Abbiamo ricevuto un interessante studio su San Francesco da Paola (1416-1507) Patrono della Calabria e Fondatore dell'Ordine dei Minimi
redatto in occasione del VI Centenario della nascita dell'eremita calabrese.
Il sepolcro di San Francesco da Paola morto in Francia a Plessis-les-Tours, vicino Tours, divenuto subito meta di numerosi pellegrinaggi, fu profanato dapprima dai protestanti (Ugonotti) e poi dagli empi rivoluzionari.
Dal 1955 le Reliquie del "Taumaturgo della Calabria" sono venerate nel suo Santuario Basilica nella Città di Paola.
Ringraziamo di cuore per il gentile pensiero che l'Autore dell'Articolo ha avuto nei confronti dei Lettori di MiL.
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I SEGRETI DEL SANTO TERRIBILE
Riflessioni a conclusione del sesto centenario
della nascita
di San Francesco da Paola
di Andrea Pino
di Andrea Pino
Il 2016 è coinciso
con il sesto centenario della nascita di uno dei santi più amati e, stando ad
una ben consolidata tradizione agiografica, anche più temuti della storia del
Cattolicesimo, Francesco da Paola (1416-1507).
E subito il pensiero corre all’altro
Francesco, l’omonimo medievale.
Del resto, che vi sia un legame profondo tra
queste due sublimi figure è innegabile e non solo perché l’uno ereditò il nome
dell’altro.
Infatti, i vagiti che il 27 Marzo 1416 ruppero il silenzio della
sperduta ed umilissima contrada calabrese in cui vivevano i coniugi Giacomo
d’Alessio, detto “Martolilla”, e Vienna da Fuscaldo, furono giudicati come un
vero miracolo del santo umbro, cui i neogenitori, ormai
in età avanzata, si erano rivolti per chiedere la grazia di un figlio.
in età avanzata, si erano rivolti per chiedere la grazia di un figlio.
Di più, il piccolo appena
cresciuto fu votato dalla madre a vestire per un anno il saio del Poverello e
da adolescente venne condotto, attraverso un lungo pellegrinaggio, sino ad
Assisi, in segno di gratitudine.
Non è poi un caso che i seguaci dell’eremita
della Sila abbiano assunto il significativo nome di Minimi, quasi un’eco del
Minores, con cui venivano indicati i figli dello stigmatizzato de La Verna.
Numerose sono dunque le analogie ed i punti di mistico contatto tra le due
insigni personalità, non ultimo il loro vincolo con la terra italiana.
Anche
se, come ebbe a scrivere Divo Barsotti, l’Assisano (giustamente definito da un
celebre detto come “il più santo tra gli italiani ed il più italiano tra i
santi”) rappresenta bene il Settentrione mentre il Mezzogiorno che, come anima,
storia, cultura e forma di vita costituisce una diversa modalità d’essere
Italia, è molto più riconoscibile nel Taumaturgo calabrese.
Tuttavia l’aspetto
più sorprendente del santo di Paola resta l’assoluta armonia della sua vicenda
esistenziale con il monachesimo primitivo: Francesco è come un seme di questo
straordinario fenomeno della storia della Chiesa antica, germogliato però in
pieno Rinascimento.
E stavolta il pensiero corre ad Antonio il grande, la
millenaria quercia del monachesimo cristiano, alla cui fresca ombra, come
robusti ulivi, tutti gli altri padri sarebbero fioriti.
Anzi, tra Antonio e
Francesco sembra esserci, nascosto dietro il velo delle loro differenti
esistenze e nonostante gli svariati secoli di distanza, un legame molto intimo.
L’uno trovò un fertilissimo terreno spirituale nella sabbia ocra del deserto
egiziano, l’altro trasse linfa per le proprie radici dalla dura roccia dei
selvaggi monti calabresi.
Entrambi sperimentarono ogni forma di tentazione
demoniaca e furono chiamati a lottare contro spiriti maligni.
Antonio ruppe il
suo isolamento e soccorse la Chiesa di Alessandria che gli era madre quando la
seppe esposta al pericolo dell’eresia ariana.
Francesco pose fine alla propria
esperienza eremitica quando dalla Sede Romana gli fu richiesto di intraprendere
l’inaspettato viaggio che lo avrebbe condotto sin nel cuore d’Europa, alla
corte del re di Francia Luigi XI, dove trascorse l’ultimo scorcio della sua
vita.
Qualcosa dell’infuocato sole orientale, che era stato il più fedele
testimone delle altezze a cui Antonio era salito, doveva brillare anche nello
sguardo di Francesco.
Sguardo che, come assicura il prof. Giovanni Sole, da
sempre affascinato dal suo famoso conterraneo tanto da dedicargli non pochi
studi nonché l’acuta pellicola Francisco de Paula del ʼ92, aveva qualcosa di
fiero e terribile: due pupille ardenti e leonine con una barba ispida e
bianchissima dovevano spuntare da sotto il cappuccio bruno.
Ma se Antonio è il
santo del fuoco, Francesco è invece quello dell’acqua.
Meglio ancora se salata.
Quando Pio XII nel 1943, con il breve apostolico Quod Sanctorum Patronatus, lo
dichiarò solennemente celeste patrono della gente di mare italiana non fece che
ungere con il crisma dell’ufficialità una devozione ormai radicata, addirittura
secolare.
