Siamo lieti di offrirvi un commento canonistico del prof. Michael Gurtner Mag. Theol., su una questione giuridica dibattuta ed importante per la liturgia tradizionale.
Sin da quando è stato completamente liberalizzato l’uso dei libri liturgici che furono in uso nel 1962, si pone sempre più spesso la questione relativa al diritto in vigore per la risoluzione di alcuni problemi pratici che di tanto in tanto appaiono nella prassi quotidiana.
Da un lato è ben chiaro, che il diritto canonico occidentale vale principalmente per tutta la chiesa occidentale (cf. can. 1 CIC 1983), a cui appartiene ovviamente anche il Rito Romano, sia nella sua forma ordinaria, sia nella forma straordinaria. Dall’altra parte però ci troviamo davanti ad alcuni problemi che non sembrano risolvibili applicando le leggi attuali del diritto canonico, semplicemente perché sia il CIC del 1983 sia gli altri documenti di carattere liturgico pubblicati dalla Santa Sede dopo l’ultimo concilio, presuppongono la liturgia secondo i riti nuovi e non pensano nemmeno all’uso delle vecchie usanze, benché non fossero mai state abrogate, e che in più erano, in fondo, sempre in uso, anche col consenso della Sede Apostolica (cf. per esempio la lettera “Quattuor abhinc annos” del 3 ottobre 1984, oppure il motu proprio “Ecclesia Dei” del 2 luglio 1988). Insomma, in non pochi casi si crea una certa insicurezza legislativa, perché mancano leggi in vigore per l’uso vecchio.
Validità e intento del CIC 1983 per le vecchie usanze
Una delle regole fondamentali per l’interpretazione di ogni legge dice che bisogna sempre considerare anche l’intenzione del legislatore – ed essa, nel caso del CIC 1983 così come delle altre pubblicazioni apostoliche, è ovviamente la nuova usanza della liturgia. Perciò non possiamo semplicemente applicare le nuove leggi alle vecchie usanze liturgiche. Ciò fa pensare ad alcuni, che per le usanze che furono in costume nel 1962 valga anche la legge in vigore nel 1962, cioè il CIC 1917.
Questo, però, non è affatto così, anzi, le nuove leggi devono sempre essere il punto di partenza per ogni tentativo di una risoluzione di un problema canonistico, anche se esso riguarda le vecchie usanze della liturgia. In altre parole: dove il CIC non si riferisce ad una cosa inapplicabile al vecchio rito, in quanto incompatibile, vale senz’altro il nuovo diritto e va applicato. Ciò vale, per dare solo un esempio, per il libro IV del CIC, che tratta il diritto sacramentale.
Questo, però, significa che non si possono cambiare le vecchie usanze in sé riferendosi al nuovo diritto canonico, semplicemente perché esso si riferisce alla prassi dopo la riforma, e non considera nemmeno le vecchie forme del Rito Romano; il che impedisce un’applicazione ad esse.
Dove il CIC 1983 tratta di cose generali che non toccano i vecchi riti e usanze, vale naturalmente anche nel loro ambito (per esempio: valgono gli impedimenti matrimoniali del CIC 1983 anche per i matrimoni secondo i libri in uso nel 1962, ma dall’altro canto non si può applicare per gli istituti tradizionali il can. 266 §1 che dice: “Uno diviene chierico con l'ordinazione diaconale”, perché questo canone si riferisce ovviamente ad un’altra usanza di quella del 1962). In più è il CIC stesso che dice al can. 2 di non voler cambiare i riti in sé, anzi, che non si riferisce nemmeno ad essi: “Il Codice il più delle volte non definisce i riti, che sono da osservare nel celebrare le azioni liturgiche; di conseguenza le leggi liturgiche finora vigenti mantengono il loro vigore”.
Questo, formalmente, vale per ogni rito (latino/occidentale) che per sé è in vigore legittimamente, quindi non solo per i riti di Paolo VI, ma anche per le varie celebrazioni liturgiche nel Rito Ambrosiano, i riti particolari di diversi ordini religiosi, e anche per le varie funzioni nel Rito Romano che erano in uso nel 1962, ma in realtà il CIC non si riferisce a quell’ultimo per gli stessi motivi già spiegati: il legislatore ha in mente le nuove usanze, perciò intende e si riferisce ad esse.
Un certo problema però pone la frase seguente dello stesso can. 2 del CIC 1983: “… a meno che qualcuna di esse non sia contraria ai canoni del Codice”. Qui vale lo stesso: formalmente è valido per tutti i riti occidentali in vigore (“le leggi liturgiche finora vigenti” – ad esse appartiene, formalmente, anche il Rito Romano nel suo usus antiquior, perché non è mai stato abolito o abrogato), ma bisogna considerare sempre anche le intenzioni del legislatore, che ovviamente non considerava le vecchie usanze ma quelle post-riforma.
Inoltre bisogna anche sottolineare che non si deve pensare che questo canone 2 del CIC 1983, più precisamente la seconda parte di esso, sia un attacco contro i vecchi riti: il can 2 del CIC 1917 stabilì nella sua essenza lo stesso, quando dice: “Codex, plerumque, nihil decernit de ritibus et caeremoniis quas liturgici libri, ab Ecclesia Latina probati, servandas praecipiunt in celebratione sacrosancti Missae sacrificii, in administratione Sacramentorum et Sacramentalium aliisque sacris peragendis. Quare omnes liturgicae leges vim suam retinent nisi earum aliqua in Codice expresse corrigatur.”
