Post in evidenza

Elenchi dei Vescovi (e non solo) pro e contro Fiducia Supplicans #fiduciasupplicans #fernández

Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

lunedì 18 luglio 2022

L’uomo in questione: l’analisi di Clive Staples Lewis

Riceviamo e pubblichiamo il testo della Relazione tenuta da Fabio Trevisan a Meta di Sorrento, durante lo svolgimento della Università estiva dell’Osservatorio tenutasi dal 30 giugno al 3 luglio 2022.
QUI alcuni post di MiL su C.S. Lewis.
Luigi

Di Fabio Trevisan LUG 11, 2022

L’uomo in questione: l’analisi di Clive Staples Lewis

Nel 1943 Clive Staples Lewis (1898-1963) pubblicava un saggio fondamentale: “L’abolizione dell’uomo”, indispensabile per poterne comprendere la sua antropologia, attraverso tre tracce basilari: 1) il ruolo dei sentimenti e degli affetti; 2) la legge naturale; 3) il rapporto Uomo e Natura. Questo saggio, contenente tre brevi saggi, sta a Lewis come il saggio “Sulle fiabe” sta a Tolkien: entrambi costituiscono, come vedremo in seguito, caratteri imprescindibili per introdurci all’intera opera di questi grandi scrittori. Prima di analizzare più approfonditamente, senza tuttavia alcuna pretesa esaustiva, i contenuti dell’indispensabile saggio di Lewis, alcune brevi note biografiche.

“Sorpreso dalla gioia”

Lewis nacque a Belfast, nell’Ulster, il 29 novembre 1898 da Albert, avvocato bibliofilo e da Flora Hamilton, figlia di un pastore protestante, laureata in lettere al Queen’s College di Belfast. Ho accennato alla bibliofilia del padre, che Clive (Jack per gli amici) perpetuò, come si può evincere dalle stesse parole dello scrittore: “Importante è acquisire presto nella vita la capacità di leggere dovunque ci si trovi…il Paracelso di Browning lo lessi una notte di guerra, alla luce di una candela spenta in continuazione”. La madre lo introdusse allo studio appassionato del latino e del francese, come rivelerà nell’autobiografia-conversione “Sorpreso dalla gioia”. La morte della madre, avvenuta precocemente nel 1908, quando Clive aveva appena 10 anni, fu per lo scrittore dell’Irlanda del Nord un trauma con profonde ripercussioni: “Con la morte di mia madre ogni certezza di felicità, tranquillità e sicurezza scomparvero dalla mia vita. Avrei conosciuto molti divertimenti, molti piaceri, molte trafitture di Gioia; ma l’antica sicurezza era svanita per sempre. Ora mi sentivo come un’isola sperduta nell’oceano; il grande continente era sprofondato come Atlantide”. Quelle “trafitture di Gioia”, con la G maiuscola, saranno una ricerca costante nell’intera opera di Lewis, non riconducibili alla ricerca del piacere, anche estetico, né alla felicità, quanto piuttosto a un sentire e gustare internamente, o interiormente, le cose stesse. Alla morte della madre iniziò pure un distacco temperamentale dal padre, in cui ravvisava un’emotività incontrollata che contrastava il carattere sereno e ilare della madre. Con il fratello maggiore Warren (detto Warnie) iniziò la riscoperta fantastica di quel mondo infantile che trasmetterà ad esempio nelle Cronache di Narnia, scritte tra il 1950 e il 1956, conosciute ai nostri giorni per la trasposizione cinematografica di grande successo. Nelle righe in cui racconta la trasformazione di una scatola e un coperchio di latta si può riscontrare quanto, al pari di Tolkien, la fantasia o sana immaginazione non solo non contrastasse la ragione, ma la irrobustisse: “Un giorno, mio fratello portò nella nostra stanza il coperchio di una scatola di biscotti che aveva ricoperto di muschio e ornato di fiori e ramoscelli per dare l’idea di un giardino o di una foresta giocattolo. Fu la prima cosa bella che abbia mai visto. Il giardino giocattolo fece quello che il giardino vero non era riuscito a fare”. Erano gli anni in cui, al Wyvern College, Lewis si imbattè nella figura della Direttrice, tale Miss C., che si dibatteva nei labirinti della teosofia e dell’occultismo: “Nulla era più lontano dalle sue intenzioni di distruggere la mia fede; non poteva sapere che la stanza in cui introduceva la sua candela fosse piena di polvere da sparo…Non intendo dire che la causa (del mio ateismo) fosse Miss C.; meglio sarebbe dire che fu il Nemico, approfittando delle sue parole più innocenti”. Quel “Nemico”, il Diavolo, che sarà ben presente nel celeberrimo libro-epistolario del 1942 Le lettere di Berlicche, ricco di ortodossia teologica e di acuta penetrazione psicologica. Questa storia del passaggio dall’ateismo alla conversione cristiana di Lewis è narrata dallo stesso autore nelle pagine finali di Sorpreso dalla gioia, in cui ricorda ciò che avvenne nel 1929: “Tutto solo in quella stanza di Magdalen (College), avvertivo su di me la ferma, inesorabile stretta di Colui che mi rifiutavo ostinatamente di conoscere. Ciò che avevo più temuto si era alla fine impadronito di me. Durante il trimestre della trinità del 1929 mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai per pregare: fui forse, quella sera, il convertito più disperato e riluttante d’Inghilterra”. E concludeva il suo approdo alla fede cristiana: “La durezza di Dio è più mite della dolcezza umana, e le Sue costrizioni sono la nostra liberazione”.

