Ecco, fatte le dovute precisazioni preliminari, pubblichiamo di seguito la controreplica vera e propria sulla questione "Liturgia e tradizione", su cui Traditio Marciana e Guido Ferro Canale si sono incontrati i una disputa all'ultima citazione.
Roberto
Liturgia e
tradizione
Dovendo
passare ad una disamina nel merito degli argomenti addotti da “Traditio
Marciana”, sono stato in dubbio se indirizzare queste mie considerazioni ad
un generico pubblico, al blog in questione o al Sig. Ghigi
personalmente; infine ho scelto di mantenere una destinazione impersonale, che
credo sia sempre utile, avvertendo però che, anche per scarsa o nulla
conoscenza della teologia degli Orientali acattolici, formulerò argomenti da
cattolico e diretti ai cattolici. In larga misura, penso che si tratterà di
temi e dottrine comuni; ma non saprei come esprimerli nel linguaggio più
familiare ai lettori acattolici (se ve ne saranno) e debbo perciò pregarli di
provvedere da sé all'opera di “traduzione” che si rendesse necessaria al riguardo.
Il punto ha
una notevole importanza giacché, sebbene le varie critiche mosse da “Traditio
Marciana” al mio indirizzo siano strettamente interconnesse, su tutte mi
sembra che
precedano nell'ordine logico quelle che chiamano in causa il
concetto di Liturgia e il suo nesso con la Tradizione, aspetti che credo, per
sentito dire, siano molto cari ai predetti acattolici. Non occorre aggiungere,
peraltro, che essi stanno anche alle radici del pur variegato movimento
“tradizionalista”.
Riporto
quindi, per prima cosa, i punti del ragionamento di controparte.
“Il nostro
contraddittore elabora tutta la sua lunga e articolata riflessione con gli
occhi del giurista e del canonista, e non del liturgista, quale egli in
premessa ammette difatti non essere, e basandosi pertanto su un solo argomento:
la legge, intesa come legge canonica e positiva. Questo dimostra tuttavia
almeno l'ignoranza del fatto che la Liturgia è un sistema complesso che deriva
direttamente dagli istituti di Cristo e degli Apostoli, rielaborati in forme
sin da subito differenti a seconda dei luoghi, da un complesso di principi
stabiliti e non modificabili senza detrimento dell'essenza stessa del culto, e
non è semplicemente il 'culto legale' stabilito da una legge umana. La
Tradizione, liturgicamente parlando, è il principio fondante, e non è a sua
volta fondata dalla legge positiva.”
Alla radice della
mia posizione, invero, starebbe la stessa “ipertrofia dell'autorità papale”
che contraddistinguerebbe i sedevacantisti e che, “da posizione diversa, è
riproposta dall'avv. Ferro Canale, il quale afferma in modo acritico che è
potere del Papa abrogare qualsiasi legge, tradizione e consuetudine. Egli
ammette però che il papa non possa cambiare la dottrina (i più infallibilisti
sostengono talora pure questo, e nei fatti si è veduto): ma, come insegna S.
Prospero d'Aquitania, legem credendi lex statuat supplicandi [2].
Nonostante l'interpretazione contraria data negli ambienti cattolici negli anni
più recenti (nella Mediator Dei di Pio XII si afferma di fatto
che lex credendi legem statuat supplicandi, con una serie di
pesanti interventi liturgici resi possibili in conseguenza), l'intendimento dei
Padri è che la tradizione liturgica apostolica fonda la dottrina. E dunque non
sarebbe possibile per l'autorità cambiare in modo radicale la liturgia senza
cambiare anche la dottrina.
Nella visione
dell'avv. Ferro Canale, la semplice promulgazione da parte dal papa di una
legge liturgica ne comporta l'infallibilità e il dovere di osservarla”.
E verso la fine: “Venendo però alle
motivazioni più profonde, notiamo che in passato l'atteggiamento
tradizionalmente dimostrato dalla Chiesa davanti ai riti liturgici fu quello di
limitare il più possibile gli interventi, riconoscendo che essi costituiscono
un patrimonio fondante ereditato in custodia, piuttosto che in proprietà. Anche
laddove la mentalità teologica si fosse distaccata da quella dell'età
patristica, non si osò per secoli modificare il rito, che pure esprimeva la
teologia patristica, ma al massimo fornirne una diversa interpretazione. Quando
invece nel XX secolo questo rispetto reverenziale venne meno, attestato
dalla Mediator Dei che è la dottrina a stabilire la liturgia e
non viceversa, ecco che si aprirono le porte della modifica, per sostituire ai
riti stabiliti dai Padri delle cerimonie più congruenti con la mentalità dei
nuovi teologi.”
