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martedì 28 luglio 2020

La disputa su Liturgia e Tradizione: II parte (controrepliche di Guido Ferro Canale a "Traditio Marciana")


Ecco, fatte le dovute precisazioni preliminari, pubblichiamo di seguito la controreplica vera e propria sulla questione "Liturgia e tradizione", su cui Traditio Marciana e Guido Ferro Canale si sono incontrati i una disputa all'ultima citazione.  
Roberto

Liturgia e tradizione

Dovendo passare ad una disamina nel merito degli argomenti addotti da “Traditio Marciana”, sono stato in dubbio se indirizzare queste mie considerazioni ad un generico pubblico, al blog in questione o al Sig. Ghigi personalmente; infine ho scelto di mantenere una destinazione impersonale, che credo sia sempre utile, avvertendo però che, anche per scarsa o nulla conoscenza della teologia degli Orientali acattolici, formulerò argomenti da cattolico e diretti ai cattolici. In larga misura, penso che si tratterà di temi e dottrine comuni; ma non saprei come esprimerli nel linguaggio più familiare ai lettori acattolici (se ve ne saranno) e debbo perciò pregarli di provvedere da sé all'opera di “traduzione” che si rendesse necessaria al riguardo.
Il punto ha una notevole importanza giacché, sebbene le varie critiche mosse da “Traditio Marciana” al mio indirizzo siano strettamente interconnesse, su tutte mi sembra che
precedano nell'ordine logico quelle che chiamano in causa il concetto di Liturgia e il suo nesso con la Tradizione, aspetti che credo, per sentito dire, siano molto cari ai predetti acattolici. Non occorre aggiungere, peraltro, che essi stanno anche alle radici del pur variegato movimento “tradizionalista”.
Riporto quindi, per prima cosa, i punti del ragionamento di controparte.
Il nostro contraddittore elabora tutta la sua lunga e articolata riflessione con gli occhi del giurista e del canonista, e non del liturgista, quale egli in premessa ammette difatti non essere, e basandosi pertanto su un solo argomento: la legge, intesa come legge canonica e positiva. Questo dimostra tuttavia almeno l'ignoranza del fatto che la Liturgia è un sistema complesso che deriva direttamente dagli istituti di Cristo e degli Apostoli, rielaborati in forme sin da subito differenti a seconda dei luoghi, da un complesso di principi stabiliti e non modificabili senza detrimento dell'essenza stessa del culto, e non è semplicemente il 'culto legale' stabilito da una legge umana. La Tradizione, liturgicamente parlando, è il principio fondante, e non è a sua volta fondata dalla legge positiva.
Alla radice della mia posizione, invero, starebbe la stessa “ipertrofia dell'autorità papale” che contraddistinguerebbe i sedevacantisti e che, “da posizione diversa, è riproposta dall'avv. Ferro Canale, il quale afferma in modo acritico che è potere del Papa abrogare qualsiasi legge, tradizione e consuetudine. Egli ammette però che il papa non possa cambiare la dottrina (i più infallibilisti sostengono talora pure questo, e nei fatti si è veduto): ma, come insegna S. Prospero d'Aquitania, legem credendi lex statuat supplicandi [2]. Nonostante l'interpretazione contraria data negli ambienti cattolici negli anni più recenti (nella Mediator Dei di Pio XII si afferma di fatto che lex credendi legem statuat supplicandi, con una serie di pesanti interventi liturgici resi possibili in conseguenza), l'intendimento dei Padri è che la tradizione liturgica apostolica fonda la dottrina. E dunque non sarebbe possibile per l'autorità cambiare in modo radicale la liturgia senza cambiare anche la dottrina.
Nella visione dell'avv. Ferro Canale, la semplice promulgazione da parte dal papa di una legge liturgica ne comporta l'infallibilità e il dovere di osservarla”.
