L'amico Maurizio ha tradotto per Cristianità (n. 386 luglio\agosto 2017) e ci ha segnalato questo interessantissimo articolo - pubblicato dalla pregevolissima rivista Crisis Magazine - che ci ricorda 1984 di George Orwell e Il Padrone del Mondo, il capolavoro di Robert Hugh Benson.
Articolo lungo, ma da leggere e meditare in questi giorni di festività.
L
L’ABUSO DEL LINGUAGGIO CONDUCE ALL’ABUSO DI
POTERE
di John Paul Meenan*
Il grande
filosofo tomista Josef Pieper [1904-1997] scrisse negli anni Settanta un breve
trattato dal titolo Abuso del linguaggio,
Abuso di potere sull’uso che i regimi totalitari fanno delle parole per
ottenere il controllo sulle masse[1]. L’opera di Pieper mi è tornata in
mente quando ho letto che il governo canadese non intende più usare il termine
ISIS per riferirsi all’ISIS (acronimo di «Stato Islamico dell’Iraq e della
Siria», talvolta abbreviato in IS, semplicemente «Stato Islamico»), ma
ricorrerà al più neutro «Daesh» al fine di evitare – dicono – di dipingere l’intero
Islam con il pennello sporco di sangue del terrorismo islamico. Per ironia
della sorte, non solo «Daesh» è di fatto un acronimo in lingua araba che significa
più o meno la stessa cosa di ISIS, ma i terroristi dell’ISIS hanno minacciato
di tagliare la lingua a chiunque lo utilizzi[2].
Tutto ciò, naturalmente,
solleva molti interrogativi. Uno – e non il meno rilevante – riguarda la
relazione che intercorre tra Islam e terrorismo. Portato alla sua logica
conclusione, questo cambio di nomenclatura suggerisce che nessun atto
terroristico possa, per definizione, essere definito «islamico», nemmeno se il
terrorista lo confessasse tale col suo ultimo respiro. In questo caso, quale sarebbe
il significato da attribuire al grido «Allahu akbar»? Nessuno degli spargimenti
di sangue compiuti in nome di Allah sarebbe veramente islamico? Chi di noi – e
a che titolo – potrebbe escluderlo con certezza? Dovremmo anche rinunciare alla
locuzione «radicalizzazione islamica», solo perché il primo dei vocaboli tra
virgolette si riferisce a un «tornare alle radici»? Ma non è forse vero che, anche
agli occhi dello storico più benevolo, le origini dell’Islam sono
effettivamente intrise di sangue e carneficina? E comunque: può un cambiamento
di nome cambiare questa realtà? No, certo. Nondimeno, un cambiamento di nome può
cambiare la nostra percezione della
realtà: la «realtà» dei nostri pensieri, delle nostre idee, delle nostre
opinioni.
Non è la
prima volta questa che un regime usa un linguaggio di stampo orwelliano per edulcorare
il male: Adolf Hitler (1889-1945) utilizzava lebensraum, «spazio vitale», per indicare il piccolo «soggiorno» da
ritagliarsi in Europa centrale e da destinare ai «veri» tedeschi che la abitavano[3].
Non c’è nulla di preoccupante in una moderata espansione da parte di ariani
dagli occhi blu, vero? Inoltre, bisognava anche «depurare» la razza germanica
dalle «impurità» fino ad arrivare alla «soluzione finale»[4].
La
documentazione scritta pervenutaci relativa alle disposizioni di Hitler sugli
ebrei è scarsa; tutto fu fatto in segreto e all’oscuro, perché, alla luce, la
verità non può che manifestarsi. All’ingresso dei campi di lavoro, dove i
detenuti non destinati immediatamente alle camere a gas erano costretti a
lavorare fino allo stremo e alla morte, campeggiava la famigerata scritta in
ferro battuto Arbeit macht frei, «il
lavoro rende liberi», una parodia demoniaca delle parole di Nostro Signore
secondo cui a rendere davvero liberi è invece la verità.
