di F. Agnoli
(segue)
Commentavo, la volta scorsa, un capolavoro di Rodney Stark, “A Gloria di Dio”, e in particolare il capitolo sullo schiavismo. Notavo però la mancanza di una parte dedicata all’ “abolizionismo” dei primi secoli del cristianesimo. Stark non ha forse affrontato l’argomento per un motivo: è la storiografia contemporanea che, faticando a comprendere le categorie religiose, trascura da anni questo tema.
L’abolizionismo ottocentesco, infatti, procedette per petizioni pubbliche, pressioni politiche, leggi, addirittura guerre (la guerra civile americana e le guerra della marina britannica e francese contro schiavismo islamico): fu dunque un fenomeno ben comprensibile alla mentalità occidentale di oggi. Al contrario, l’ “abolizionismo” dei primi secoli si concretizzò nel cambiamento, graduale, di concezione teologica ed antropologica, senza guerre, né petizioni, né coinvolgimento, se non secondario, di governi.
Per questo diversi storici contemporanei mettono tutti in luce la novità portata dal cristianesimo riguardo alla schiavitù, sottolineano la grandezza del messaggio paolino (“Non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero”), talora elencano anche i singoli aspetti benefici che derivarono agli schiavi dall’azione della Chiesa, ma concludono, erroneamente, che la Chiesa accettò in qualche modo la schiavitù, benché moderata, mutata, corretta.
Una simile lettura storica nasce della incapacità del pensiero moderno, abituato alle rivoluzioni politiche, di intendere una “rivoluzione” religiosa.
Quando san Paolo o alcuni uomini di Chiesa invitavano i padroni a rispettare i loro schiavi, e gli schiavi ad obbedire ai loro padroni, questo non significa che riconoscessero, in qualche modo, la schiavitù, ma che perseguirono uno svuotamento dall’interno di questa istituzione, attraverso la trasformazione del cuore e della mente dei loro contemporanei.
Il primo atto di “abolizionismo” cristiano non fu la “lotta di classe” (da cui sono sorti solo gulag e schiavismo di Stato), bensì la proclamazione di una verità di fede, contenuta nella preghiera stessa di Cristo: il Padre Nostro. Se infatti siamo tutti figli dello stesso Padre, è giocoforza riconoscere la nostra uguaglianza dinnanzi a Lui. Per questo Marc Bloch nota giustamente che il solo sedere accanto, durante la liturgia divina, di padrone e schiavo cristiani, fu una rivoluzione culturale immensa. Lo schiavo, figlio anche lui del “Padre Nostro”, non era più da meno di una porta (Plutarco), neppure un mero instrumentum vocale (Catone), ma era, appunto nientemeno che figlio di Dio.
Così nella Lettera di Barnaba si poteva leggere: “Non comandare amaramente alla schiava o allo schiavo tuo che sperano nello stesso Dio, onde non ti avvenga di non temere Dio che è sopra te e sopra loro”; analogamente Lattanzio affermava che padroni e servi “sono pari” perché “fratelli”, mentre Clemente Alessandrino insegnava: “Gli schiavi debbonsi adoperare come noi adoperiamo noi stessi, giacché sono uomini come noi, e Dio è eguale per tutti, liberi e schiavi”. Dal canto suo Cirillo Alessandrino ricordava che “in Cristo Gesù non c’è né servo né libero”, mentre sulle iscrizioni funerarie cristiane se è raro il caso che venga espressa la condizione di liberto, non si è mai trovata quella di schiavo.
Come dimenticare, poi, che Cristo stesso morì sulla croce, cioè con la terribile pena destinata, allora, solamente agli schiavi?
Fu dalla visione teologica cristiana, dunque, che derivò il progressivo sgretolarsi dello schiavismo romano, che era sì già in crisi, ma non certo defunto; fu per questa stessa fede che Costantino vietò la crocifissione, i giochi gladiatorii negli stadi, dove gli schiavi venivano divorati dalle belve, il marchio a fuoco sugli schiavi stessi e la vendita dei bambini esposti.