Questo fatto però non toglie il problema in sé: perché in fondo il can. 2 non dice nient’altro che: la liturgia e le sue leggi non sono toccate, a meno che non siano incompatibili col CIC 1983.
Ciò dimostra che il CIC di 1983 richiede per se stesso una certa priorità in confronto alle leggi liturgiche che lo precedevano. Dove si tratta di regole disciplinari che non riguardano direttamente la celebrazione liturgica in sé (per esempio le leggi relativa alla privazione degli esequie) è, di solito, abbastanza chiaro che si deve procedere secondo il regolamento del CIC 1983, perché non si riferisce alla forma della liturgia, ma si tratta di leggi disciplinari generali.
In non pochi casi le vecchie leggi sono più severe in confronto alle nuove, nel senso che quelle nuove permettono delle cose che non furono concesse prima, ma non le obbligano. In tali casi ciascuno è libero di seguire, volontariamente, le norme vecchie, più severe di prima. In questi casi le nuove leggi liturgiche sono il minimo, che però può essere esteso senz’altro per una pietà privata. La materia diventa però più complessa, quando va oltre il livello della pietà personale.
Le fonti del diritto liturgico in generale
Al contrario di numerose altre materie riguardanti la legge ecclesiastica, il diritto liturgico non è stabilito dal CIC, almeno non in primo luogo, ma soltanto quando si tratta di questioni generali e di circostanza. I vari riti in sé non sono toccati dal CIC, ma seguono sempre le loro proprie leggi, che sono, in primo luogo, le rubriche della relativa cerimonia; anche il rituale sarebbe da nominare ed è da considerare come legge liturgica, e poi anche pubblicazioni apostoliche in merito che valgono sempre per ciò a cui si riferiscono. Tali pubblicazioni apostoliche di carattere legislativo possono essere costituzioni apostoliche, lettere apostoliche, e specialmente anche leggi in forma di un Motu Proprio. Sempre però va considerata anche l’intenzione del legislatore per quanto è evidente.
Sopratutto il Motu Proprio Summorum Pontificum del Santo Padre feliciter regnans ha portato tanta luce nelle buie tenebre delle incertezze canonistiche che esistevano fino alla sua pubblicazione il 07.07.07, ancora più di oggi. Grazie a quel Motu Proprio è diventato evidente, che tutte le usanze liturgiche del 1962 godono di piena validità. Il Motu Proprio, insieme alla sua lettera accompagnatoria, rende più che ovvio quale è l’intenzione della Sede Apostolica: che la liturgia del 1962, insieme alle regole e usanze che la accompagnavano, non sia toccata dalle nuove regole liturgiche, ma che siano e rimangano in pieno vigore. Questi due documenti papali hanno reso ben chiaro, che il rito tradizionale non si deve adattare alle nuovi leggi liturgiche, ma che possono e devono seguire alle loro proprie leggi e regole. Per mezzo di quel Motu Proprio sono state tolte anche tante incertezze che si erano create in riguardo can 2 del CIC 1983.
La dichiarazione, che il Missale Romano del 1962 è in pieno vigore (e che non fu mai diversamente) include anche tutte le rubriche e direttive presenti in esso. Quindi possiamo dire, almeno dopo la promulgazione del testo legislativo Summorum Pontificum, che i riti della vecchia usanza non sono toccati dal can. 2 del CIC 1983, ma sono validi come lo furono nel 1962.
Il valore del CIC 1917 per l’uso tradizionale
Come già detto, il Codice del Diritto Canonico ha solo un ruolo secondario per il diritto liturgico. Trattandosi di un fatto generico, questo vale non soltanto per il CIC 1983, ma valeva (e vale) anche per quello promulgato da Papa Benedetto XV nel 1917. Già questa circostanza limita molto un eventuale vigore del CIC 1917 per le usanze tradizionali, che eventualmente sarebbe da prendere in considerazione. In più leggiamo il can 6 § 1 No. 1 del CIC 1983: “Entrando in vigore questo Codice, sono abrogati: il Codice di Diritto Canonico promulgato nell'anno 1917”. Quindi il CIC dell’anno 1917 è stato definitivamente abrogato. Questo, però, non vuol dire che non abbia più nessun valore per la prassi di oggi: perché rimane sempre un’istanza importante per l’interpretazione autentica delle nuove leggi, soprattutto in caso di un eventuale dubbio legale. Questo stabilisce lo stesso canone del CIC 1983 in § 2: “I canoni di questo Codice, nella misura in cui riportano il diritto antico, sono da valutarsi tenuto conto della tradizione canonica.”
In conseguenza di certo non si può affermare che il CIC 1917 sia di nuovo in vigore per l’ambito tradizionale: anche per un ristabilimento soltanto parziale ci vorrebbe necessariamente un relativo atto legale del sommo legislatore, cioè del Sommo Pontefice stesso: visto che è chiaro che il CIC 1917 è stato abrogato dal CIC 1983 e quindi non più in vigore, ci vorrebbe, seguendo il can. 7 del CIC 1983, una ri-promulgazione, anche se si trattasse soltanto di certi parti del CIC 1917. Il CIC 1917, così possiamo dire, non ha più nessuna potenza legislativa, neanche per gruppi tradizionali o liturgie secondo i riti in uso nel 1962.