Essa rimontava già all’epoca del processo di canonizzazione quando
alcuni testimoni riferirono l’episodio destinato a divenire il più noto e
meraviglioso di cui fu protagonista l’asceta paolano: giunto nei pressi di
Reggio, Francesco chiese ad un barcaiolo la carità di essere traghettato in
Sicilia e, al rifiuto oppostogli, avrebbe attraversato lo Stretto di Messina
valendosi del proprio mantellone come zattera.
Il racconto di questo prodigio
si impresse a tal punto nell’immaginario collettivo tanto da avere una notevole
fortuna iconografica e di fatto veicolò il culto dell’eremita negli ambienti
marinari di tutta la penisola e oltre.
Prove inequivocabili sono offerte dalla
penna di Giovanni Verga che, in un drammatico capitolo de I Malavoglia,
immagina i pescatori di Aci Trezza invocare, disperati, l’intervento del santo
calabrese, per scongiurare il naufragio della celebre barca di padron ʼNtoni,
la Provvidenza, e dalle note per
pianoforte di Franz Liszt nella sonata Francesco da Paola cammina sulle acque.
Nella religiosità popolare insomma bastò poco perché Francesco affiancasse
l’altro grande e ben più antico santo marinaro della Chiesa, anche se legato al
mondo greco-bizantino, Nicola di Mira.
Ciononostante il nome dell’anacoreta del
profondo sud non riecheggiò solo nel Mediterraneo.
Acque ben più vaste e
sterminate lo avrebbero udito, quelle dell’Atlantico.
Stando infatti alle
suggestive ricerche condotte dal prof. Giuseppe Pisano sarebbe innegabile una
relazione tra Francesco da Paola e le spedizioni di Cristoforo Colombo
(1451-1506) allo scoperta del Nuovo Continente.
Come si sa, i due personaggi
sono contemporanei ed è altresì accertata la presenza di marinai calabresi
nell’equipaggio del grande ammiraglio ligure, un uomo (è bene ricordarlo)
religiosissimo, al punto da essere candidato alla beatificazione ai tempi di
Leone XIII.
Il dato più significativo è però un altro: il primo religioso ad
imbarcarsi per l’America al seguito di Colombo fu Bernardo Boyl, un membro
dell’ordine dei Minimi, investito dallo stesso Paolano della carica di vicario
generale per la Spagna e diplomatico di fiducia dei reali iberici.
È facile
allora immaginare come Francesco abbia potuto avere un qualche ruolo in quegli
eventi.
Del resto, pur essendo un eminente contemplativo, egli fu sempre
immerso nella sua tormentata epoca e ben consapevole di quanto accadeva nel
mondo, soprattutto da quando divenne (suo malgrado) ospite, vita natural
durante, della corte d’oltralpe.
Nondimeno questo
suo essere presente nella storia è dimostrato da due episodi che ebbero
un’amplissima eco e che, guarda caso, sono rievocati più di una volta negli
scritti di Colombo: la strage di Otranto del 1480 e la resa di Granada nel
1492.
Il primo venne preannunciato con largo anticipo dal santo ed il martirio
della gloriosa città salentina costituì l’incipit dell’aggressione islamica
all’Europa dopo la tragica caduta di Costantinopoli.
Nel secondo, che segnò il
compiersi della Reconquista cristiana nella penisola iberica, Francesco fu
ancor più protagonista.
Si narra infatti come i monarchi cattolici, Ferdinando
ed Isabella, stessero per rinunciare all’impresa ma due inviati dell’eremita li
spinsero a non desistere.
Fu così che il difficile assedio del reame moresco si
risolse in un trionfo: cadeva l’ultimo bastione musulmano in terra spagnola ed
i Minimi sarebbero stati definiti Frates de la Victoria.
Per chiarezza, è
bene evidenziare come l’asceta calabrese fosse sì buono e caritatevole ma non
era affatto contrario all’idea della crociata, alla pena di morte o al pensiero
di dover essere difensori e vindici della maestà divina. Il suo predicare
rispecchiava perfettamente la Tradizione cristiana: Dio così com’è somma
misericordia è anche somma giustizia.
Lo stesso abito adottato dal suo ordine,
con la cocolla che copriva le spalle ed il petto, era fatto per richiamare alla
mente la corazza del cavaliere medievale e simboleggiare l’eroicità dello
spirito.
Del resto, non a caso i Minimi furono posti dal fondatore sotto il
patronato dell’arcangelo Michele, il principe delle milizie celesti che, stando
alle agiografie, mostrò al santo quello che sarebbe divenuto il suo emblema:
uno scudo luminoso su cui era incisa la parola Charitas disposta su tre righe,
quasi a voler richiamare il dogma trinitario.
Ed infine, anche i membri della
famiglia religiosa saliti sugli altari, come i padri Gaspare de Bono
(1530-1604) e Nicola da Longobardi (1650-1709), beatificati durante il
burrascoso pontificato di Pio VI, furono personalità virili, maschi alfa, animi
guerrieri coperti dal saio.
L’esserci di
Francesco nelle vicende europee continuò comunque ben oltre la morte, avvenuta
a Tours il Venerdì Santo del 1507.
A concedergli l’aureola, ad appena dodici anni
dal transito, fu Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, sotto il cui
pontificato ebbe inizio lo scisma luterano.
E furono proprio i protestanti
francesi a compiere un vergognoso e deprecabile attentato alla presenza
spirituale dell’asceta, profanandone il sepolcro e dandolo alle fiamme.
Così
andò perduto un inestimabile tesoro affettivo per i devoti che tuttavia, a sei
secoli di distanza, restano certi che nulla, nemmeno questo infausto episodio,
possa scalfire la tempra del santo terribile.