A essere
pressoché imbattibili nell’utilizzo del bipensiero sono stati, però, i
comunisti[5]:
«piani quinquennali», «liberare il lavoratore», «Partito del popolo»,
«uguaglianza per tutti», «nemici dello Stato». A proclamare tutte le menzogne nella
loro forma ufficiale, peraltro, era la Pravda,
l’organo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, che tutto faceva tranne
che esprimere verità[6].
1. Attenti al totalitarismo soft!
I cosiddetti
regimi totalitari «duri» sono in declino in termini di credibilità e di
attrattiva, ma non lo sono altrettanto quelli soft, nei confronti dei quali bisogna rimanere in guardia: alterando
subdolamente il nostro linguaggio e il significato dei suoi vocaboli, essi
riescono a farsi strada nei nostri pensieri e nella nostra mentalità, come pure
nel nostro governo, nelle scuole e nei loro portavoce fra i media.
Si rifletta
su questo: il termine gay, che fino a tempi abbastanza recenti
significava «felice» o «gaio», oggi si applica a un gruppo umano che abbraccia
vizi contro natura capaci di farne tutto fuorché persone felici o gaie. Il
termine queer ha subito una sorte analoga:
usato un tempo come sinonimo di «bizzarro» o di «eccentrico», oggi lo si vede
associato, come il termine gay, all’orgoglio[7].
Sono veramente orgogliosi di essere gai? Se non ricordo male, anni fa un produttore
di birra nostrano ne commercializzò una chiamata Pride Lager. Sull’etichetta c’era un triangolo rosa. Il prodotto
mirava a una clientela omosessuale, ma non ebbe molto successo. Come potete
immaginare, nessuno voleva esser visto con una di queste bottiglie in mano,
quantomeno non al di fuori di un locale per gay.
Prendiamo
ora in considerazione la parola gender
o «genere». Il termine qualificava una volta esclusivamente oggetti inanimati –
per le persone si usava la parola «sesso» – e poteva essere solo maschile o
femminile. Oggi, del sesso, anzi – chiedo scusa – del genere, ci viene insegnata una nozione fluida;
per di più ci dicono che i più abituali tra i vocaboli che utilizziamo sono gravidi
di «connotazioni discriminatorie». Un tempo semplicemente maschi o femmine,
siamo oggi invitati a scegliere il posto che preferiamo lungo uno spettro di
chissà quanti – qualcuno dice addirittura infiniti[8]
– possibili generi.
Da qui l’auspicio
di non usare più l’onnicomprensivo e inclusivo «lui» o «il suo», ma i goffi e
sgraziati «lui e lei», «lei o lui», quando non addirittura «lui/ei», per non
parlare dei neo-pronomi neutri, bizzarri neologismi generati nell’aria asfittica
del politicamente corretto e che saranno presto prescritti per legge[9].
Un articolo recente del National Post mette
in guardia contro l’interferenza dello Stato in questa «guerra di genere»; poi,
però, dal pulpito morale nel quale i media
di ampia diffusione si sentono insediati, esorta il lettore a utilizzare in
tutta franchezza qualunque pronome l’interlocutore desideri per sé[10].
Ma i pronomi non hanno allora alcun significato oggettivo? Non hanno forse la
funzione di esprimere una determinata realtà e non un’altra? Perché mai dovrei farmi
complice della disordinata «fluidità» – o, come si dice oggi, della «disforia»
– di genere di qualcun altro?[11]
Mi chiedo
quanto tempo ancora ci vorrà prima che il monologo di Amleto e molte altre
opere letterarie siano censurati o emendati: «Che capolavoro è l’uomo! E...,
naturalmente, anche la donna, e i lui/lei... o si tratta di donni?... C’e qualche uoma tra voi?»[12].