Nonostante ciò esistono sì dei casi, per cui il CIC 1917 ha un certo valore: ma non si tratta di un valore legislativo in quanto gli manca la validità e la potenza ad essa connessa, ma un valore piuttosto “disciplinare”: essendo in vigore anche oggi le rubriche, le regole e le leggi liturgiche per le celebrazioni dei sacri riti secondo le usanze del 1962, quando il CIC 1917 era in vigore, esse rimangono legate alle relative leggi di quel tempo, che anche per l’interpretazione autentica sono da considerare.
Perché se il Santo Padre desidera, come dimostrano i documenti papali del 07.07.07, che la liturgia tradizionale sia in vigore secondo le usanze di quel tempo, vuol dire che sono in vigore le usanze che corrispondono al CIC 1917. Solo così rimangono le usanze del 1962, senza alterazioni. In altre parole: anche se nessun canone del CIC 1917 è più in vigore, nemmeno per i riti tradizionali, rimane comunque la regola interpretativa per le usanze del 1962, che non possono essere interpretati bene senza avere le vecchie leggi del CIC 1917 in sottofondo, che ormai non sono più leggi vincolanti, ma che nonostante questo rimangono regole liturgiche.
Questo vale, per dare un’ esempio, per gli ordines minores: essi non sono più previsti dal CIC 1983, anche se sono ancora conferiti nelle comunità tradizionali; dall’altra parte il CIC 1917, che li regolava, non è più in vigore come legge. Allora, quali regole sono da applicare? Formalmente non esiste nessuna legge che regoli, per esempio, i tempi che sono da rispettare fra una e l’altra ordinazione minore. Ciò, però, non vuol dire che uno possa agire come gli pare, conferendo, per esempio, gli ordini tutti insieme, soltanto perché non esiste più nessuna legge che lo proibisce. In questo caso, nel senso della continuità legale, vanno rispettate le vecchie leggi, ma non come leggi, bensì come semplici regole liturgiche: perché nessun’altra usanza di quella dell’anno 1962 è stata concessa dalla Santa Sede, perciò a volte le usanze tradizionali implicano anche alcune vecchie leggi, da rispettare come semplici regole.
Toh guarda le cose cui uno non ci fa caso: il Summorum Pontificum è stato emanato il 07.07.07. Nella numerologia apocalittica tre volte 7 suona come una summa sapienziale!
RispondiEliminaE pensare ho portato il Summorum Pontificum come monografico all'esame di Liturgia (il docente si aspettava una critica da parte mia, io invece ho criticato la critica :-D), ma non avevo mai fatto caso alla data. Forse perché non l'avevo mai vista trasposta in numeri! :-P
<span>Interessantissima problematica, utile parlarne. C'è una sola cosa che non mi convince: come si può considerare una legge un po' in vigore e un po' abrogata? Mi spiego: o una legge è vigente e quindi cogente, o non è vigente e quindi irrilevante. Non esiste l'ipotesi (mi si perdoni la battuta) di una "legge fantasma" che non è vigente ma è cogente, se pure a mo' di prassi teorica. Credo che sia più facile sostenere che il Santo Padre nel dire che il V. O. non è stato mai abolito abbia inteso che nemmeno sono abolite le norme che lo riguardano. Sarebbe cioè implicito nella restaurazione di questa liturgia l'uso di quelle norme, se non altro perchè il singolo sacerdote non può permettersi di non applicarle quando espressamente previste dai libri sacri. Dire che vadano "rispettate come semplici regole" mi sembra (con estremo rispetto per l'em. professore che certamente ne sa più di me) fuor di luogo, perchè è impossibile parlare di una regola che non sia cogente: a questo punto se la disapplico che succede? Niente. Allora non è una regola (c'è un'eco kelseniana nel ragionamento, ma credo sia logicamente ineccepibile). Insomma: per celebrare secondo il V. O. ci vogliono quelle norme e non altre. Deduzione: se il Papa vuole che si celebri con quel rito il Papa necessariamente vuole quelle regole e non altre. Trattandosi di un legislatore assoluto che agisce "nonostante qualsiasi disposizione contraria, anche degna di particolare menzione" (ecc. ecc.), il CJC del 1917 è certamente in vigore nella misura in cui è funzionale al vecchio messale, a meno, chiaramente, di un'autentica che ci dica diversamente, che pure ancora non c'è. Scusate se mi sono permesso di intervenire. Grazie.</span>
RispondiEliminaBel casotto :).
RispondiEliminaSono perfettamente d'accordo, ma del resto a giurisprudenza ci divertiamo così!!! :D
RispondiEliminaforse si potrebbe ricorrere al CIC del 1917 intendendolo come tradizione, ossia come fonte del diritto utilizzabile per le fattispecie non ricomprendibili nel CIC 1983
RispondiEliminaRitengo si intenda che le regole del c.j.c del 1917, pur abrogate, sono criteri ermeneutici integrativi delle norme liturgiche.
RispondiEliminaAh per i tridentini quando si dice la messa si è nel 1917. Speriamo allora che la guerra la vinca il Kaiser Guglielmo!