E verso la fine: “Venendo però alle motivazioni più profonde, notiamo che in passato l'atteggiamento tradizionalmente dimostrato dalla Chiesa davanti ai riti liturgici fu quello di limitare il più possibile gli interventi, riconoscendo che essi costituiscono un patrimonio fondante ereditato in custodia, piuttosto che in proprietà. Anche laddove la mentalità teologica si fosse distaccata da quella dell'età patristica, non si osò per secoli modificare il rito, che pure esprimeva la teologia patristica, ma al massimo fornirne una diversa interpretazione. Quando invece nel XX secolo questo rispetto reverenziale venne meno, attestato dalla Mediator Dei che è la dottrina a stabilire la liturgia e non viceversa, ecco che si aprirono le porte della modifica, per sostituire ai riti stabiliti dai Padri delle cerimonie più congruenti con la mentalità dei nuovi teologi.
Anche se alle relazioni tra Liturgia e diritto canonico - con particolare riguardo al momento della fonte consuetudinaria - dovrò dedicare un articolo a parte, vorrei qui precisare che io non credo affatto che la legge liturgica approvata dal Papa sia infallibile e tantomeno che vada immune da critiche. In effetti, il semplice fatto che abbia parlato sia di leggi inopportune sia di leggi ingiuste, tali anche da non obbligare affatto in coscienza, basterebbe a dimostrarlo; ma mi sembra che il nesso non sia stato percepito e, dunque, chiarisco volentieri, anche a beneficio di un pubblico che l'importanza dei temi trattati mi fa sperare vasto.
Invero, “infallibile” in senso tecnico è solo l'atto di Magistero, che propone formalmente una dottrina come rivelata o appartenente al novero delle verità morali; la legge umana della Chiesa può, al massimo, essere indefettibile ossia non contraddire il patrimonio delle verità rivelate o del diritto naturale. I teologi ultramontani, non ultimo l'Em.mo Card. Billot, finiscono in effetti per eliminare la differenza, escludendo ogni e qualsiasi possibilità di contrasto in qualsiasi legge che impegni la suprema autorità ecclesiastica;[1] ma io mi mantengo sulla linea più restrittiva di Melchior Cano, secondo cui è escluso a priori soltanto che il Papa (o il Concilio) possa comandare a tutti i fedeli cristiani, dal primo all'ultimo, di fare il male, o vietar loro di fare il bene;[2] questo lascia aperta la possibilità che le leggi permettano il male, vuoi per tolleranza consapevole vuoi anche per errore di giudizio, che diminuiscano il bene ottenibile...[3] e, se parliamo di leggi destinate a una parte soltanto del popolo cristiano, perfino che vietino del tutto il bene o impongano il male. Non credo, invece, che possa mai essere approvato un rito sacramentale invalido, anche se destinato solo a una parte della Chiesa, e neppure una Professione di Fede eretica, sebbene formalmente indirizzata solo ad alcuni, o perfino ad un unico individuo.[4]
Di conseguenza, in astratto posso ammettere senza troppi problemi che il Messale Romano – legge destinata ad una parte sola, benché eminente, della Chiesa – finisca per esser riformato in peggio, fino al punto di favorire e perfino di imporre l'eresia (almeno finché non si tratta di un'eresia incompatibile con la Presenza Reale, perché allora si porrebbe, a mio avviso, un chiaro problema di validità). Sono anche d'accordo che il mutamento di un rito possa implicare, o come causa o anche quale conseguenza non voluta, un cambiamento nella dottrina. Ma che “non sarebbe possibile per l'autorità cambiare in modo radicale la liturgia senza cambiare anche la dottrina” mi sembra, se non proprio un errore, certo un grosso equivoco.
Intanto, sarebbe interessante comprendere cosa si intenda per “cambiare in modo radicale”, visto che, nella sua pregevole sintesi delle riforme degli ultimi secoli, di fatto controparte finisce per trovare “di una certa gravità e pure contestabili in linea di principio” anche modifiche che, per sua stessa ammissione, “in ogni caso consegnano un rito che nella sostanza non è troppo differente da quello di Pio V”. Sarei anche curioso di capire quale cambiamento di dottrina avrebbe comportato il vituperatissimo intervento di S. Pio X. Comunque supponiamo, per semplicità, che si cambi “in modo radicale” quando le riforme sono tali da trasformare il rito A in un rito altro, B; e poco importa se resta una certa vaghezza.