Durante il
suo recente viaggio apostolico in Georgia, nel bel mezzo di un discorso rivolto
a sacerdoti, religiosi e operatori pastorali, Papa Francesco ha ritenuto
opportuno mettere in guardia l’uditorio: il matrimonio oggi ha un grande
nemico, ed è la teoria del gender. «Oggi» ha
spiegato il Pontefice «c’è una guerra
mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche
che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee»[13]. Da
questa minaccia, pertanto, occorre difendersi.
2. L’illiberale primo ministro del Canada
Naturalmente,
ove mai qualcuno pensasse di «difendersi», costui – oppure, d’accordo, costei – sarebbe accusato di
bigottismo, di provare sentimenti d’odio e di essere contro la libertà. A tal
proposito, qui in Canada, il primo ministro Trudeau e i suoi sodali governano
sotto il manto della parola «liberale» che deriva dal lemma latino liber, «libero»[14].
Persino i cattolici eterodossi hanno fatto propria questa parola: si definiscono
liberal, mentre chiamano noi,
retrogradi cavernicoli, «conservatori» o «tradizionalisti» se non peggio[15].
In verità, liberal di tal fatta sono
tutto fuorché a favore della vera libertà.
Nella
fattispecie, Trudeau e il parlamento hanno recentemente legalizzato
l’eutanasia. Come attesta la sua etimologia greca, il significato letterale di
tale parola è «buona morte», eu-thanatos.
Chi non vorrebbe una buona morte, circondato dalla famiglia e con un sacerdote
accanto che gli abbia impartito l’unzione degli infermi, in modo da consegnare
l’anima all’eternità e raggiungere il Paradiso accompagnato da una schiera di
angeli? Ma non è propriamente questo ciò che essi intendono per «buona morte»:
tipicamente un operatore sanitario inietterà al paziente-vittima
semi-compiacente una siringa piena di cloruro di potassio nel cuore della
notte.
Trudeau ha
anche chiarito che il suo governo sarà sempre e dovunque difensore del «diritto
di scelta» della donna ovvero – traducendo – del diritto di uccidere il bambino
che questa porta in grembo. In Canada, la situazione legislativa riguardante l’aborto
è, per il momento, stazionaria. Non così in Polonia, dove peraltro già vige una
delle leggi più restrittive al mondo. Qualche giorno fa, il parlamento polacco
ha bocciato una proposta di legge che intendeva vietare la macabra procedura
senza eccezioni. I legislatori sono stati condizionati da una massiccia
manifestazione di donne che, presumibilmente educate nell’ignoranza, si sono
messe in marcia per il loro «diritto» di scegliere ciò che è meglio per il
proprio corpo[16].
Ebbene, che
dire della parola pro-choice (letteralmente:
«a favore della scelta»)? Come mai traduciamo mentalmente tale termine in
«favorevole all’aborto legalizzato»? Eppure, non siamo forse tutti pro-choice nell’unico vero senso possibile
della parola? Per riferirsi al libero arbitrio, sant’Agostino d’Ippona
[354-430] utilizzava liberum arbitrium,
espressione resa più fedelmente nella
nostra lingua da «libera scelta»[17].
Dopotutto, come giustamente osservava Agostino, non possiamo non volere il nostro fine ultimo – che è
Dio – al quale tutti noi aneliamo per natura. Il reale ventaglio delle nostre
scelte riguarda piuttosto i mezzi per
raggiungere questo fine, e tali mezzi possono essere buoni o cattivi. Pertanto
tutti, non ultimi i cattolici che hanno accesso alla pienezza della verità,
sono «a favore della scelta». Solo che alcune scelte sono malvagie, e ci
conducono lontano dal nostro fine ultimo e dal bene comune della società.
Il santo Papa
Giovanni Paolo II [1978-2005], nell’enciclica Evangelium Vitae, si
esprime in maniera ancora più energica quando definisce l’aborto e
l’infanticidio «delitti abominevoli»[18].