RispondiEliminaCredo anch'io che il prof. Gurtner intenda questo, ma non mi sembra che l'uso di queste norme sia compatibile con la loro natura. Mi spiego: se voglio creare un lettore con il V. O. mi sto riferendo ad un qualcosa di incompatibile con il CJC attuale. Finché voglio usare il vecchio CJC a mo' di guida liturgica ancora è possibile ritrovarsi, ma quando pretendo (com'è tra l'altro giusto che sia per eseguire correttamente il rito) di applicare delle norme come l'ordinazione di un lettore io lo sto trattando come diritto vigente. Torniamo al punto di partenza: se non seguo quelle norme, che succede? Il vecchio rito eseguito secondo le nuove norme, ad esempio utilizzando un lettore non ordinato nel senso tradizionale del termine, è valido o sto compiendo un abuso liturgico? Probabilmente l'errore sta nel voler declassare regole nate come jus cogens al rango di norme dispositive. Di nuovo scusate se mi sono permesso di intervenire di fronte a questioni certamente più grandi di me.
RispondiEliminail CIC del 1917
RispondiEliminaSon più grandi di tutti (o quasi no). Ci vorrebbe un canonista vero per rispondere a certe obiezioni tutt'altro che peregrine, dinnanzi ad un testo problematico cpme questo che la Redazione ciki propone.
RispondiEliminaForse le "regole" di cui parla il post potrebbero intendersi soltanto come consuetudini tradizionali da rispettare: ad es. il tempo che deve trascorrere per passare da uno all'altro ordine minore e tra questi e il diaconato. Resta tuttavia la domanda: e se in un istituto non le rispettano?
Più o meno. Sono semplici "curiosità". Bisognerebbe domandarsi, onestamente, cosa cercano coloro che partecipano, dirigono, amministrano, coadiuvano le messe tridentine. Spesso niente altro che mero culto della vetustà. Per essi, non solo le norme del 1917 sono in vigore, ma probabilmente anche certe pergamene dell'anno mille. La questione, eccezion fatta per codesti cialtroni in cerca di orpelli e anticaglie, sarebbe in realtà della massima gravità. Se infatti si riconosce la legittimità e la bontà della attuale vigente legislazione (ermeneutica della continuità), non si potrebbe in alcun modo rivendicare, per nessun motivo, alcuna reviviscenza. Paradossalmente, non si dovrebbe nemmeno parlare di "antico rito mai abrogato", ma sostenere che il rito del 1970 ha effettivamente abrogato quello del 1570, come esplicitamente affermato in Missale Romanum. Io ritengo che la scelta "tradizionale", sia in primis una presa di coscienza di uno stato di crisi nella chiesa, anche a livello normativo, in cui una legge buona è stata formalmente abrogata da una legge cattiva, ma che proprio in ragione di un atto discrezionale sulla bontà della norma, non si deve ritenere come vincolante. Purtroppo, in linguaggio comune (quello che capiscono i più) questo atto discrezionale si chiama scisma, e sono in pochi quelli che hanno il coraggio di affrontare una scelta tradizionale totale. I più preferiscono una via breve e comoda (sebbene comunque caratterizzata dall'ostilità dei modernisti), che è quella dell'ossequio sragionato e impossibile al legislatore, qualunque esso sia e qualunque cosa dica. Il criterio di legalità però è nemico dei tradizionalisti: se si volesse essere puntigliosi e acribiosi (come quelli che criticano che una veglia pasquale si faccia con 12 letture anzichè 4, altrimenti casca il mondo e si viola "la legge"), in modo coerente, si dovrebbe anche dire solo la messa del 1970. Gli indulti e i summorum pontificum, altro non sono infatti che norme a posteriori che concedono deroghe a persone che per un perdurato stato di illegalità, non hanno voluto accettare la legge universale vigente. Che senso ha che proprio costoro poi si presentino come paladini della illegalità? Il tradizionalismo è un movimento rivoluionario, è un movimento che è "illegale", nel senso che è una contestazione di una subentrata legalità difforme dall'originale di sempre. I tradizionalisti "legali" hanno poco senso: o non sono legali (e quindi fingono a parole di essere osservanti le norme, ma poi le trasgrediscono fregandosene: si chiama ipocrisia) o non sono tradizionalisti (ossia ritengono che vada tutto bene, che la messa nuova e l'antica abbiano la stessa dottrina alla base, che vi sia "continuità" tra pre e post concilio, che la messa è solo una questione di estetica spirituale ma che deve coesistere accanto alla cena neocatecumenale, al rito di bose, ecc.).
RispondiEliminaIl motu proprio è servito a imbrigliare il movimento per fargli cessare di essere dannoso alla causa modernista. Un po' come eliminare il secessionismo leghista facendone diventare ministri e onorevoli i sostenitori.
Esatto, lei ha colto perfettamente nel segno. Come diceva Kelsen (che io personalmente non amo, ma certamente di Diritto ne capiva) una norma imperativa è tale se c'è un effetto all'inadempienza. Una norma che non obbliga nessuno non è una norma (o almeno non è una norma imperativa, ma solo dispositiva - per inciso le norme dispositive esistono praticamente solo riguardo la disciplina dei contratti, il che è tutto dire). L'unica soluzione possibile, riflettendoci bene e se il Diritto Canonico come quello Civile è propenso ad accettare questa ipotesi, e credo di si, è che il Messale del 1962 esista attualmente in un c. d. "regime di specialità". Sarebbe a dire che esso si trova, giuridicamente parlando, in una sorta bolla fatta di leggi che valgono solo per lui, e che non sono toccate da altre leggi successive. In questo modo il CJC del '17 e quello dell'83 potrebbero convivere perfettamente, perché quello del '17 sarebbe applicabile solo al V. O. e quello dell'83 solo al N. O., impedendo così tra l'altro di causare problemi all'una o all'altra regolamentazione ibridandole senza alcun bisogno.