Ebbene, almeno così inteso, l'asserto avversario ignora che, fin dall'età subapostolica, nella Chiesa una pluralità di riti esprime un'unica e identica Fede. Di conseguenza, non basta dire che si è trasformato il rito per affermare che sia mutata la dottrina, se per dottrina si intende il dogma. E se poi si intende qualcosa di meno, allora già non si parla più di un dato intangibile per definizione.
Quest'argomento, in verità, dovrebbe imporsi anche agli acattolici, che, polemiche sul pane azzimo a parte, non mi pare abbiano mai contestato la legittimità della coesistenza di più riti in una stessa ed unica Chiesa di Cristo. Per i cattolici, però, si impone a fortiori perché, diversamente da loro, accettano il Concilio di Firenze e, quindi, anche l'esistenza di una legittima diversità perfino nelle formulazioni dottrinali della medesima Fede.
Tutti sappiamo che, secondo il Credo come approvato in origine a Nicea, lo Spirito Santo “procede dal Padre”, senza indicazioni di sorta riguardo al Figlio; tuttavia, la processione anche dal Figlio, insegnata forse già da Tertulliano, fu teorizzata da S. Agostino e, gradatamente, fece il proprio ingresso nelle Liturgie occidentali, appunto con l'aggiunta al Credo della parola “Filioque”, “e dal Figlio”. Prima con Fozio, poi con Cerulario, l'Oriente ebbe a reclamare sia contro l'illegittimità di una siffatta modifica unilaterale alla Professione di Fede comune, oltretutto in spregio al divieto promulgato al Concilio di Efeso, sia nel merito, contro una dottrina che considerava, come minimo, estranea alla Scrittura e alla Tradizione, se non direttamente eretica. Occorreva dunque, per ristabilire l'unione, che un Concilio esaminasse il punto controverso; e il 6 luglio 1439, sotto lo stupefacente abbraccio di una cupola del Brunelleschi ancor priva di lanterna, proprio l'Arcivescovo di Nicea, Bessarione, lesse in greco il testo della bolla[5] con cui il tribunale della Fede si pronunciava, sancendo quel che ictu oculi pareva quasi impossibile, cioè che procede dal Padre” e “procede dal Padre e dal Figlio” sono due modi legittimi di esprimere la stessa verità, che è la processione anche dal Figlio:[6]tutti debbono professare che lo Spirito Santo è eternamente dal Padre e dal Figlio, che ha la Sua essenza e il Suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal Figlio, e che dall'eternità procede dall'uno e dall'altro come da un unico principio e da un'unica spirazione”.
Quanto poi all'inserimento del Filioque, “Definiamo, inoltre, che la spiegazione data con l'espressione Filioque è stata lecitamente e ragionevolmente aggiunta al Simbolo per rendere più chiara la verità e per necessità allora incombenti.”[7]
Ho voluto soffermarmi su quest'esempio storico perché, com'è evidente, il problema riguardava, nello stesso tempo, un (possibile) cambiamento nella dottrina e un (innegabile) mutamento nella Liturgia, dove il Credo veniva e viene tuttora cantato. Ebbene: qui abbiamo un Concilio Ecumenico che, con atto definitivo, dichiara che la Liturgia – anzi, la Professione di Fede, e di conseguenza la Liturgia – è stata cambiata in modo legittimo sotto tutti gli aspetti,[8]per rendere più chiara la verità e per necessità allora incombenti”.
Difficile, a questo punto, continuare a sostenere che la Liturgia deve fare sempre e comunque da norma alla Fede, mai viceversa, tanto che, anche in seguito ai cambiamenti della “mentalità teologica”, non si sarebbe osato mutare il rito, ma solo la sua interpretazione.