Non essendo in grado di trattare il tema in modo più chiaro ed eloquente di come
lo abbia fatto lui, ricorro alla citazione diretta: «Ma oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è
andata progressivamente oscurandosi. L’accettazione dell’aborto nella
mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una
pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di
distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto
fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che
mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il
loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di
autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta:
“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le
tenebre in luce e la luce in tenebre” (Is 5,20). Proprio nel caso dell’aborto
si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di
“interruzione della gravidanza”, che tende a nasconderne la vera natura e ad
attenuarne la gravità nell’opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico
è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a
cambiare la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e
diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della
sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita»[19].
3. È tempo di riappropriarci del nostro linguaggio
Alterando i vocaboli
del nostro linguaggio, le potenze delle tenebre si sono rivelate più furbe dei
figli della luce. Impadronendosi del comune e consueto significato delle parole,
con un’astuta metodologia hanno alterato i pensieri e i concetti che ci mettono
in relazione con le cose come sono e come non sono. Questo, a sua volta, è il
modo in cui san Tommaso d’Aquino [1225-1274] definiva la verità: una conformità
tra la realtà e la sua rappresentazione concettuale, l’«adequatio rei et intellectus»,
forgiata, costruita e custodita dal significato che attribuiamo alle parole
usate per descriverla[20].
Josef Pieper sostiene che i regimi totalitari riescano a mutare la nostra
nozione di verità modificando il nostro uso del linguaggio. Non sono per forza
i cannoni o i carri armati a renderci schiavi, ma l’ignoranza risultante dalla
deformazione delle nostre parole e dei nostri pensieri. Noi – il mio pensiero
va in particolare a quei nostri giovani che frequentano istituti scolastici
controllati dallo Stato –, ci stiamo tramutando in una nazione di zombie eterodiretti.
Chi mai
mette più in relazione la parola gay
con «gaio»? Se c’è chi lo fa è solo perché considera gli omosessuali dichiarati
persone gioiose e felici, purtroppo circondate da bigotti rancorosi che
vorrebbero privarli della fonte della loro gioia; proprio il modo in cui essi vengono
spesso rappresentati nei film e nelle situation
comedy.
Inoltre, se
si esclude uno sparuto gruppo di estremisti
anti-choice, chi più considera l’aborto un omicidio? Qualunque sia il tema
della conversazione, il solo accennare all’argomento è considerato sempre di
cattivo gusto. Con l’eutanasia – che l’asettica perifrasi «morte medicalmente
assistita» rende più digeribile – assisteremo presto allo stesso fenomeno. Fino
a poco tempo fa, l’aiutare qualcuno a morire era tradizionalmente considerato
concorso in omicidio, che è un crimine federale; oggi non più, se la persona coinvolta
è in una condizione di sofferenza «terminale» – ecco rispuntare vocaboli dal
significato approssimativo – o «intollerabile», aggettivo dalla valenza ancor
più ambigua e soggettiva del primo.
Qui
navighiamo in acque sconosciute. Quando le nostre menti s’impantanano o si
annebbiano, dobbiamo respirare l’aria pura della verità nel modo in cui usiamo
le parole. Queste danno poi forma ai nostri pensieri che, a loro volta,
influenzano le nostre azioni, nel bene e nel male.
Ecco alcuni
consigli. Per una sana formazione della mente ci si rivolga innanzitutto a
qualche dignitoso manuale di carattere introduttivo alla logica aristotelica;
si passi, poi, a un po’ di filosofia e teologia scolastica, le cui caratteristiche
principali sono la chiarezza e la precisione: si esprime con chiarezza ciò che si vuole intendere, scalpellando via
ciò che non si vuole intendere. Tra le menti della Chiesa più portentose
nell’insegnare come si ragiona, c’è Tommaso d’Aquino, proposto dalla Chiesa
come paradigma del metodo teologico e della sintesi tra fede e ragione. Egli è la
fonte di gran parte della terminologia ormai consolidata in uso nella Chiesa (e
nella nostra cultura).