RispondiEliminaLa soluzionwe sarebbe ragionevole. Ma oggi, anche nella Chiesa, non c'è niente di più irragionevole del ragionevole.
RispondiEliminail punto è, che formalmente il CIC 1917 è stato abrogato, così non è più in vigore come legge vincolante.
RispondiEliminavale, però, anche, che le norme liturgiche del 1962, che sono perfettamente in vigore, "includono" certe cose stabilite nel CIC 1917 - che però è abrogato.
Quindi, materialmente sono da rispettare, pur non essendo più leggi ecclesiastici nel senso stretto.
In quel senso sono regole, perchè sono intese dalle norme del 1962.
Questo dimostra, che su certe cose attualmente esistono ancora dubbi, ovvero non sono stabiliti in modo sufficiente dal diritto liturgico/canonico.
Ovviamente tutto si deve interpretare alla luce della legge vigente, e non "come si faceva una volta". Una volta si era membri del clero con la tonsura e con il suddiaconato si faceva pubblica promessa di celibato. Il suddiaconato era un ordine maggiore e clericale. Oggi la legge dice che si diventa membri del clero con il diaconato, e ciò che esisteva prima è stato tutto abolito. Lettore ed Accolito non possono nemmeno considerarsi "mantenuti", perchè in realtà sono ministeri istituiti e non ordini sacri. Si chiamano alla stessa maniera, sono considerati propedeutici, ma non scommetterei sul fatto che siano la stessa cosa. Pertanto, è solo una immensa oscenità il coesistere di un rito precedente il codice che presuppone un altro rito. Il suddiaconato come funzione liturgica esiste, ma non esiste più il suddiacono. Gli isitituti ecclesia dei, celebrano delle "ordinazioni suddiaconali", e anche delle "tonsure" che non rendono i soggetti interessati che laici con addosso i paramenti. Da qualche parte si legge qualche ragazzino che dopo aver servito due o tre messe in qualche cappelletta, pontifica sulla tradizione, e dire che per i tridentini si entra nel clero con la tonsura, per i modernisti con il diaconato. Questa è follia pura, o patetico nostalgismo. La legge è chiarissima, il clero c'è con il diaconato. I suddiaconi tridentini cosa sono? Per la legge non sono niente, però sarebbe impossibile non considerare questi laici-ordinati come dei suddiaconi a tutti gli effetti: e infatti giustamente fanno i suddiaconi alle messe. Ma di fatto, sono laici come uno che l'ordinazione non l'ha ricevuta. Pertanto, allo stato attuale, qualsiasi laico può fare il suddiacono, usando anche il manipolo. Forse sarebbe meglio che alle messe solenni fossero tutti sacerdoti a ministrare. Ma il codice ha creato una nuova realtà dei fatti, e non si può fare finta che non esista e non sia obbligatoria. Inutile ogni riferimento con il passato: nel passato le leggi sono diverse.
RispondiEliminaDi fronte a questo sfacelo, alcuni hanno addirittura teorizzato di abolire il suddiaconato alla messa tridentina, per tentare una improbabilissima ennesima commistione tra leggi e riti inconciliabili.
E' evidente che si deve auspicare che in un futuro prossimo, qualche papa si renda conto che la chiesa ha attraversato un momento di ebrezza folle, e ripristini la realtà per come deve essere, senza cercare di farlo a colpi di riforme delle riforme. Fino ad allora, si dovrà vivere la tradizione prendendo coscienza di questa dimensione tragica, in cui si può invocare lo stato di necessità, evitando il legalismo inutile e contraddittorio.
<span>Condivido sostanzialmente quanto esposto nell'articolo, tuttavia, se come esplicitamente ivi si afferma " ... come dimostrano i documenti papali del 07.07.07, che la liturgia tradizionale sia in vigore secondo le usanze di quel tempo, vuol dire che sono in vigore le usanze che corrispondono al CIC 1917 ...", ciò, a mio modesto avviso, può dare luogo, sotto il profilo della consueta tecnica giuridica, a due differenti ricostruzioni dogmatiche:
RispondiElimina1) il Sommo Pontefice, attraverso il Motu Proprio, ha dato luogo ad un'esplicita norma ripristinatoria di quella parte del CJC del 1917 (già abrogato) che disciplinava le usanze legalmente vigenti nella costanza della liturgia comunemente praticata sotto il vigore del Messale del 1962. La legittimità di una tale operazione non potrebbe essere in alcun modo contestata, giacché il Papa, in quanto supremo legislatore, si trova ad essere legibus solutus, né si potrebbe eccepire il minor tenore precettivo di un Motu Proprio, rispetto a quello del provvedimento che ha conferito validità al nuovo CJC, attesa l'assoluta inesistenza di un principio di gerarchia delle fonti nell'ambito del Diritto Canonico, le cui eventuali antinomie vengono, quindi, ad essere risolte - facendo salve le ragioni dell'equità interpretativa - a seconda di quel principio di successione delle leggi nel tempo, in ragione del quale: lex posterior derogat anteriori .
