Perché il governo della curia romana funzioni a dovere è necessario che tutti i canali del potere siano ben oliati, comunichino tra di loro senza intoppi e, soprattutto, senza che nessuno remi dalla parte sbagliata. Nei recenti casi di mal governo vaticano, invece - dal caso Ratisbona al caso Williamson, tanto per citare due situazioni note a tutti -, si è avuta l’impressione che a giocare fossero tante monadi separate e, insieme, incapaci di fare squadra e spiegare al mondo, e soprattutto alla Chiesa, la ragionevolezza delle decisioni prese.
Coloro che nella curia romana sono chiamati a supportare il Papa nella difficile gestione del potere sono innanzitutto i prefetti delle nove congregazioni vaticane. Un tempo, fino alla riforma messa in campo da Paolo VI, la congregazione della curia con più peso era senz’altro quella che sull’annuario pontificio veniva chiamata “La Suprema”. Ovvero, la congregazione per la Dottrina della Fede. Il prefetto era direttamente il Pontefice, e cioè colui che quando afferma una dottrina o un dogma gode del principio dell’infallibilità. Oggi il Papa ha conservato sulla congregazione un’attività di super visione, seppure la responsabilità della congregazione sia affidata a un prefetto il quale, ogni settimana, incontra il Pontefice per dipanare le questioni più importanti. È probabilmente per il fatto che con questa congregazione Benedetto XVI può dialogare con più frequenza che con altre, che Ratzinger ha deciso di nominare prefetto lo statunitense William Joseph Levada: non un “fulmine di guerra”, ma comunque un porporato fedele.
Oggi la congregazione strategicamente più importante e che necessariamente deve procedere in perfetta sintonia col Pontefice e con il segretario di Stato è quella dei Vescovi. Il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione, ha il potere non da poco di nominare i vescovi. È lui, infatti, che propone al Papa una terna di nomi per gli incarichi vacanti decidendo chi e in quale ordine sia degno di farvi parte. Decide i trasferimenti e le promozioni dei vescovi. Le dimissioni per limiti di età. E, ancora, decide i cardinali: nel senso che quando promuove un presule in una diocesi che prevede la berretta cardinalizia, lo promuove di fatto al cardinalato.Chi è il cardinale Re? Bresciano, visse l’escalation più importante della sua carriera quando nel 1989 Giovanni Paolo II lo nominò sostituto per gli affari generali della segreteria di Stato. In sostanza, il posto perfetto per succedere ad Angelo Sodano quando questi avesse lasciato la conduzione della stessa segreteria. Quando però il cardinale Lucas Moreira Neves lasciò la guida dei Vescovi, Re non ci pensò su più di tanto ad accettare la proposta di Wojtyla di esserne lui il successore.Alla congregazione dei Vescovi, Re adottò inizialmente una politica filo wojtyliana. In sostanza, al contropotere rispetto al Papa rappresentato da Sodano egli mise in campo una politica di nomine filo papale, in sintonia perfetta (almeno inizialmente) con Stanislaw Dziwisz e col presidente della conferenza episcopale italiana Camillo Ruini. Poi qualcosa è cambiato. Re, che di per sé ha sempre conservato i numeri necessari per sostituire Sodano al momento opportuno, una volta arrivato al soglio di Pietro Joseph Ratzinger ha compreso che la segreteria di Stato non gli sarebbe mai stata affidata. E qui, usciti di scena Dziwisz e, poco dopo, Ruini, ha virato verso una politica più disponibile nei confronti delle istanze provenienti dalle varie conferenze episcopali. Spieghiamo meglio: nel mondo, più che in Italia, le conferenze episcopali cercano di avere un potere reale.
Le cupole [il riferimento 'mafioso' è assai forte; se sia anche improprio o eccessivo, lo giudichi ognuno] delle conferenze e i nunzi vaticani che alle conferenze necessariamente si riferiscono, infatti, svolgono una costante politica di pressione sulla curia romana affinché i vescovi delle rispettive diocesi siano nominati tenendo conto del proprio indice di gradimento. E se le conferenze episcopali trovano un prefetto dei Vescovi disposto ad ascoltarle, il gioco è fatto.
