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venerdì 22 gennaio 2021

Gustave Thibon, filosofo della Tradizione, a vent'anni dalla morte

Sono 20 anni che ci ha lasciato Gustave Thibon, il "filosofo contadino", strenuo difensore della Messa Tridentina.
Lo ricordiamo con questi articoli e la sua bio-bibliografia.
QUI un altro articolo sul Nostro.
Luigi


Thibon, cantore della vera famiglia
A 20 anni dalla scomparsa riscopriamo un vero maestro
IFN, Andrea Bartelloni, 20-1-21



Soprannominato «filosofo-contadino», Gustave Thibon (1903-2001), francese, è uno dei grandi maestri del secolo XX, tanto importante quanto misconosciuto, oramai quasi completamente dimenticato.

Del suo pensiero poliedrico e ricco, un tratto caratteristico è quello che riflette su quelle che egli chiama «comunità di destino», definite come un gruppo di «due o più uomini» che «condividono spiritualmente o materialmente la stessa esistenza, […] sottomessi agli stessi rischi o perseguono gli stessi fini». Esempio tipico ne è la famiglia.

In più punti della sua sterminata produzione aforismatica Thibon si sofferma sull’amore tra uomo e donna come base del legame matrimoniale, tra l’altro affermando: «Sacrificarsi a una creatura, amarla nonostante il suo nulla, a motivo del suo nulla, amarla di un amore più forte e più puro del desiderio di felicità, è possibile solo se l’amore umano si coniuga e si amalgama all’amore eterno».

Per Thibon, infatti, le creature formano un insieme armonioso con la propria diversità: appunto una comunità di destino, dove nessuno vive per se stesso. «Non potrei amarti», scrive con il realismo lirico del poeta della vita, «se tu non avessi quelle qualità, ma queste qualità non le amerei così se non fossero le tue. Ti amo perché mi dai questo e amo questo perché tu me lo dai».

E ancora: «Non amo che te. Ma amo ogni cosa in te e ti amo in ogni cosa. Tu non sei l’essere che usurpa e mi vela il mondo, tu sei il legame che mi unisce al mondo. L’amore integrale esclude l’amore esclusivo: ti amo troppo per non amare che te».

A venti anni dalla morte di Thibon, avvenuta il 19 gennaio 2001, è forse il momento di tornare a piegarsi di fronte a queste provocazioni strazianti su amore e famiglia. Perché non ne siamo più capaci, non abbiamo più orecchie per esse, non ne abbiamo più neppure lo stomaco. Infatti si vede cosa abbiamo costruito al loro posto.

Pillole biografiche

Gustave Thibon muore il 19 gennaio 2001, a Saint-Marcel-d’Ardèche, nel Midi di Francia, dove era nato il 2 settembre del 1903, lasciando tre figli e nipoti. Filosofo che ha percorso tutto il secolo XX, è stato definito “il filosofo-contadino”. Dopo aver trascorso un’adolescenza agnostica e attraversato molti Paesi europei fino all’Africa settentrionale, torna nella casa di campagna di famiglia all’età di ventitré anni, segnato dagli orrori della Grande Guerra. Si riconcilia con la fede cattolica grazie ad alcune letture (Léon Bloy, 1846-1917) e importanti incontri (madre Marie-Thérèse del Carmelo di Avignone, Jacques Maritain [1882-1973], il padre domenicano Joseph-Marie Perrin [1905-2002]). Nel 1938 sposa Paulette Gleize, che muore dando alla luce la figlia, Marie-Therese. Due anni dopo sposa Yvette Roudil, che gli dà due figli: Geneviève e Jean Pierre. Nel 1939 pubblica Diagnosi con cui si fa conoscere al grande pubblico. Nel 1941 ospita Simone Weil (1909-1943), perseguitata perché ebrea: ne scaturisce un’amicizia grande. Quando la Weil riesce finalmente a lasciare la Francia clandestinamente consegna i propri quaderni a Thibon, che li fa pubblicare scoprendo un talento. Decisi anche i sodalizi culturali con i filosofi cattolici Gabriel Marcel (1889-1973), francese, e Marcel de Corte, belga (1905-1994).

