"L’Italia in quest’occasione ha avuto il coraggio di dire “noi non ci stiamo”".
Luigi
Il Timone, Raffaella Frullone, 15-11-23
«E’ stato calato con forza il sipario. In un modo estremamente determinato si è cercato di far tacere tutte le voci forse per non rischiare di vedere cosa sarebbe successo nel caso di un trattamento diverso, più accurato». Parla così Claudia Navarini, professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università Europea di Roma, dove dal 2015 presiede il corso di studi in Scienze e Tecniche Psicologiche. Al centro c’è ancora la piccola Indi Gregory, tutt’ora oggetto di dibattiti sui giornali, sui social, in tv. Dove ancora in molti, anche medici, anche bioeticisti, ritengono che l’aiuto offerto dal Bambin Gesù sarebbe rientrato nell’accanimento terapeutico. Abbiamo raggiunto la Navarini al telefono e le abbiamo chiesto il suo parere su questo:
«Credo ci sia ancora molta confusione sul significato di accanimento terapeutico. Una delle definizioni rimaste insuperate e più chiare è quella del compianto anestesista Corrado Manni, che si riferiva all’accanimento terapeutico come al giudizio su un “trattamento”. Non una valutazione sul valore della vita dunque, o sulla qualità della vita stessa, bensì su trattamenti che sono di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo. Ora, se consideriamo un trattamento di sostegno vitale, in questo caso la ventilazione meccanica, possiamo dire che sia una forma di accanimento terapeutico se è chiaramente inefficace per il suo obiettivo specifico, ovvero agevolare la respirazione e dare così beneficio. Non è accanimento per il solo fatto che un paziente è in fase terminale, cioè ha ancora poco da vivere. Quindi in questo caso non è chiaro in che senso il sostegno vitale fosse una forma di accanimento terapeutico, se non nel senso evocato dai giudici e dai sanitari che il “migliore interesse” della bambina fosse quello morire e che pertanto anche il semplice sostegno vitale non dovesse essere erogato. Al contrario l’Ospedale Bambin Gesù di Roma offriva un accompagnamento rispettoso fino alla morte naturale, fornendo tutto ciò che poteva sostenere la vita nelle condizioni in cui si trovava, e dando al contempo il maggior grado di sollievo e di benessere possibile, tutto qui»
Un accompagnamento dignitoso della vita che è ben distante da quel mostro giuridico del “best interest”…
«Nel sistema sanitario inglese, in particolare per quanto riguarda bambini piccoli gravemente malati, sembra esserci una sorta di attribuzione del diritto sulla vita al personale medico, con il consenso dei giudici. Nonostante la famiglia di Indi si opponesse alla sospensione dei sostegni vitali, nonostante i genitori desiderassero ciò che è garantito in tutte le società civili, ossia la libertà di cura e il diritto ad una seconda opinione, è stata positivamente impedita la scelta, addirittura non consentendo nemmeno di portar la bambina a morire a casa. Si è trattato quindi di una imposizione ideologica del “miglior interesse”, in realtà utilizzato per dire “noi decidiamo i tempi e della vita e della morte” di (almeno) alcune categorie di malati, in particolare quelli più fragili e meno in grado di difendersi».
Dal Suo punto di vista è possibile che si possa arrivare ad avere questo scenario anche nel nostro Paese, prima o poi?
«Certamente non lo si può escludere, perché quando si parla di valore della vita sofferente e fragile vediamo uno scivolamento generale verso una sempre maggiore insensibilità per il valore della vita stessa e per il significato che hanno tutti gli istanti della vita. Mi amareggia questo perché le cure palliative sono nate proprio in Inghilterra, dove Cicely Saunders aveva pronunciato quella meravigliosa frase: “Tu sei importante perché sei tu, e sei importante fino all´ultimo momento della tua vita. Faremo ogni cosa possibile non solo per permetterti di morire in pace, ma anche per farti vivere fino al momento della tua morte”. Il suo sforzo dunque era quello di dare dignità alla sofferenza e anche alla morte, ma nel senso pieno, non giudicando il valore di una vita solo in base alla sua qualità».
Secondo Lei il concetto di qualità della vita è in qualche modo “parente” del cosiddetto miglior interesse?
«Diciamo che in un certo senso può essere piegato in quella direzione, perché quando per esempio nell’ambito delle cure palliative rettamente intese si parla di qualità della vita non si intende una cosa negativa, bensì si intende il dare il maggior benessere possibile e l’aiuto, tutto l’aiuto possibile a una vita fragile, a una vita sofferente, a una vita terminale. Il problema subentra quando per qualità della vita si intende la “vita di qualità”, cioè una vita che rispetti determinati standard, che superi un’asticella sotto la quale non ci sarebbero più i requisiti sufficienti per chiamarla vita. Qui si potrebbero facilmente evocare le ideologie che nella storia hanno distinto le vite degne da quelle non degne di essere vissute; ideologie che sono state, culturalmente e socialmente, estremamente pericolose e che hanno portato a forme aberranti di ingiusta discriminazione fra gli esseri umani».
Professoressa, siamo di fronte ad una vicenda che definire drammatica è poco, dal suo punto di vista è possibile trarre da qualche parte in questa vicenda qualcosa da cui ripartire?
«Sicuramente emerge l’impegno profuso dal nostro Paese, che ha dato un segno di umanità, di attenzione e anche di competenza, perché chi si è offerto di ospitare e curare Indi è un ospedale riconosciuto in tutto il mondo per il suo prestigio. L’Italia ha dato un segnale di differenza rispetto ad una cultura della morte che sembra oramai diventata quasi scontata. Mi ha colpito l’osservazione di alcuni critici, secondo cui da noi ci sarebbe stato un inutile clamore mediatico e politico per un caso che invece in Inghilterra è passato praticamente sotto silenzio. Ecco, proprio questo è il punto: è come se ormai in alcuni contesti fosse accettato culturalmente che persone in condizioni come quelle di questa bambina semplicemente si facciano morire. L’Italia in quest’occasione ha avuto il coraggio di dire “noi non ci stiamo”».