Se c’è una pecca nella lunga, e a suo modo efficiente, gestione della congregazione dei Vescovi da parte di Re, risiede proprio qui: nella troppa accondiscendenza accordata alle istanze delle varie conferenze episcopali. Un’accondiscendenza che oggi Benedetto XVI paga a caro prezzo. Non è forse per le pressioni della conferenza episcopale austriaca guidata dal cardinale Christoph Schönborn che il Papa è stato costretto ad accettare le dimissioni del vescovo ausiliare di Linz, Gerhard Wagner? La stessa cosa non è forse successa con Stanislaw Wielgus nel 2006, costretto a dimettersi 36 ore dopo che il Papa lo aveva nominato arcivescovo di Varsavia? E, al contrario, non è forse per le pressioni dei vescovi di vari paesi del mondo che nei posti di comando della Chiesa spesso non vengono messi i migliori quanto coloro che sono più graditi ai leader dei rispettivi episcopati?
Il cardinale Re ha la sua parte di responsabilità anche nel caso Williamson. Se è vero che il decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani porta la sua firma, occorre che se ne assuma la responsabilità fino in fondo, magari ammettendo che una corretta valutazione delle criticità in gioco non è stata fatta. E magari sostenendo con più forza i motivi del decreto da lui firmato: non tanto la volontà di reintrodurre nella Chiesa una fazione anti-ebraica quanto il desiderio di abbattere una prima barriera sulla strada ancora parecchio lunga che porta i lefebvriani alla piena comunione con Roma.Re ha compito 75 anni lo scorso 30 gennaio. In curia c’è chi si aspettava che avrebbe adottato la medesima politica fatta propria dal suo predecessore: si ritirò nel 2000, il giorno in cui compì 75 anni. Se avesse agito così, già in queste settimane sarebbe stato più facile far dimettere quei capi dicastero e quei presuli entrati in età pensionabile: con un prefetto dei Vescovi ancora in sella a 75 anni, tutto è più difficile. E lo è ancora di più con un segretario dei Vescovi, come l’arcivescovo Francesco Monterisi, anch’egli 75enne [e notorio appoggio dell'ala antitradizionale nell'episcopato].
La crisi che sta attraversando la curia romana è principalmente qui, a livello di una gestione del potere poco adeguata ai tempi e allo spirito dell’attuale pontificato. Poi, certo, c’è anche un problema di comunicazione. C’è la difficoltà di padre Federico Lombardi a gestire congiuntamente sala stampa (Joaquin Navarro-Valls aveva solo questa responsabilità), Radio Vaticana, centro televisivo vaticano e il compito di assistente del preposito generale dei Gesuiti: troppi incarichi per una sola persona. Ma è un problema che, seppure non trascurabile - a breve il Papa correrà ai ripari - viene dopo il mal governo.
Partendo [e speriamo presto!] dalla congregazione dei vescovi, Benedetto XVI ha la possibilità in questo 2009 di sostituire parecchia gente nella curia romana e di creare così un sistema che sappia seguirlo con maggiore lucidità nelle sue scelte. Il 23 settembre compie 75 anni il prefetto della congregazione dei Religiosi, il cardinale Franc Rodé [cui si devono discorsi forti, chiari e apprezzabili] e, l’8 agosto, li compie il prefetto del Clero, il cardinale Claudio Hummes. Se è vero che, come scrisse il benedettino Columbia Marmion, una vera riforma del clero e degli ordini religiosi non può che venire da un sacerdote secolare, è evidente che in queste due decisive congregazioni l’uomo giusto è tra il clero che deve essere pescato. Ma 75 anni li hanno già compiuti anche altri importanti esponenti della curia. Innanzitutto lo statunitense James Francis Stafford, penitenziere maggiore della Penitenzieria Apostolica. Quindi il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del pontificio consiglio per la Pastorale della Salute. E ancora, il cardinal Renato Raffaele Martino, presidente di Iustitia et Pax. E, infine, il cardinale Walter Kasper, presidente della promozione dell’Unità dei Cristiani: oggi compie 76 anni.
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