2) Seguendo una differente riscostruzione dogmatica del significato del brano di documento riportato - attesa l'ininterrotta pratica del Vetus Ordo, e non di un suo ripristino dopo un periodo d'abrogazione - si potrebbe altresì concludere come, attraverso il suo esplicito tenore, sia stata offerta l'esplicitazione di una disposizione di diritto transitorio (precedentemente implicita, atteso il fatto che espressamente non si era dichiarata l'obbligatoria sottoposizione dei Riti del Vetus Ordo alla sopravvenuta disciplina del nuovo CJC) che altro non farebbe, se non ribadire il noto principio legale secondo cui: tempus regit actum ; a quest'ultimo proposito, sarebbe bene rammentare anche quella classica teoria, secondata dalla giurisprudenza costituzionale e dalla dottrina, secondo la quale l'abrogazione della norma giuridica (nel nostro caso: la disciplina dei Riti Vetus Ordo) - operata per il tramite d'un eguale e successivo provvedimento (nel nostro caso: il nuovo CJC) - non vale a senz'altro a produrne l'immediata estinzione, ma - in virtù del principio dell'irretroattività (sostanziato, appunto, dalla massima: tempus regit actum) - semplicemente a farle perdere il carattere dell' astrattezza (ovvero dell'applicabilità all'intiera generalità dei casi presenti e futuri), circoscrivendone il vigore a rapporti individuati (quelli già esistenti nella costanza della precedente normazione e da questa disciplinati) . In favore di questa dottrina si vedano, ad esempio : Corte Cost. 28 aprile 1970, n. 63 e 24 aprile 1970, n. 49, nonché MODUGNO, voce Abrogazione, in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, p. 4 ; MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, Padova, 1975, p. 368 ; PATRONO, voce Legge (vicende della ), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 911 ; RESCIGNO, voce Disposizioni transitorie, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 228 ss. .
Pertanto, le disposizioni del CJC del 1917, nei limiti richiamati dal Summorum Pontificum, sono da considerarsi come diritto pienamente vigente della Chiesa .</span>
Quindi, stando a Kelsen, il Motu Proprio non è una norma imperativa. In effetti...
RispondiEliminaCaro Ospite, questo però non ha molto senso giuridicamente parlando. Che significa che "non è in vigore come legge vincolante"? O è legge, e si applica, o non è legge, e non si applica. Non esiste l'ipotesi (mi si perdoni l'ironia, tratta da una lezione universitaria cui ho assistito) di una "legge-zombie" che è abrogata ma è vigente (esiste invece il caso contrario, ossia una legge non abrogata ma non vigente, vedi il codice civile riguardo la mezzadria, che è regolamentata ma se provi ad applicarla il contratto è convertito automaticamente in affitto). Una legge abrogata, per citare Seneca, va "dove stanno le cose che non sono mai state" per quel che riguarda il futuro, come giustamente nota il post successivo (non so se siete la stessa persona). L'unica ipotesi è che i due CJC siano contemportaneamente vigenti, e questo è possibile solo se la normativa del Summorum Pontificum è intesa come "speciale", inibendo così la possibilità che la nuova normativa abbia eliminato la vecchia. Ribadisco però che servirebbe il parere di un canonista per vedere se il Diritto Canonico supporta questa ipotesi.
RispondiEliminaConcordo pienamente, siamo giunti in modo diverso alle medesime conclusioni. Complimenti per l'abbondante bibliografia.
RispondiEliminala legge che regola la prassi liturgica deve essere quella in vigore fino al 1962 : riforma dei riti della settimana santa, senza fare quelli precedenti alla rif. di Pio XII, impossibilità per un laico di fare il suddiacono, impossibiltà per una fanciulla di servire la messa, impossibilità di fare la comunione sulla mano o di ricevere la Particola dalle mani di un laico, uomo o donna, ministro straordinario dell'Eucarestia. Alcune leggi che non si possono più considerare norme viventi hanno valore di consuetudine da rispettare. Abrogati gli ordini minori, è giusto che un diaono permanente, anche sposato, possa fungere da ministro parato nella forma straordinaria; un laico invece non può, in nessun caso,vestirsi da suddiacono . Oggi una bambina può fare la chierichetta, nella messa antica questo non era consueto quindi non si può fare. Il messale non è stato abrogato e con esso tutte le norme liturgiche cristallizzate all'epoca, quello che il nuovo ha prodotto man mano deve essere chiarito dalla S. Sede. Oggi tutti, possono proclamare le letture e pregare con le intenzioni durante la preghiera dei fedeli, nella messa tradizionale sarebbe impensabile per quei libri liturgici, mai abrogati, contemplare queste cose nuove, figlie di una Chiesa che ha voluto coinvolgere così il Popolo di DIO nella liturgia.
RispondiEliminaIn un commento precedente invocavo l'intervento di un vero giurista data la delicatezza e la complessità della materia. Lux facta est.
RispondiEliminaPer noi, Ma a Roma cosa si penserà?