Pubblicazioni in italiano
Quel che Dio ha unito. Saggio sull’amore, Società Editrice Siciliana, Mazara (Trapani) 1947
Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, prefazione di Gabriel Marcel, Morcelliana, Brescia 1947 nuova traduzione, Volpe, Roma 1973
La scala di Giacobbe. Pensieri e aforismi, AVE, Roma 1947
Il pane di ogni giorno, Morcelliana, Brescia 1949
Vivere in due, Borla, Torino 1955
Crisi moderna dell’amore, Marietti, Torino 1957
Nietzsche o il declino dello spirito, Edizioni Paoline, Alba (Cuneo) 1964
L’uomo maschera di Dio, SEI, Torino 1971.
Ritorno al reale: nuove diagnosi, Volpe, Roma 1972.
Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una premessa di Marco Respinti, Effedieffe, Milano 1998
La libertà dell’ordine, antologia a cura di Emiliano Fumaneri, Fede & Cultura, Verona 2015.Il tempo perduto, l’eternità ritrovata. Aforismi sapienziali per un ritorno al reale, a cura di Antonella Fasoli, D’Ettoris, Crotone 2018




Il 19 gennaio di vent’anni fa si spense nella casa di famiglia in cui era nato 98 anni prima, a Saint-Marcel-d’Ardèche, il pensatore contadino e cristiano Gustave Thibon. Dovrebbe leggere i suoi scritti Papa Bergoglio, è una lettura semplice che apre il cuore; vedrebbe l’amore per la terra e la fraternità dal punto di vista verticale, cioè in profondità e in altezza. In profondità dove ci sono le radici, in altezza verso Dio. Per unire l’umanità, gli insegnerebbe Thibon, non serve gettare ponti ma innalzare scale; “chi non è salito fino a Dio non ha mai incontrato un fratello”.

Thibon è un autore sconosciuto ai più. Di lui uscirono mezzo secolo fa in Italia un paio di libri con l’editore Volpe, Ritorno al reale e Diagnosi, e qualche opera minore. Di recente D’Ettoris ha pubblicato Il tempo perduto, l’eternità ritrovata, (p.516, 25,90 euro), florilegio di scritti e aforismi a cura di Antonella Fasoli, prefazione di Benedetta Scotti. “Benedire tutto, non divinizzare nulla”, insegna Thibon; abbattuti gli dei sorgono i “mostri” e disfatti i miti si innalzano “i palloni gonfiati”.

Thibon abbandonò presto gli studi e dopo aver viaggiato, dimorando anche in Italia, si dedicò alla vita contadina ritirandosi nelle sue terre. Lì coltivò vitigni e pensieri. Lo scoprì Jacques Maritain, pubblicando un suo scritto nel 1931. Thibon era legato alla terra e al cielo, contadino e credente, nutrito di un amore metafisico per la realtà. Amava la tradizione e non la coniugava al passato né la relegava in un astratto Mondo Perfetto, ma la ritrovava nella vita che s’incarna di continuo, nelle radici che danno frutti e nel sole che si rinnova ogni mattino. “Non opporsi ai cambiamenti ma impregnarli d’eterno”. Gabriel Marcel apprezzò la freschezza profonda della sua anima in comunione con la natura, la familiarità col silenzio e la sua vita regolata al ritmo del cosmo. Per Thibon un vero aristocratico si distingue ma non si separa dalla gente con sdegnoso snobismo; è il suo stile, la sua grazia, la sua essenza a distinguerlo. La nobiltà ha cadute, non bassezze. Il contadino ha radici, scrive Thibon, perciò non teme il vento e non diventa suo trastullo.