Mentre l’imperatore legiferava, e i sinodi riconoscevano agli schiavi sempre più diritti -al matrimonio, all’asilo ecclesiastico, alla domenica libera, ecc.- Agostino, Ambrogio e tanti altri invitavano i cristiani ad affrancare i loro servi; ne riscattavo loro stessi, vendendo beni ecclesiastici; ammonivano a non utilizzare le serve, come avveniva nei tempi del paganesimo, come puri strumenti di piacere, a non arricchirsi a danno degli altri, a non disprezzare il lavoro manuale (sino ad allora prerogativa, appunto, degli schiavi); ricordavano i detti evangelici, così poco conformi alla mentalità schiavista pagana: “Guai a voi ricchi”; “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli”…
Fu così che si sgretolò il sistema schiavistico antico, e che non solo si liberarono migliaia di schiavi, ma si introdusse l’idea stessa, del tutto nuova, secondo cui la schiavitù è una istituzione ingiusta, perché negatrice di una verità ontologica. Il cristianesimo non fu dunque un messaggio sociale, e solo poi religioso; non fu neppure la promessa di liberazione solo nell’aldilà, come scrisse Engels. Fu la proposta di una teologia che portò, con sé, inevitabilmente, un effetto sociale: la liberazione di molti dalla schiavitù del peccato fu anche, per molti altri, la liberazione dalla schiavitù fisica, perché è la prima che causa la seconda, e non viceversa.
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Commentavo, la volta scorsa, un capolavoro di Rodney Stark, “A Gloria di Dio”, e in particolare il capitolo sullo schiavismo. Notavo però la mancanza di una parte dedicata all’ “abolizionismo” dei primi secoli del cristianesimo. Stark non ha forse affrontato l’argomento per un motivo: è la storiografia contemporanea che, faticando a comprendere le categorie religiose, trascura da anni questo tema.
L’abolizionismo ottocentesco, infatti, procedette per petizioni pubbliche, pressioni politiche, leggi, addirittura guerre (la guerra civile americana e le guerra della marina britannica e francese contro schiavismo islamico): fu dunque un fenomeno ben comprensibile alla mentalità occidentale di oggi. Al contrario, l’ “abolizionismo” dei primi secoli si concretizzò nel cambiamento, graduale, di concezione teologica ed antropologica, senza guerre, né petizioni, né coinvolgimento, se non secondario, di governi.
Per questo diversi storici contemporanei mettono tutti in luce la novità portata dal cristianesimo riguardo alla schiavitù, sottolineano la grandezza del messaggio paolino (“Non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero”), talora elencano anche i singoli aspetti benefici che derivarono agli schiavi dall’azione della Chiesa, ma concludono, erroneamente, che la Chiesa accettò in qualche modo la schiavitù, benché moderata, mutata, corretta.
Una simile lettura storica nasce della incapacità del pensiero moderno, abituato alle rivoluzioni politiche, di intendere una “rivoluzione” religiosa.
Quando san Paolo o alcuni uomini di Chiesa invitavano i padroni a rispettare i loro schiavi, e gli schiavi ad obbedire ai loro padroni, questo non significa che riconoscessero, in qualche modo, la schiavitù, ma che perseguirono uno svuotamento dall’interno di questa istituzione, attraverso la trasformazione del cuore e della mente dei loro contemporanei.
Il primo atto di “abolizionismo” cristiano non fu la “lotta di classe” (da cui sono sorti solo gulag e schiavismo di Stato), bensì la proclamazione di una verità di fede, contenuta nella preghiera stessa di Cristo: il Padre Nostro. Se infatti siamo tutti figli dello stesso Padre, è giocoforza riconoscere la nostra uguaglianza dinnanzi a Lui. Per questo Marc Bloch nota giustamente che il solo sedere accanto, durante la liturgia divina, di padrone e schiavo cristiani, fu una rivoluzione culturale immensa. Lo schiavo, figlio anche lui del “Padre Nostro”, non era più da meno di una porta (Plutarco), neppure un mero instrumentum vocale (Catone), ma era, appunto nientemeno che figlio di Dio.
Così nella Lettera di Barnaba si poteva leggere: “Non comandare amaramente alla schiava o allo schiavo tuo che sperano nello stesso Dio, onde non ti avvenga di non temere Dio che è sopra te e sopra loro”; analogamente Lattanzio affermava che padroni e servi “sono pari” perché “fratelli”, mentre Clemente Alessandrino insegnava: “Gli schiavi debbonsi adoperare come noi adoperiamo noi stessi, giacché sono uomini come noi, e Dio è eguale per tutti, liberi e schiavi”. Dal canto suo Cirillo Alessandrino ricordava che “in Cristo Gesù non c’è né servo né libero”, mentre sulle iscrizioni funerarie cristiane se è raro il caso che venga espressa la condizione di liberto, non si è mai trovata quella di schiavo.