Nell’enciclica
Fides et Ratio del 1998, Giovanni
Paolo II si è spinto fino a lodare Tommaso come «autentico modello per quanti ricercano la verità. Nella sua
riflessione, infatti, l’esigenza della ragione e la forza della fede hanno
trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli
ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare
il cammino proprio della ragione»[21]. Si dice
che la scrittrice statunitense Flannery O’Connor [1925-1964] leggesse ogni sera
una pagina della Summa Theologiae; un’abitudine, questa,
decisamente da imitare.
Un passo
ulteriore consiste nel leggere buoni libri, saggi, articoli, encicliche.
Cercare parole nei dizionari, appurando significati ed etimologie al fine di usarle
correttamente, anche quando – anzi, soprattutto quando – farlo risulti
politicamente scorretto.
Riappropriamoci
del linguaggio, in modo che i nostri pensieri e i nostri ragionamenti possano
essere chiari, puri, e... sì, coraggiosi nella verità come Cristo ci ha chiesto
che siano, dimodoché il nostro parlare sia «
“Sì, sì”, “No, no”» (Mt 5,37). Il
di più sappiamo da chi proviene.
*
Nato
in Scozia ma cresciuto in Canada, l’autore è Assistant Professor di Teologia presso la Our
Lady Seat of Wisdom Academy di Barry’s
Bay, nella provincia canadese dell’Ontario. L’articolo Abuse of
Language Leads to the Abuse of Power è apparso il 7-10-2016 sul periodico online
Crisis Magazine. A Voice for the Faithful Catholic Laity ed è consultabile
alla pagina web < http://www.crisismagazine.com/2016/abuse-language-leads-abuse-power>
(gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il
15-10-2016). Ne pubblichiamo il testo per gentile concessione del direttore del
periodico. La traduzione, le inserzioni fra parentesi quadre e le note sono
redazionali.
[1] Cfr. Josef Pieper, Missbrauch der Sprache, Missbrauch der Macht, Kösel-Verlag, Monaco di Baviera, 1974. Esiste
un’edizione in lingua inglese del testo, dal titolo Abuse of Language-Abuse of Power, pubblicata dalla Ignatius Press
di San Francisco (California) nel 1992.
[2] La notizia è riportata, per esempio, su una
pagina web del Breitbart News Network pubblicata il 7-9-2016 (http://www.breitbart.com/national-security/2016/09/07/canadian-govt-will-no-longer-call-islamic-state-name/).
[3] L’autore ricorre qui a un gioco di parole non
immediatamente percepibile in lingua italiana. Lebensraum è in tedesco una parola composta che,
letteralmente, potrebbe essere tradotta «stanza per vivere». In inglese corrisponde
a living room, che è anche il nome
dato alla stanza che, in una casa, funge da soggiorno o da salotto.
[4] Endlösung
der Judenfrage, «soluzione finale della questione ebraica», era
l’eufemismo utilizzato dalla dirigenza nazionalsocialista per riferirsi alle
operazioni di deportazione e di successivo sterminio della popolazione ebraica
residente nei territori controllati dalle forze armate tedesche nel corso della
Seconda guerra mondiale.