Senza dubbio, in molti casi la S. Sede ha proceduto così, specialmente riguardo ai Greci; e, assai prima dell'Enciclica Ex quo primum di Benedetto XIV, che di ciò offre preclara testimonianza, la stessa unione di Firenze si è astenuta dal mutare i loro riti, lasciando sussistere, in particolare, il Credo senza Filioque. Ma ciò sul presupposto che si professasse comunque la doppia processione dello Spirito Santo e per non aggiungere un ostacolo sulla via dell'unità ritrovata (che comunque, purtroppo, non durò). Invece, nel caso degli Armeni, a Firenze non solo fu prescritto di aggiungere il Filioque, ma anche di modificare i giorni in cui celebravano alcune feste principalissime, stavolta per un motivo nemmeno dottrinale ma inferiore, l'uniformità di calendario con altri riti.[9] Impossibile, quindi, per un cattolico escludere in linea di principio ogni cambiamento della Liturgia per motivi di ordine dottrinale, molto difficile farlo per quelli di opportunità – sebbene notevoli – come nel caso dell'uniformità del calendario. Se poi tali motivi siano veri, sufficienti e proporzionati, ovviamente può solo essere valutato caso per caso; ne parleremo in altra sede, premendo qui anzitutto la questione di principio.
In effetti, devo dire, mi sembra che l'idea di Tradizione soggiacente a tutto il discorso di controparte sia poco conciliabile con lo sviluppo dogmatico in sé, ancorché omogeneo; ma questo forse si deve al fatto che vuole rappresentare una posizione comune a / neutra fra cattolici e ortodossi. Di certo, esso menziona solo i cambiamenti della “mentalità teologica”, dimenticando che la Chiesa ne conosce di ben più importanti... e che già ab antiquo essi hanno comportato mutamenti nella Liturgia: se il Filioque entra nel Credo tra l'età carolingia e l'inizio del sec. XI,[10] lo stesso Canone Romano pare rechi tuttora traccia di un antico ampliamento, databile al V sec., volto a contrastare l'eresia predestinazionista.[11]   
Anche tenuto conto dello sviluppo del dogma, però, resta l'ultima obiezione, senz'altro di indubbio peso: “l'intendimento dei Padri è che la tradizione liturgica apostolica fonda la dottrina”. Nessun dubbio, del resto, che la citazione di Prospero d'Aquitania sia corretta.
Qui il problema, a mio avviso, sta proprio nel concetto di Tradizione.
Nella dogmatica cattolica (ma suppongo che gli altri, alla fin fine, dicano le stesse cose in modo diverso), si parla di Tradizione: a) inesiva, che tramanda di generazione in generazione l'autentico senso spirituale delle Scritture; b) costitutiva, ossia l'insieme delle verità rivelate ma non incluse nel NT, a cominciare dallo stesso canone biblico; c) divino-apostolica ossia risalente agli Apostoli e riguardante elementi rivelati (dunque inesiva o costitutiva); d) umano-apostolica, con cui cioè gli Apostoli non hanno imposto che precetti contingenti e mutabili, anche se talvolta accolti nelle Scritture, p.es. l'astensione dal sangue degli animali o dal mangiare carni immolate agli idoli; e) semplicemente umana, perché subapostolica, accezione che tende già a sfumare nella semplice consuetudine.
Ora, solo la Tradizione divino-apostolica fonda il dogma. Appunto perché deve essere creduto per Fede solo ciò che è stato divinamente rivelato prima della morte dell'ultimo Apostolo.
Ciò posto, è piuttosto evidente che l'origine apostolica potrà predicarsi, semmai, di quei soli elementi testuali o cerimoniali che sono comuni a tutti i riti accettati nella Chiesa;[12] quelle specifiche del singolo rito, anche se per avventura risalissero davvero all'Apostolo da cui esso trae origine, non potrebbero comunque essere ascritte alla Tradizione divino-apostolica.
Certamente, oltre alle singole norme, esistono i princìpi generali, a partire dall'esistenza stessa di cerimonie esteriori: sono princìpi che si possono sostanzialmente considerare di diritto divino, perché o sono comuni a tutti i culti, anche meramente naturali, oppure esprimono caratteristiche proprie del culto cristiano. Ad es., l'uso di vesti sacre era ben noto anche ai pagani ed esprime la consapevolezza della speciale funzione che si è chiamati ad assolvere; nel culto cristiano, però assume anche il significato ascetico di un “dover essere” legato all'interiorità della persona di chi le indossa (e quest'elemento, al di là dei tipi di indumento o della varietà di significati simbolici, per quanto ne so è comune a tutti i riti). Resta, però, che la grande maggioranza delle prescrizioni liturgiche appartengono alla tradizione umana, anche quando siano plurisecolari.