Amicizia e allegoria

La ricercata sana amicizia che Lewis coltivò durante l’intera sua vita lo portò a elaborare un trattato, I quattro amori, in cui esaminava il distinto ruolo dell’affetto, della philia, dell’eros e della carità. Al primo amico menzionato nell’autobiografia-conversione, Arthur Reeves, con il quale aveva condiviso quelle “trafitture di Gioia” legate alla passione per la mitologia teutonica e norvegese (l’Edda) dedicò “Le due vie del pellegrino” del 1933, apologia allegorica del cristianesimo, della ragione e del romanticismo, così come dedicò le già citate Lettere di Berlicche” a Tolkien, che conobbe durante il periodo come docente di Lingua e Letteratura inglese all’Università di Oxford. Ad un altro suo amico, Owen Barfield, legò il nome di sua figlia Lucy alle vicende delle Cronache di Narnia. Quanto fosse importante l’amicizia per Lewis è testimoniata dalla vicenda in cui, durante la prima guerra mondiale, vide cadere al fronte un suo compagno d’armi, Paddy Moore, raccogliendo la sua invocazione di occuparsi di sua madre; Lewis la prese con sé nella sua casa, assistendola fino alla morte. Alle “amicizie culturali” dei suoi autori preferiti, come ad esempio lo scrittore George McDonald, arrivò addirittura a porlo come guida, alla stregua di Dante, nell’Inferno e nel Paradiso del romanzo: “Il grande divorzio”. Di McDonald rimase colpito dalla frase: “Il principio primo dell’inferno è: “Io sono mio”, che utilizzò nelle Lettere di Berlicche. Anche l’allegoria fu un modo di narrare allusivo che Lewis adottò non solo nei titoli di alcune sue opere, basti vedere ad esempio L’allegoria d’amore del 1936, il leone Aslan (equivalente a Gesù Cristo) nelle Cronache di Narnia, così come la Mappa mundi contenuta ne: “Le due vie del pellegrino”. Anche nella trilogia spaziale (Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza) il ricorso all’allegoria è chiaramente espresso nelle vicende del protagonista, Elwin (amante degli elfi) Ransom, filologo come l’amico John Ronald Ruel Tolkien.

La questione antropologica

Riprendendo la questione antropologica, nel saggio L’abolizione dell’uomo Lewis si pose a difesa di quanto Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) pensava riguardo l’anelito dell’anima all’infinito in rapporto alla sublimità della cascata. Non si trattava soltanto, alla stregua dei pedagogisti della sua epoca (che Lewis deplorava), di qualcosa che riguardava il sentimento personale ma che ineriva all’oggetto stesso, la cascata. Non si trattava pertanto di estirpare l’emotività e il sentimento ma di difendere i giusti sentimenti, le legittime emozioni da quelle false: “Il compito degli educatori moderni non è di sfrondare le giungle, ma di irrigare i deserti”. Era necessario riaffermare ciò che Sant’Agostino nel De Civitate Dei definiva la virtù dell’ordo amoris, l’ordinata distribuzione degli affetti in cui a ogni oggetto (come la cascata) è tributato quel genere e grado di amore che gli è appropriato. Nella seconda parte del saggio, Lewis per comodità chiamava il Tao ciò che intendeva come Legge Naturale, ergendolo come unica fonte di tutti i giudizi di valore; le ideologie, al contrario, si connotavano, secondo lo scrittore di Belfast, come frammenti del Tao stesso, arbitrariamente strappati al loro contesto globale e quindi isolatamente esasperati. Nella terza e ultima parte dell’illuminante saggio, Lewis argomentava in merito al rapporto Uomo-Natura, facendo degli esempi significativi: l’aeroplano, la radio e i contraccettivi. Egli scriveva: “Per quanto concerne i poteri che si concretizzano nell’aeroplano o nella radio, l’Uomo ne è tanto dipendente o soggetto quanto detentore, visto che funge da bersaglio sia alle bombe sia alla propaganda…Per mezzo della contraccezione alle possibili generazioni future viene negata l’esistenza”. Lewis intendeva così sottolineare che il potere dell’Uomo sulla Natura equivaleva al potere dell’uomo sopra altri uomini: “La conquista della Natura da parte dell’uomo corrisponderebbe al dominio di poche centinaia di uomini su miliardi e miliardi di altri uomini”. Se la natura umana sarà l’ultima parte ad arrendersi all’Uomo, i Condizionatori (così egli apostrofava senza mezzi termini i pochi uomini di potere) sapranno come produrre “coscienza” e decidere che genere di coscienza produrre e quale genere di Tao artificiale produrre, Così faranno per produrre nell’umanità una dozzina di diversi concetti di “bene”: “Sono uomini che hanno sacrificato la loro parte di umanità tradizionale per dedicarsi al compito di decidere quale senso attribuire per il futuro alla parola “Umanità”. La conquista finale dell’Uomo si rivelava essere così l’abolizione dell’uomo.

FABIO TREVISAN