<p><span><span>@Dante Pastorelli : " ... </span>Ma a Roma cosa si penserà?</span><span><span> ... " </span>
RispondiElimina<span>________________________________________________ </span>
<span> </span>
<span>Ma è evidente, caro Dante, assai probabilmente, a Roma si fingerà di non comprendere questi semplicissimi criteri giuridici, per poter seguitare con gli abusi limitativi del diritto del fedele a poter effettivamente fruire della Santa Messa Vetus Ordo nella sua pienezza . </span>
<span> </span>
<span>Per segnalare una situazione analoga (che mi parrebbe emblematica dell'atteggiamento dei neoterici, a fronte dei rilievi di carattere tecnico), rammento come, in un post di Rinascimento Sacro, si riportassero le elucubrazioni di un tale che, grosso modo, sosteneva il grave </span><span>vulnus</span><span> giuridico perpetrato da Bernedetto XVI alla logica organica della struttura canonistica, in ragione di quanto promulgato attraverso il Motu Proprio Summorum Pontificum . Mi permisi di obiettare che, attesa la posizione di supremo legislatore del Pontefice, il problema non era certo quello di indagare circa le eventuali antinomie dogmatiche tradite da quest'ultimo documento rispetto alle figure desumibili dalle pregresse discipline, ma, semmai, attesa la sua piena validità precettiva (in ragione delle prerogative istituzionali proprie al suo soggetto emanante), di adeguare i concetti della normazione precedente alla luce di quanto espresso da quest'ultimo Motu Proprio; in altri termini, salvo contestare la legittima autorità del Pontefice in materia legislativa, si sarebbe dovuto dare luogo ad un adeguamento della precedente normazione a quella sopravvenuta con il Motu Proprio, a seconda della ben nota figura dell' </span><span>interpretazione evolutiva</span><span>, giacché, come avvertito dalla più autorevole dottrina classica (BETTI, </span><span>Interpretazione della legge e degli atti giuridici</span><span>, Milano, 1972 (ried.), p. 32 ) « ... il sopravvenire di nuove leggi, che completano e modificano la precedente disciplina, pone al giurista un compito di adeguamento e di messa in accordo, che non deve arrestarsi agli effetti più prossimi e più appariscenti nella materia disciplinata, ma abbracciare anche altri effetti, remoti o riflessi ... », ciò, fra l'altro, in concordanza persino con quanto già indicato da secoli dallo stesso </span><span>diritto romano </span><span>( ad es. </span></span><span><span>D.,1, 3, 26 « </span></span><span>Non est novum, ut priores leges ad posteriores trahantur</span><span><span>» ) . </span>
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</span><span><span>segue ...</span></span></p>
<p><span><span>@Dante Pastorelli : " ... </span>Ma a Roma cosa si penserà?</span><span><span> ... " </span>
RispondiElimina<span>________________________________________________ </span>
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<span>Ma è evidente, caro Dante, assai probabilmente, a Roma si fingerà di non comprendere questi semplicissimi criteri giuridici, per poter seguitare con gli abusi limitativi del diritto del fedele a poter effettivamente fruire della Santa Messa Vetus Ordo nella sua pienezza . </span>
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<span>Per segnalare una situazione analoga (che mi parrebbe emblematica dell'atteggiamento dei neoterici, a fronte dei rilievi di carattere tecnico), rammento come, in un post di Rinascimento Sacro, si riportassero le elucubrazioni di un tale che, grosso modo, sosteneva il grave </span><span>vulnus</span><span> giuridico perpetrato da Bernedetto XVI alla logica organica della struttura canonistica, in ragione di quanto promulgato attraverso il Motu Proprio Summorum Pontificum . Mi permisi di obiettare che, attesa la posizione di supremo legislatore del Pontefice, il problema non era certo quello di indagare circa le eventuali antinomie dogmatiche tradite da quest'ultimo documento rispetto alle figure desumibili dalle pregresse discipline, ma, semmai, attesa la sua piena validità precettiva (in ragione delle prerogative istituzionali proprie al suo soggetto emanante), di adeguare i concetti della normazione precedente alla luce di quanto espresso da quest'ultimo Motu Proprio; in altri termini, salvo contestare la legittima autorità del Pontefice in materia legislativa, si sarebbe dovuto dare luogo ad un adeguamento della precedente normazione a quella sopravvenuta con il Motu Proprio, a seconda della ben nota figura dell' </span><span>interpretazione evolutiva</span><span>, giacché, come avvertito dalla più autorevole dottrina classica (BETTI, </span><span>Interpretazione della legge e degli atti giuridici</span><span>, Milano, 1972 (ried.), p. 32 ) « ... il sopravvenire di nuove leggi, che completano e modificano la precedente disciplina, pone al giurista un compito di adeguamento e di messa in accordo, che non deve arrestarsi agli effetti più prossimi e più appariscenti nella materia disciplinata, ma abbracciare anche altri effetti, remoti o riflessi ... », ciò, fra l'altro, in concordanza persino con quanto già indicato da secoli dallo stesso </span><span>diritto romano </span><span>( ad es. </span></span><span><span>D.,1, 3, 26 « </span></span><span>Non est novum, ut priores leges ad posteriores trahantur</span><span><span>» ) . </span>
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</span><span><span>segue ...</span></span></p>
<span><span>seguito </span>
RispondiElimina<span> </span>
</span><span><span>L'unico riscontro a queste mie considerazioni fu una replica - un po' piccata - di Padre Augè il quale, anziché difendere le proposizioni di quel tale alla luce dei miei rilievi, fingendo di non comprendere come le mie indicazioni avessero direttamente a che vedere con la sostanza del tema in discussione - anzi, valessero a pregiudizialmente contestarne la tecnica fondatezza - si limitò a segnalarmi che l'autore di quelle tesi giuridicamente erronee era laureato in legge ... </span></span><span></span>
<span>Così si esprimeva il metropolita Kiril poco prima della sua elezione a Patriarca di Mosca e di tutte le Russie: "Io mi oppongo fortemente a qualsiasi riforma nella Chiesa. (…). La Russia ha imparato due volte la necessità di rispettosa attenzione alle tradizioni, specie alle tradizioni ecclesiastiche. La prima, quando la Chiesa fu spaccata dai Vecchi credenti (i quali rifiutavano alcune riforme liturgiche, tra l’altro piuttosto marginali: lo scisma, originatosi nel XVII secolo, perdura tuttora nonostante le passate persecuzioni). La nostra seconda lezione è consistita nelle note innovazioni degli anni Venti (dopo la Rivoluzione d’Ottobre). Entrambi gli eventi causarono agitazione e divisero il popolo, ma nessuna di loro raggiunse gli scopi voluti dai riformatori. Le riforme della Chiesa non possono raggiungere i loro scopi se non sono radicate nella vita delle persone. La nostra Chiesa è solida nella sua abilità di preservare il credo e l’inflessibile paradigma morale, nonché di trasmetterli da una generazione all’altra. La Chiesa è conservatrice per natura, poiché mantiene la fede apostolica. Se vogliamo trasmettere la fede da una generazione all’altra per secoli, la fede deve restare intatta. Ogni riforma che danneggi la fede, le tradizioni e i valori è chiamata eresia" </span>
RispondiEliminaTu invece, si sa, sei un ciabattino...