Con questo non intendo dire che non abbiano importanza per la dottrina, ci mancherebbe altro: la genuflessione alla Consacrazione è un esempio lampante... ma anche raro. Nella generalità dei casi, invece, il cambiamento di queste norme non ha particolare rilievo per il dogma; comporta, però, un cambiamento nella teologia, perché, nel corso dei secoli, da esse gli autori hanno tratto spunto per le considerazioni più disparate, dall'interpretazione allegorizzante dei riti all'omiletica, senza escludere temi propriamente dottrinali, non però come vera prova del dogma. E le teologie sono, in seno alla Chiesa, tanto molteplici quanto mutevoli.
Il cambiamento, dunque, per lo più non crea tanto problemi dottrinali in sé – non in senso stretto, almeno - ma problemi di scandalo del popolo che, molto più sensibile al linguaggio dei riti che a quello dei laureati, facilmente rischia di pensare “Prima si faceva così, ora cosà... dunque prima sbagliavamo! Dunque la Chiesa sbaglia!”. Naturalmente, quanto più stretta la connessione del testo o della cerimonia con una verità di ordine dogmatico, tanto maggiore il rischio. Ma se si può accettare come direttiva di ordine pratico un invito pressante a non cambiare nulla, o meglio a procedere con la massima prudenza e circospezione, occorre però ammettere che, in linea di principio, il cambiamento è possibile.
Dicendo possibile, non intendo affatto dire opportuno e, a rigore, nemmeno lecito. Ma queste valutazioni appartengono già ad un'altra fase, quella dei giudizi sul caso concreto.


Genova, li 25 luglio 2020




[1]     Cfr. L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi sive continuatio theologiae de Verbo Incarnato, tomo I – De credibilitate Ecclesiae, et de intima ejus consttutione, Prato 1909, pagg. 466-71, specialmente pagg. 469-70: «De infallibilitate autem in rebus disciplinae breviter notandum quod tota est sita in hoc, quod ex Spiritu Sancti assistentia habet suprema Ecclesiae auctoritas ut nunquam possit condere leges quae revelatis regulis fidei et morum sint quomodolibet oppositae. […] Nunc autem leges disciplinares sunt quaedam socialia principia per quae suum influxum in propria membra exserit Ecclesia. Si igitur necesse est ut ipsa sit sancta sanctitate principiorum, fieri nunquam poterit ut disciplina ab ea constituta et probata contrarietur regulis fidei et quibuslibet normis in evangelio praestitutis. Ex quo manifeste sequitur Ecclesiam esse infallibilem in statuenda disciplina, sumendo nunc infallibilitatem in sensu paulo supra declarato. — Accedit quod ex verbis Christi, Matth. XXVIII-20, non minus infallibilis exhibetur Ecclesia in concreta et practica interpretatione revelationis, quam in eius interpretatione dogmatica».
[2]     Cfr. Melchor Cano, De locis theologicis, Madrid 2006, pag. 205 (Lib. V, Cap. V, secunda conclusio): pur avendo detto «Ecclesiam, cum in re gravi quidem et quae ad Christianos mores formandos apprime conducat, leges toti populo dicit, non posse iubere quicquam, quod aut evangelio aut rationi naturae contrarium sit. - Non ergo hic omnes ecclesiae leges approbo, non universas poenas, censuras, excommunicationes, suspensiones, irregularitates, interdicta commendo. Scio nonnullas eiusmodi leges esse, in quibus si non aliud praeterea quicquam, at prudentiam certe modumque desideres. […] Deinde ecclesia non potest definire quippiam esse vitium quod honestum est, aut contra honestum esse quod est turpe: ergo nec sua edita lege probare quicquam, quod evangelio rationive inimicum sit. […] Quare quemadmodum concilium falsa plebi credenda proponere nequit, sic nec mala potest proponere facienda. Proponere, inquam, firmo certoque decreto, quo omnes ad credendum et ad faciendum sub aeterna poena obligentur.». E alla tertia conclusio (pag. 207) ammonisce: «Nunc illud breviter dici potest, qui summi Pontificis omne de re quacumque iudicium temere ac sine delectu defendunt, hos sedis apostolicae auctoritatem labefactare, non fovere; evertere, non firmare.».
