investimenti green a quella “scommessa” contro tale asset class. Ne dà conto un recente studio condotto da Bloomberg sulle posizioni di oltre 500 hedge fund con masse gestite comprese tra 50 milioni e 50 miliardi di dollari. I grandi player di mercato iniziano scommettere contro la transizione energetica, ritenendo che non pagherà quanto e quando inizialmente ipotizzato e, di conseguenza, hanno acquistate posizioni nette corte (cioè ribassiste) su società attive nel solare, batterie, veicoli elettrici, idrogeno nell’auspico di poter guadagnare dall’eventuale fallimento dei relativi emittenti.


Le considerazioni svolte conducono a due brevi notazioni conclusive.
L’intero impianto delle “politiche green” (e della connessa regolamentazione) si fonda sull’assolutizzazione di alcune teorie scientifiche, ignorando i limiti epistemologici di tale forma di conoscenza e della provvisorietà dei relativi risultati. E ciò è particolarmente vero per il c.d. “cambiamento climatico” nel quale vengono ricondotti una serie innumerevole di fenomeni che gli scienziati con vari orientamenti stanno ancora studiando da svariati decenni, spesso pervenendo a conclusioni divergenti. Cambiamento che in alcune aree del pianeta si manifesta con l’abbassamento e non l’innalzamento delle temperature (è di questi giorni una importante grandinata/nevicata nel deserto di Al-Nafud). D’altra parte il clima è un elemento del Creato che si fonda su una molteplicità di variabili in larga parte incontrollabili dall’uomo.
L’ideologia del “sogno green” (da cui origina l’ipertrofica e pervasiva regolamentazione) abbraccia una prospettiva statalista e pianificatoria, ripudiando una crescita sostenibile e spontanea basata su una vera economia di mercato. Da questa prospettiva, le misure “green”, sacrificando le libertà individuali sull’altare del rischio di un possibile e indefinito “cambiamento climatico”, finiscono per creare ingiustizie economiche e crisi sociali, altresì limitando le opportunità per le persone di realizzare pienamente il proprio potenziale. Occorre far memoria che la dottrina sociale della Chiesa, invece, ha sempre insisto sul primato della persona umana, ponendo enfasi sul rispetto della dignità individuale e sulla libertà economica come strumento per il bene comune.



Filippo
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