Come dimenticare, poi, che Cristo stesso morì sulla croce, cioè con la terribile pena destinata, allora, solamente agli schiavi?
Fu dalla visione teologica cristiana, dunque, che derivò il progressivo sgretolarsi dello schiavismo romano, che era sì già in crisi, ma non certo defunto; fu per questa stessa fede che Costantino vietò la crocifissione, i giochi gladiatorii negli stadi, dove gli schiavi venivano divorati dalle belve, il marchio a fuoco sugli schiavi stessi e la vendita dei bambini esposti.
Mentre l’imperatore legiferava, e i sinodi riconoscevano agli schiavi sempre più diritti -al matrimonio, all’asilo ecclesiastico, alla domenica libera, ecc.- Agostino, Ambrogio e tanti altri invitavano i cristiani ad affrancare i loro servi; ne riscattavo loro stessi, vendendo beni ecclesiastici; ammonivano a non utilizzare le serve, come avveniva nei tempi del paganesimo, come puri strumenti di piacere, a non arricchirsi a danno degli altri, a non disprezzare il lavoro manuale (sino ad allora prerogativa, appunto, degli schiavi); ricordavano i detti evangelici, così poco conformi alla mentalità schiavista pagana: “Guai a voi ricchi”; “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli”…
Fu così che si sgretolò il sistema schiavistico antico, e che non solo si liberarono migliaia di schiavi, ma si introdusse l’idea stessa, del tutto nuova, secondo cui la schiavitù è una istituzione ingiusta, perché negatrice di una verità ontologica. Il cristianesimo non fu dunque un messaggio sociale, e solo poi religioso; non fu neppure la promessa di liberazione solo nell’aldilà, come scrisse Engels. Fu la proposta di una teologia che portò, con sé, inevitabilmente, un effetto sociale: la liberazione di molti dalla schiavitù del peccato fu anche, per molti altri, la liberazione dalla schiavitù fisica, perché è la prima che causa la seconda, e non viceversa.
pubblicato su Il Foglio
http://www.zic.it/zic/images/2201_a2956.jpg
RispondiEliminaCaro Agnoli,
RispondiEliminanon so se si è reso conto che allamaggioranza dei frequentatori di questo blog del tema della schiavitù non importa gran che. Non pensano che sia stato il Cristianesimo a metterla in crisi e pensano che non avrebbe nemmeno dovuto farlo. Il Cristianesimo, quello della tradizione, conviverebbe per loro benissimo con una società schiavista
Caro pseudo "storico medioevale" lei è un illustre calunniatore di questo blog che espone molti punti di vista senza por mano ai tagli che ritengo doverosi su personaggi come lei che s'insinuano come serpenti, strisciando...Ma poichè la redazione applica la parabola del grano e della zizzania, lascia fare pur con mio rammarico. Ma questa era proprio troppa trippa alla cirenaica da lasciar corrre via! >:o
RispondiEliminaInvece nella sostanza ha ragione "storico medievale". Agnoli dovrebbe spiegare queste cose ai suoi amici pliniani, che vanno in estasi per le pseudo "società tradizionali".
RispondiEliminaCaro storico, questo suo commento, rispetto a quelli precedenti della prima parte, è talmente sconnesso che se dovessimo giudicare gli storici in base alle sue conclusioni ed al modo di argomentare, ci sarebbe da rabbrividire. Questo indipendentemente dall'opinione che uno può avere dell'argomento. Se a lei di questo studio non importa niente sono affari suoi e mi chiedo perché abbia perso il suo tempo a leggere l'articolo. Dà però fastidio vedere persone ergersi a interprete o rappresentante della maggioranza di un gruppo senza nessun diritto.