[3]     Quest'ultimo è un evidente caso di legge inopportuna, tema che però – e me ne scuso con i lettori – debbo rimandare ad altra sede, poiché qui pretenderebbe troppo spazio.
[4]     Per quest'ultimo punto, cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei, 29 giugno 1988, n. 9, testo e nt. 17.
[5]     Nota però soltanto con l'incipit latino, Laetentur caeli. Non è privo di significato che il testo gemello sia stato letto da Giuliano Cesarini, Cardinale del titolo di S. Angelo, ma soprattutto, fino a poco tempo prima, guida e anima morale del Concilio di Basilea nella sua lotta contro Eugenio IV, ora invece convertitosi a fermo assertore del Primato pontificio, proprio grazie alle discussioni dottrinali con i Greci e all'approfondimento delle testimonianze che la Chiesa del primo millennio poteva e può offrire al riguardo.
[6]     Infatti, fa sempre parte della definizione, perché ne dipende sintatticamente in quanto subordinata implicita, anche l'opportuna aggiunta esplicativa: “dichiarando [Noi] che quello che affermano i santi Dottori e Padri – che lo Spirito Santo procede dal Padre per mezzo del Figlio – tende a far comprendere che anche il Figlio è causa, secondo i Greci, principio, secondo i Latini (secundum Graecos quidem causam, secundum Latinos vero principium), della sussistenza dello Spirito Santo.”.
[7]     Riprendo la trad. it. di TotusTuus; per il testo latino delle definizioni, cfr. Denz. 1300-02. Gli originali della bolla, tuttora conservati a Firenze, nella Biblioteca Medicea Laurenziana, all'interno della cassetta d'argento appositamente donata dal Card. Cesarini, sono pubblicamente visionabili in riproduzione digitale sul sito della veneranda istituzione.
[8]     Legitimus, in latino, non ha il significato dell'omologo italiano e vale invece “secondo la legge”, “a norma di legge”; nel linguaggio ecclesiastico e canonico, poi, la liceità attiene alla sfera morale, mentre la ragionevolezza è requisito di ogni norma canonica. Il Concilio di Firenze sta affermando, dunque, che il mutamento del Credo è avvenuto a) senza che si commettesse peccato, b) da parte di chi ne aveva l'autorità, c) in termini oggettivamente corretti e d) effettivamente atti ad assicurare un bene comune maggiore di quello sacrificato con il cambiamento stesso.
[9]     Concilio Ecumenico Fiorentino, Decretum pro Armenis, 22 novembre 1439: “Perché, dunque, nella celebrazione di cosi grandi solennità il rito dei cristiani non sia diverso e non si dia occasione di turbare la carità, stabiliamo, conforme alla verità e alla ragione, che, secondo l'uso di tutto il resto del mondo, anche gli Armeni debbano solennemente celebrare la festa dell'annunciazione della beata vergine Maria il 25 marzo; la natività di S. Giovanni Battista, il 24 giugno; la nascita carnale del nostro Salvatore, il 25 dicembre; la sua circoncisione, il primo gennaio; l'epifania, il 6 dello stesso mese; la presentazione del Signore al tempio, cioè la purificazione della madre di Dio, il 2 febbraio.”. Tralascio la modifica al rito cipriota, dove si è proibito per l'avvenire di aggiungere olio all'Eucarestia, perché riguarda un problema di possibile invalidità del Sacramento.
[10]   Fenomeno in larga misura indipendente dall'autorità papale, per giunta. Quanto poi alla sua inclusione in una professione di fede, si trova già nel Concilio di Toledo del 633 (Denz. 645-6).