Nella sua casa di campagna si rifugiò Simone Weil in piena guerra per ritrovare il contatto con la terra nel lavoro agreste; con lui dialogò a lungo, insegnò a lui il greco e con lui lesse i classici; a lui affidò i suoi quaderni di cui fu il primo curatore. È splendido il ritratto di Simone che ci lascia Thibon nel libro scritto con Padre Perrin (Simone Weil come l’abbiamo conosciuta); ritrova in lei “l’egoismo trascendentale dell’eroe” e la sua insopportabile santità, perfino il suo antisemitismo, lei ebrea; la sua goffaggine, la sua inattitudine alla realtà e alla vita pratica e il suo desiderio di mortificarsi, di annientarsi.

Di quell’amicizia narrò un film di qualche anno fa, Stelle inquiete. Quando conobbe Simone Weil, Thibon provò all’inizio quasi repulsione. La stessa repulsione confessò pure lei verso di lui, “mi è letteralmente intollerabile”. Lei perduta nel suo etereo spiritualismo intellettuale, lui radicato nel suo terrestre spiritualismo realista; lei rivoluzionaria e anarchica, lui monarchico e vicino al regime di Vichy. Però l’amore della verità superò le antipatie superficiali e ideologiche. Fu vinto, suo malgrado, “dalla purezza della sua anima, dalla qualità del suo spirito”, vide in lei “una tensione di fedeltà all’eterno” che rese la loro amicizia “profondamente fraterna”. “Aveva il privilegio di essere sempre dalla parte dei vinti”. Trentenne, era già incurvata dall’ascesi e dalla malattia, “solo i suoi occhi mirabili sopravvivevano in quel naufragio della bellezza”. E quel suo discutere all’infinito… Thibon colse la fragilità di Simone Weil in quella rigidità che la rendeva impacciata nella vita e astratta nel pensiero.

Mentre lei asciugava i piatti le disse che il suo punto debole era “una mancanza di unità tra terra e cielo”. Colse con perfetta semplicità la vena “gnostica” di Simone, quella spiritualità fuori dal mondo, dal corpo e dal tempo che rendeva rarefatti i pensieri e sovrumana la grazia. Solo la santità, disse, le apporterà la lievità suprema. Dal canto suo, Simone, integralista della purezza, giudicò aspramente alcuni scritti di lui; e criticò l’amore che il cristiano Thibon nutriva per Nietzsche. Ma riconobbe lo splendore accogliente della sua anima, visse e vendemmiò con lui nella sua campagna – “con lei ho vangato la terra e spezzato il pane” disse Gustave. Lei rifiutava i conforti e l’abbondanza di cibo che lui le offriva e cercava la scomoda frugalità nella casetta diroccata sulle rive del Rodano. Probabilmente l’elogio del radicamento che lei scrisse proprio dopo il periodo trascorso nella campagna di Thibon, risentì di quella vita, quei dialoghi e quelle idee del filosofo contadino. E così la difesa weiliana del passato, dell’onore, dell’ubbidienza, dell’ordine. Non a caso Simone affidò proprio a lui, nel loro ultimo incontro, i suoi Quaderni, perché ne facesse quel che voleva. Su una panchina di pietra lui e Simone leggevano insieme Platone, contemplando le stelle e fumando di continuo. Un filo di fumo legava Platone alle stelle Ci trafigge il suo dolore per la morte precoce di lei: “Sanno, i morti, ciò che uccidono in noi, lasciandoci? Per noi che l’abbiamo amata, una parte della nostra anima è divenuta una tomba: mille scambi, possibili solo con lei, sospinti fuori dall’esistenza”.

Per Thibon la ricetta per invecchiare bene è non smettere mai di nascere; anzi più che nascere, resuscitare. L’epoca in cui tutto è perduto, diceva, è anche l’epoca in cui tutto si può ritrovare. La salvezza verrà tramite la bellezza, la preghiera e l’amore. La parola chiave del suo pensare è “sempre, questa parola continuamente ripetuta dall’amore, continuamente smentita dalla vita”. Il suo corpo, come il suo pensiero, trovò in terra il cielo.

MV, La Verità 19 gennaio 2021