Sandro Magister sul grande imbroglio della cosiddetta "Chiesa sinodale".
"Il primo rischio, scrive, è l’estensione della sinodalità a “criterio regolativo supremo del governo permanente della Chiesa”, superiore sia alla collegialità episcopale che all’autorità primaziale del papa".
Luigi
Settimo Cielo, 21-2-23
Proprio mentre si concludono i sinodi continentali che confluiranno nel sinodo mondiale sulla sinodalità in programma a Roma nell’ottobre di quest’anno e poi ancora dell’anno prossimo, uscirà il 24 febbraio in libreria, in Italia, un saggio di un insigne canonista che mette allo scoperto, con rara competenza, sia le ambizioni, sia i limiti e i rischi di questo progetto capitale del pontificato di Francesco.
Il saggio, edito da Marcianum Press, ha per titolo: “Metamorfosi della sinodalità. Dal Vaticano II a papa Francesco”. E l’autore è Carlo Fantappiè, professore di diritto canonico all’Università di Roma Tre e alla Pontificia Università Gregoriana, membro dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales e autore di libri importanti anche di storia della Chiesa, sotto il profilo del diritto.
In poco più di cento pagine, agili ma documentatissime, Fantappiè ripercorre anzitutto la nascita e lo sviluppo dell’idea di sinodalità, a partire dal Concilio Vaticano II e dai turbolenti sinodi nazionali degli anni Settanta in Olanda, in Germania e in altri paesi. Ne descrive la successiva elaborazione ad opera di teologi e canonisti di vari paesi e di varia scuola, compresa la commissione teologica internazionale col suo documento “ad hoc” del 2018. E infine ne valuta l’attuazione nel “processo” che Francesco ha messo in moto.
Che Francesco abbia in mente “un nuovo modello di Chiesa” è fuori dubbio, a giudizio di Fantappiè. “Dopo il modello gregoriano, quello tridentino, quello giuridico-societario, quello di popolo di Dio, ecco affacciarsi il modello di Chiesa sinodale”. Di cui però è difficile comprendere che cosa sia, sottoposto com’è a continue variazioni da parte dello stesso papa, “quasi di mese in mese”.
“Sembra di capire – scrive Fantappiè – che papa Francesco intenda costituire un asse preferenziale, permanente, fra sinodalità e sinodo dei vescovi”, fino al punto, forse, di “attuare il transito da una ‘Chiesa gerarchica’ a una ‘Chiesa sinodale’ in stato permanente, e quindi di modificarne la struttura di governo facente perno da un millennio sul papa, sulla curia romana e il collegio cardinalizio”.
È sulla soglia di questa incombente mutazione della struttura stessa della Chiesa, messa in moto da Francesco, che Fantappiè conclude il suo saggio. Ma è anche utile passare in rassegna “i cinque rischi maggiori” che egli individua nella nuova sinodalità, così come oggi si configura.
Il primo rischio, scrive, è l’estensione della sinodalità a “criterio regolativo supremo del governo permanente della Chiesa”, superiore sia alla collegialità episcopale che all’autorità primaziale del papa.
Sarebbe questo, né più né meno, un ritorno alla “via conciliarista” di Costanza e Basilea della prima metà del Quattrocento, un vero e proprio “stravolgimento dell’assetto costituzionale della Chiesa”. Col quale avremmo “una Chiesa assembleare” e quindi “ingovernabile e debole, esposta a condizionamenti del potere politico, economico e mediatico”, al cui riguardo “dovrebbe insegnarci qualcosa la storia delle Chiese riformate e delle Chiese congregazionaliste”.
Un secondo pericolo, scrive Fantappiè, è “una visione idealistica e romantica della sinodalità”, che non prende in seria considerazione “la realtà del dissenso e del conflitto nella vita della Chiesa” e quindi rifiuta di predisporre norme e pratiche adatte a governarli. Quando invece sarebbe “necessario non soltanto fissare principi e regole circa la modalità della rappresentanza elettorale delle varie classi di fedeli e le procedure adatte per gestire i dibattiti e le votazioni, ma garantire a tutti i partecipanti le informazioni necessarie per valutare i problemi e poter prendere decisioni realistiche”.
Un terzo rischio è “una visione plastica, generica e indeterminata, della sinodalità”. Proprio perché senza una precisa configurazione concettuale, “il termine ‘sinodalità’ rischia ormai di divenire, a seconda dei casi, uno slogan (un termine improprio ed abusato per indicare il rinnovamento della Chiesa), un ‘refrain’ (un ritornello cui si ricorre in ogni occasione, quasi per moda) o un mantra (un’invocazione miracolosa capace di sanare tutti i mali presenti nella Chiesa)”.
Ciò che manca, scrive Fantappiè, è “un discrimine per poter distinguere e differenziare quel che è ‘sinodale’ da quel che non lo è”. Col risultato che “la nuova sinodalità si risolve in incontri, assemblee o convegni ai vari livelli dell’organizzazione ecclesiale”, molto simili, per l’organizzazione e le modalità, “ai sinodi nazionali tenuti nei primi anni Settanta in diversi paesi d’Europa, il cui esito è stato sostanzialmente fallimentare”. Quei sinodi erano “una sorta di trasposizione nella vita della Chiesa del movimento assembleare che si è affermato, dopo il 1968, in alcuni ambiti delle società democratiche dell’Occidente e che si fondava sul principio che la ‘base’ partecipasse direttamente al processo decisionale”.