RispondiEliminaPer il rabbioso Mardunolbo: guardi che io stavo solo riassumendo quanto aveva scritto precedentemente Placentinum. Petr il resto è un fatto che su questo blog quando si parla di qualche ennesima liturgia 'modernista' si sfiora il centinaio di interventi. Quando invece ci sarebbe da discutere sul rapporto schiavitù Cristianesimo, che implica un discorso serio sulla legge naturale, sui diritti della persona umana etc, ci vien detto che si tratta di un argomento di poca importanza. Per il resto i serpenti lasciamoli allo zoo
RispondiEliminaCarissimo "storico",credo che il suo dilemma a riguardo dei blogger di Messainlatino sia un po minimalistico-approssimativo,perchè quest'argomento della schiavitù andrebbe analizzato considerando anche l'attuale/odierna situazione socio-culturale-politica del mondo!Questo perchè anche oggi,a mio modestissimo e sindacabile parere,il fenomeno globalizzazione è,di fatto,una sorta di schiavitù moderna subdolamente velata dal finto diritto ad una vita più dignitosa per tutti,spingendo,di fatto,masse e flussi enormi di persone a spostarsi da un continente all'altro nella disperata ricerca di una felicità e di una sicurezza economica legata a condizioni di vita migliori che hanno,per contro,portato a divisioni delle famiglie che si trovano lontane nei loro membri e sfaldate,hanno portato ad una perdita ed a una crisi di identità in quei paesi nei quali le rispettive società civili sono diventate multiculturali e che rischiano,per tale motivo,di relativizzarsi anche in quei valori fonamentali quali l'identità religiosa e l'identità della visione della famiglia tradizionale,contribuendo ad una diminuzione delle nascite dovute alla carenza di lavoro perchè la domanda/offerta ha assunto una tale sproporzione da rendere scontenti tutti!
RispondiEliminaQuindi il problema è assai più complesso rispetto a come lo etichetta lei che addita a dei "fantomatici tradizionalisti" la colpa di essere insensibili alle tematiche sociali perchè esenti da problemi economici in quanto gente...."borghese" e favorevole alla sottomissione di povera gente incolpevole.
Se la prenda piuttosto con la politica,corrotta e collusa intrinsecamente con la massoneria che,come un miraggio di un'oasi nel deserto,propone modelli incompatibili di benessere per tutti,che si tramuta,di fatto,in una situazione di guadagno solo per i più potenti,come sempre,del resto!
<span>Ho trattato brevemente in questo e nell'altro articolo un tema ampio, che tocco anche nel mio "Indagine sul cristianesimo". Vorrei notare che uso il termine schiavo in senso proprio: lo schiavo nel mondo antico è cosa, senza alcun diritto. Nè di matrimonio, nè di altro. può essere messo a morte, senza molti problemi, è un instrumentum vocale, è, per i greci, schiavo per natura. Condannabile ad metalla, ad bestias... marchiato a fuoco, fatto morire nei circhi... Il cristianesimo, sin dal principio, lotta contro tutto questo: è un dato di fatto innegabile. Nella società cristiana la schiavitù cambia enormemente (proprio Bloch spiega la differenza tra schiavo e servo della gleba, tutt'altra cosa); rimane, certo, come tutti i peccati, ma nell'Europa cristiana è un fenomeno marginale (nulla a che vedere con la società pagana romana, dove gli schiavi erano anche un terzo della popolazione); quanto a Wilberforce , grande abolizionista inglese, era un fervente cristiano Era inglese (ed anglicano, quindi) per un semplice motivo: che gli italiani, i cattolici per eccellenza, non potevano più di tanto sentire l'urgenza del problema, perchè non avevano schiavi nè colonie, quindi l'abolizionismo politico non poteva nascere da noi, è ovvio! Era l'Inghiletrra il paese dello schiavismo, e questo proprio perchè la mancanza della Chiesa cattolica aveva impedito ogni freno: per questo divenne anche il paese dell'abolizionismo; in secondo luogo gli "abolizionisti" italiani erano di altro tipo: don Mazza, Daniele Comboni, card. Massaia, come, ancora oggi, mons. Mazzolari..cioè i missionari: liberavano migliai di schiavi......un caro saluto e mi scuso per la fretta</span>
RispondiElimina... e aggiungerei a quanto detto da Ospite, tutte quelle forme che rendono schiavo l'uomo assogettandolo fin dall'adolescenza e quasi dall'infanzia al sesso, alle droghe e ad una superficialità di vita che rendendolo bruto lo mantengono in balia di vari poteri e gruppi di persone.
RispondiElimina<span>una sorta di schiavitù moderna</span>
RispondiEliminaCon la differenza. che, una volta, gli schiavi non pagavano per salire sulla nave negreria.
Quella di oggi è una schivitù ben peggiore. Per non parlare di quell'altra forma di schiavitù che il signoraggio bancario. O il credito al consumo, portato in Italia da Giovanni Amendola.
In definitiva : se <span>la liberazione di molti dalla schiavitù del peccato fu anche, per molti altri, la liberazione dalla schiavitù fisica, perché è la prima che causa la seconda, oggi si vede come il ritorno della schivitù del peccato, si porta dietro dei fenomeni uguali e, persino, peggiori, rispetto all schiavitù fisica.</span>