[5] Lo scrittore britannico Eric Arthur Blair
(1903-1950), che si firmava con lo pseudonimo George Orwell, conia il vocabolo doublethink, «bipensiero» all’interno del
suo romanzo 1984. Il mondo descritto
in tale opera anti-utopistica è diviso in tre blocchi, in ognuno dei quali vige
un regime totalitario di stampo comunista. «Il bipensiero»
spiega lo scrittore, «implica la capacità
di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro
contrastanti, accettandole entrambe. L’intellettuale di Partito sa in che modo
vanno trattati i suoi ricordi. Sa quindi di essere impegnato in una
manipolazione della realtà, e tuttavia la pratica del bipensiero fa sì che egli
creda che la realtà non venga violata. Un simile procedimento deve essere
conscio, altrimenti non potrebbe essere applicato con sufficiente precisione,
ma al tempo stesso ha da essere inconscio, altrimenti produrrebbe una
sensazione di falso e quindi un senso di colpa. Il bipensiero è l’anima del
Socing [l’ideologia del Partito unico che controlla il blocco chiamato
Oceania], perché l’azione fondamentale
del Partito consiste nel fare uso di una forma consapevole di inganno,
conservando al tempo stesso quella fermezza di intenti che si accompagna alla
più totale sincerità. Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo
crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto
sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo
in vita dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una
realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si
nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile» (George Orwell, 1984, trad. it. di Stefano Manferlotti,
Mondadori, Milano 2011, p.
178).
[6] La parola russa Правда, «Pravda», significa
appunto «verità».
[7] Gay
Pride e Queer Pride,
letteralmente «orgoglio gay» e
«orgoglio queer», sono manifestazioni
di piazza durante le quale i partecipanti, quasi sempre all’insegna del cattivo
gusto, esprimono appunto orgogliosamente il proprio orientamento omosessuale.
[8] L’autore qui rimanda a una pagina del sito Quora che, ai suoi lettori, promette «la
migliore risposta possibile a ogni domanda». La prima delle ventisei risposte
pubblicate alla domanda «Quanti sessi o generi esistono?», innanzitutto
distingue il sesso assegnato dal medico al momento della nascita dal sesso
biologico e dal sesso fisiologico, poi dichiara che «il numero di possibili generi è infinito. Pur tuttavia, giacché gli
esseri umani sono in numero finito, il numero effettivo di generi esistenti è
certamente calcolabile»
(https://www.quora.com/How-many-genders-or-sexes-are-there).
[9] Nel testo originale, l’autore cita come
esempio zhe, shi e
zir. Il primo o il secondo sarebbero destinati a sostituire he e she
(«egli» e «ella»), il terzo him e her («lui» e «lei» con funzione
grammaticale di complemento).
[10] Cfr. Chris Selley, Stop being a jerk over someone’s pronoun preference – they’re human beings, not issues, pubblicato sul portale National
Post il 5-10-2016 (http://news.nationalpost.com/full-comment/chris-selley-academic-freedom-should-be-protected-but-that-doesnt-mean-anyone-has-to-be-a-total-jerk).
[11] Soffre di «disforia di genere» chi,
indipendente dal proprio orientamento sessuale, s’identifichi in modo forte e
persistente non nel proprio sesso biologico ma in quello opposto. Cfr. la
definizione F64.2 dell’International Statistical Classification of Diseases and
Related Health Problems 10th Revision (versione del 2010) consultabile alla
pagina web http://apps.who.int/classifications/icd10/browse/2010/en#/F64.2.
[12] Nel testo originale l’autore utilizza altri
pronomi neutri che le comunità LGBT vorrebbero vedere inseriti a pieno titolo
nella lingua inglese: er, womyn e humyn. Il passo dell’Amleto
cui qui si allude è il seguente: «Che
capolavoro è l’uomo, com’è nobile nella ragione, com’è infinito nelle sue
facoltà, com’è preciso ammirevole nella forma e nel movimento, com’è simile a
un angelo nell’azione, com’è simile a un dio nell’intendimento» (William
Shakespeare, Amleto, trad. it. di
Agostino Lombardo con testo originale a fronte, Feltrinelli, Milano 1995, p.
103).
[13] Francesco, Discorso tenuto a Tbilisi rivolto a sacerdoti, religiosi, religiose,
seminaristi e agenti di pastorale, tenuto il 1°-10-2016
(https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/october/documents/papa-francesco_20161001_georgia-sacerdoti-religiosi.html).