Sta di fatto, osserva Fantappiè, che gli attuali consessi non hanno niente a che vedere con i “concili particolari” celebrati ininterrottamente nella Chiesa a partire dal II secolo e tra i cui compiti, dal Concilio Lateranense IV del 1215 in poi, c’è “l’applicazione e l’adattamento delle norme comuni dei concili generali alle realtà delle Chiese particolari”. Questi concili particolari sono tuttora prescritti dal diritto canonico, sia pure senza scansioni temporali prefissate, ma il loro abbandono è “una grave perdita per la vita della Chiesa”, tutt’altro che compensata dalla congerie di meeting e di forum oggi di moda.
E siamo al quarto rischio, identificato da Fantappiè “nella prevalenza del modello sociologico anziché teologico-canonico del processo sinodale”. Già il documento della commissione teologica internazionale sulla sinodalità “usa una terminologia tipicamente sociologica (‘strutture’ e ‘processi ecclesiali’) anziché giuridico-canonistica (‘istituzioni’ e ‘procedure’)”, ma ancor più marcata appare questa deriva “se andiamo a leggere il ‘Vademecum per il sinodo sulla sinodalità’ predisposto dal segretariato generale del sinodo dei vescovi”, oppure la sollecitazione a una “leadership collaborativa, non più verticale e clericale, ma orizzontale e cooperativa”, formulata dalla sottosegretaria del sinodo dei vescovi, suor Nathalie Becquart.
“Alla luce di questi riferimenti – osserva Fantappiè – si potrebbe supporre che, più o meno larvatamente, dietro il processo sinodale vi sia un tentativo di reinterpretare l’ufficio ecclesiastico dei vescovi, dei parroci, degli altri collaboratori nei termini di una funzione di animazione pastorale piuttosto che di ministeri sacri cui sono riservati determinati compiti istituzionali”.
Un quinto e ultimo equivoco da evitare, scrive Fantappiè, è appunto “l’identificazione del concetto di sinodalità con la dimensione pastorale”. Quando il programma della nuova sinodalità viene indicato “nella triade comunione, partecipazione, missione”, le si affidano compiti così smisurati “la cui realizzazione non può che apparire utopica”.
All’enumerazione di questi cinque rischi del presunto “farmaco” della sinodalità, al quale molti attribuiscono la capacità “di rimediare a tutti i mali della Chiesa”, Fantappiè aggiunge inoltre i suggerimenti di tre “precauzioni per l’uso”.
La prima è di stabilire per la sinodalità “confini precisi nell’ambito della sua operatività”, anche aprendo nuovi spazi alla “partecipazione di tutti i fedeli al ‘munus regendi’, ossia al governo della Chiesa nelle tre funzioni tradizionalmente distinte in legislativa, esecutiva e giudiziaria”, fermo restando che “non tutte le potestà di governo richiedono di essere congiunte con l’ordine sacro; anzi, talune di esse sarebbero piuttosto da collegare, in via dei requisiti di specifica competenza e di testimonianza cristiana, con il sacerdozio regale di tutti i fedeli”, in particolare nel settore giudiziario.
La seconda precauzione è di “sottrarsi alla confusione tra sinodalità e democratizzazione”. E la terza? È la più irrinunciabile: “evitare che la nuova sinodalità modifichi gli assetti della costituzione divina della Chiesa”. Spiega Fantappiè:
“Anche se condotta in avanti da minoranze ecclesiali, non deve essere sottovalutata la pericolosità che deriva da una visione desacramentalizzata della Chiesa, la quale si propone, più o meno coscientemente, la sua omologazione a una comunità democratica pienamente inserita nel contesto delle forme moderne del governo rappresentativo. Per questo i fautori di tale versione della sinodalità tendono a contestare la struttura gerarchico-clericale, a ridurre il ruolo della dottrina di fede e del diritto divino, a trascurare la centralità dell’eucaristia e a concepire l’organizzazione ecclesiale sul modello congregazionale (una Chiesa di Chiese)”.
Insomma, scrive Fantappiè rivolgendosi ai lettori e in particolare ai teologi e ai canonisti:
“Le speranze di un nuovo orizzonte aperto dal ‘cammino sinodale’ nella vita della Chiesa non devono essere né bruciate nei tempi brevi, né stravolte nelle loro intenzioni, né edulcorate nella loro attuazione. Quel programma attende piuttosto di essere sottoposto a verifica nelle sue premesse dottrinali, e di essere ponderato nella sua complessa articolazione, in modo da venire rafforzato quanto a coerenza teologica, solidità canonistica ed efficacia pastorale. Metterne a nudo i punti deboli, proporre le necessarie integrazioni è un compito di critica costruttiva e non di critica distruttiva, in piena sintonia – si direbbe – con lo ‘spirito sinodale’ della Chiesa”.