[11]   Nella Preghiera eucaristica romana, tanto nel Messale di Pio V, quanto in quello di Paolo VI, ad ogni Giovedì Santo, direttamente prima della Consacrazione, è sottolineato che Cristo, 'prima che patisse per la nostra e la salvezza di tutti', compì il Sacrificio eucaristico (Qui pridie, quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem […]). Il Sacrificio della Croce avviene per questo, anche secondo il Messale di Pio V, 'per noi e per tutti'. Il detto ampliamento del Qui pridie appartiene nel rito ambrosiano addirittura alla parte ordinaria del testo. Presumibilmente essa risale al V sec., per combattere il predestinazionismo (secondo cui Cristo ha patito solo per gli eletti); più tardi essa scomparve, salvo nella Messa del Giovedì Santo.”. M. Hauke, “Versato per molti”. Studio per una fedele traduzione del pro multis nelle parole della consacrazione, Siena 2008, pag. 46 (riferimenti in nota).
[12]   Non pretendo certo di possedere quella conoscenza enciclopedica della Liturgia che sarebbe necessaria per intraprendere un'indagine del genere; se dovessi azzardare un'ipotesi, visto che non ho mai sentito parlare di un rito che non lo preveda, penserei ad un'origine apostolica per l'uso dell'incenso. Resterebbe però da vedere se divino- oppure umano-apostolica.

1 commento:

  1. Purtroppo nelle analisi sulla "tradizione" si confonde troppo spesso tradizione come trasmissione nei secoli di quanto Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto chiaramente di fare (quando pregate..pregate così, fate questo in memoria di me, andate e predicate il vangelo) con la tradizione in senso antropologico e sociologico, ossia gli usi e costumi. Questi ultimi variano nel tempo (Consacrazione di nostro Signore in lingua aramaica, poi greca, poi latina, poi armena, ecc.) oppure la forma dell'ìabito liturgico. Vi è purtroppop nel concetto di tradizione una contaminazione forte del senso sociologico con quello evangelico. La tradizione non è la S. Messa in latino, perchè anche quella di San Paolo Vi è in lingua latina ed è concessa la lingua del popolo. La S.Messa riformata da san Giovanni XXIII nel 1962 è la "Lex orandi" che trae origine da San Pio V,, ma è una Lex, ossia forma, non è la sostanza,La sostaza della S. messa è nella consacrazione, questa non varia, perchè ripete le parole di nostro Signore all'ultima cena, come si può constatare nei messali da me visualizzati dal XV secolo in poi. La riforma di san Pio V era necessaria per dare unità ad una Chiesa vittima dei riformati. Ma la Chiesa è una e la sua unità è espressa dal Papa, felicemente regnante e non da gruppi, gruppetti, pseudo esperti di liturgia o affezionati a pizzi e merletti nelle forme barocche dei riti. I papi san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno riconsociuto che la forma orandi può essere quella del Missale romanum del 1962 o quella detta di san Paolo VI. I cattolici non possono allontarsi dalla sede principe apostolica, finiscono nello scisma e facilmente nell'eresia. Nessuno può senza consenso del papa celebrare la S. messa con un Missale difforme a quello del 1962. Infine, in un mondo che combatte la Chiesa Cattolica, forse, ma direi necessariamente, il bene dell'unità nella S. messa diventa esiziale. Le piccole diatribe da "chierichetti" non servono a nulla; quelle poi dei chirichetti troppo cresciuti è meglio lasciarle stare. Il compito della tradizione è ben chiaro nell'Evangelo, diffo ndiamolo anzichè chiudersi in cappelle o in distribe se si possa o meno celebrare la S. messa senza la patena oppure no. O,è ancora peggio, disprezzare coloro che seguaono il ritor di San paolo VI con la saccenza e la supponenza tipica dei settari. Salviguardare il bene della Chiesa, la sua unità e la fede in varietate rituumm non è male, purche salda sia la fede, la speranza e la carità. Del resto pizzi, pianete consunte, invenzioni rituali e persino abusi come quello di indossare dalmatiche o tunicelle e partecipare a "S. messe in terzo" non essendo chierici, lasciamoli a chi come nel 1968 fa gruppetto e non chiesa.

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