[14] Justin Pierre James Trudeau, primo ministro
canadese dal 4-11-2015, è anche leader
del Liberal Party of Canada, un partito
«centrista» le cui posizioni sui temi eticamente sensibili – aborto, unioni
omosessuali, eutanasia, legalizzazione della droga – sono pressoché
indistinguibili da quelle del New Democratic Party, più a sinistra del Liberal
Party solo quanto al tasso di socialismo delle politiche economiche che
promuove.
[15] Lo spettro semantico del vocabolo liberal nei Paesi di lingua anglosassone
è ampiamente sovrapponibile a quello dei nostri «progressista» e «radicale».
[16] La manifestazione è avvenuta il 3-10-2016, la
votazione in parlamento tre giorni dopo. Cfr. Francesco Ognibene, Aborto in Polonia, il governo cambia idea,
in Avvenire del 6-10-2016
(http://www.avvenire.it/Vita/Pagine/polonia-cambia-idea-su-aborto.aspx).
[17] Cfr., per esempio, Franco De Capitani, Il «De libero arbitrio» di s. Agostino.
Studio introduttivo, testo, traduzione e commento, Vita e pensiero, Milano
1987.
[18] «Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro
la vita, l’aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono
particolarmente grave e deprecabile. Il Concilio Vaticano II lo definisce,
insieme all’infanticidio, “delitto abominevole”» (Giovanni Paolo
II, Lettera enciclica «Evangelium vitae»,
del 25-3-1995, n. 58). La citazione interna è tratta dalla Costituzione
pastorale del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo «Gaudium et Spes», del 7-12-1965, n. 51.
[19] Ibidem.
[20] «Veritas
est adequatio rei et intellectus» (Tommaso d’Aquino, De
veritate, q. 1 a. 2).
[21] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Fides et Ratio», del 14-9-1998, n. 78.
Curioso: una resipiscenza da parte di Alleanza Cattolica? Pareva che i seguaci di Plinio Correa de Oliveira avessero perso la memoria delle gloriose battaglie d'antan, delle Messe tridentine clandestine, dell'apostolato fuori dalle chiese per combattere il divorzio prima e l'aborto poi. Ultimamente non si sentono contestare minimamente la deriva apostatica della neo-chiesa. Né prender posizione su Amor laetitiae o sulla monomania bergogliana dell'immigrazione...
RispondiEliminaBen venga dunque l'appello finale: "Riappropriamoci del linguaggio, in modo che i nostri pensieri e i nostri ragionamenti possano essere chiari, puri, e... sì, coraggiosi nella verità come Cristo ci ha chiesto che siano, dimodoché il nostro parlare sia « “Sì, sì”, “No, no”» (Mt 5,37). Il di più sappiamo da chi proviene."
Chissà che qualcuno non si sia svegliato dal lungo torpore.
Circa l'abuso del linguaggio, utilizzato sempre più in modo criptico e contraddittorio ai fini di imporre " la dittatura del relativismo", la gerarchia, i teologi e i filosofi 'cattolici' dovrebbero abbandonare, recuperando fede e dottrina, il subdolo eloquio dei politici e dei poteri finanziari fatto per ingannare i popoli.
RispondiEliminaSono d'accordissimo. Giorni fa, deplorando l'oscena pratica dell'aborto con una insegnante di RELIGIONE, mi sono sentito rispondere istericamente: "Basta con questo aborto!" dopodiché mi ha elencato con soddisfazione il suo programma" didattico", all'insegna di recital di cantautori fra cui De André, le cui canzoni non sono certo un esempio di mentalità da figli della luce...a proposito, la suddetta signora ha definito "tragedia" la mancata elezione della Clinton alla Casa Bianca. Insomma, che dire, i nostri docenti di religione talvolta affossano la materia stessa che insegnano!
RispondiElimina"Docenti"? Classico "abuso di linguaggio". Altro che "docenti": questi poveracci al posto della testa hanno un pentolone in cui una paccottiglia andata a male.
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