RispondiEliminaBen detto: <<...sono consuetudini...>>. Dunque non sono più leggi e le consuetudini si prestano alla valutazione di chi deve scegliere se è meglio applicarle o tralasciarle. Fino a quando la Santa Sede non deciderà sulla questione (se mai intenderà farlo, ma sarebbe auspicabile che lo facesse), non vi sono obblighi con riguardo alle consuetudini. Il resto sono solo elucubrazioni giuridiche (utilissime, per carità, ma meramente strumentali a chi deve assumere una decisione operando una scelta).
RispondiEliminaScusi se mi permetto l'appunto, ma, come potrà agilmente desumere da qualsiasi manuale istituzionale di materia giuridica, le consuetudini rientrano, a pieno titolo, nelle fonti fatto dirette dell'ordinamento giuridico (più specificamente, sostanziano il cosiddetto jus involontarium) e, pertanto, danno luogo alla formazione di norme giuridiche, né più né meno di quanto facciano le disposizioni che si trovino a parte delle Leggi scritte. Fra l'altro, se si costruisse il fenomeno in oggetto (l'ossequio alle disposizioni del CJC del 1917) come un comportamento tenuto in conformità di disposizioni oramai abrogate (e, quindi, in senso contrario, rispetto alla sopravvenuta normazione abrogativa), si darebbe vita ad una consuetudo contra legem operata per opposizione, il che verrebbe a costituire una figura assolutamente non ammissibile fra le fonti del diritto, in quanto apertamente illegale, poiché corrispondente ad un comportamento ormai vietato dalla nuova normazione.
RispondiEliminaNo: a differenza dell'ordinamento statuale, quello canonico espressamente ammette, sia pure a certe condizioni, la consuetudine contra legem, e non solo quelle secundum o praeter legem
RispondiEliminaCfr. can. 5 c.j.c.
RispondiEliminaCirca il diritto canonico, sono ben consapevole di come, a partire dalla decretale Quum Tantum di Gregorio IX, si riconosca alla consuetudo dotata dei requisiti della rationabilitas e della legitima praescriptio un potere derogatorio alla Legge ; così come conosco che una parte della dottrina corrente nella costanza dello Statuto Albertino ammetteva eccezionalmente nel novero delle fonti la consuetudo contra legem nella sua forma per desuetudine (ma non in quella per opposizione): nel proposito si soleva comunemente addurre l'esempio dell'art. 28 St. circa la previsione del preventivo permesso del Vescovo per la pubblicazione delle bibbie, dei catechismi e dei libri di preghiera che, non avendo mai trovato alcuna applicazione, veniva, appunto, considerata da talun autore come implicitamente derogata da una consuetudine abrogativa nella forma per desuetudine .
RispondiEliminaIn ogni caso, così come m'insegnate, il can. 5 del vigente CJC (per altro, sostanzialmente riproduttivo dell'analogo canone di quello del 1917), contrariamente alla considerazione estensiva della precettività della figura in questione che era stata propugnata dalla neoscolastica della scuola del Suarez, opera una sostanziale riduzione del valore normativo della consuetudo contra legem, limitandone il vigore, con il contemplarla nelle forme di un mero atto di tolleranza, riferibile a casi assai circoscritti, ed ulteriormente sottoponendone le possibilità di concreta vigenza alla previa condizione di un giudizio della gerarchia ecclesiastica circa l'impossibilità di una sua rimozione.
Ciò atteso, così come più sopra ho avuto a scrivere, desidererei ribadire che mi parrebbe operazione assai ardua, il non configurare come fattispecie di carattere - anche canonisticamente - del tutto illegale il costrutto della consuetudo contra legem riferito, così come è stato fatto, ad una possibile qualificazione giuridica di un utilizzo delle disposizioni del CJC del 1917, nei limiti richiamati dal Motu Proprio . Le mie ipotesi circa la possibile deduzione di una disposizione ripristinatoria o del riverbero di un effetto direttamente ascrivibile al principio di irretroattività della Legge vi sono parse davvero così peregrine?
Chapeau bas!!!
RispondiEliminaRagionamento inoppugnabile.
Ancona una volta: giù il cappello!!!
RispondiEliminaTremo all'idea di un ritorno all'unica forma del Rito Romano, "purgando" la forma ordinaria nel segno dell'ermeneutica della continuità. Putroppo, però, qualcuno ne parla...speriamo a vanvera!