Anche se alle
relazioni tra Liturgia e diritto canonico - con particolare riguardo al momento
della fonte consuetudinaria - dovrò dedicare un articolo a parte, vorrei qui
precisare che io non credo affatto che la legge liturgica approvata dal Papa
sia infallibile e tantomeno che vada immune da critiche. In effetti, il
semplice fatto che abbia parlato sia di leggi inopportune sia di leggi
ingiuste, tali anche da non obbligare affatto in coscienza, basterebbe a
dimostrarlo; ma mi sembra che il nesso non sia stato percepito e, dunque,
chiarisco volentieri, anche a beneficio di un pubblico che l'importanza dei
temi trattati mi fa sperare vasto.
Invero,
“infallibile” in senso tecnico è solo l'atto di Magistero, che propone
formalmente una dottrina come rivelata o appartenente al novero delle verità
morali; la legge umana della Chiesa può, al massimo, essere indefettibile
ossia non contraddire il patrimonio delle verità rivelate o del diritto
naturale. I teologi ultramontani, non ultimo l'Em.mo Card. Billot, finiscono in
effetti per eliminare la differenza, escludendo ogni e qualsiasi possibilità di
contrasto in qualsiasi legge che impegni la suprema autorità ecclesiastica;[1] ma io mi mantengo sulla linea più
restrittiva di Melchior Cano, secondo cui è escluso a priori soltanto
che il Papa (o il Concilio) possa comandare a tutti i fedeli cristiani,
dal primo all'ultimo, di fare il male, o vietar loro di fare il bene;[2] questo lascia aperta la
possibilità che le leggi permettano il male, vuoi per tolleranza
consapevole vuoi anche per errore di giudizio, che diminuiscano il bene
ottenibile...[3] e, se parliamo di leggi
destinate a una parte soltanto del popolo cristiano, perfino che vietino del
tutto il bene o impongano il male. Non credo, invece, che possa mai essere
approvato un rito sacramentale invalido, anche se destinato solo a una parte
della Chiesa, e neppure una Professione di Fede eretica, sebbene formalmente
indirizzata solo ad alcuni, o perfino ad un unico individuo.[4]
Di conseguenza, in astratto posso
ammettere senza troppi problemi che il Messale Romano – legge destinata ad una
parte sola, benché eminente, della Chiesa – finisca per esser riformato in
peggio, fino al punto di favorire e perfino di imporre l'eresia (almeno finché
non si tratta di un'eresia incompatibile con la Presenza Reale, perché allora
si porrebbe, a mio avviso, un chiaro problema di validità). Sono anche
d'accordo che il mutamento di un rito possa implicare, o come causa o
anche quale conseguenza non voluta, un cambiamento nella dottrina. Ma che “non
sarebbe possibile per l'autorità cambiare in modo radicale la liturgia senza
cambiare anche la dottrina” mi sembra, se non proprio un errore, certo un
grosso equivoco.
Intanto, sarebbe interessante comprendere
cosa si intenda per “cambiare in modo radicale”, visto che, nella sua
pregevole sintesi delle riforme degli ultimi secoli, di fatto controparte
finisce per trovare “di una certa gravità e pure contestabili in linea di principio” anche modifiche che, per sua stessa
ammissione, “in ogni caso consegnano un rito che nella sostanza non è troppo
differente da quello di Pio V”.
Sarei anche curioso di capire quale cambiamento di dottrina avrebbe comportato
il vituperatissimo intervento di S. Pio X. Comunque supponiamo, per semplicità,
che si cambi “in modo radicale” quando le riforme sono tali da
trasformare il rito A in un rito altro, B; e poco importa se resta una certa
vaghezza.
Ebbene, almeno così inteso, l'asserto avversario
ignora che, fin dall'età subapostolica, nella Chiesa una pluralità di riti
esprime un'unica e identica Fede. Di conseguenza, non basta dire che si è
trasformato il rito per affermare che sia mutata la dottrina, se per dottrina
si intende il dogma. E se poi si intende qualcosa di meno, allora già non si
parla più di un dato intangibile per definizione.
Quest'argomento, in verità, dovrebbe
imporsi anche agli acattolici, che, polemiche sul pane azzimo a parte, non mi
pare abbiano mai contestato la legittimità della coesistenza di più riti in una
stessa ed unica Chiesa di Cristo. Per i cattolici, però, si impone a
fortiori perché, diversamente da loro, accettano il Concilio di Firenze e,
quindi, anche l'esistenza di una legittima diversità perfino nelle formulazioni
dottrinali della medesima Fede.
Tutti sappiamo che, secondo il Credo
come approvato in origine a Nicea, lo Spirito Santo “procede dal Padre”,
senza indicazioni di sorta riguardo al Figlio; tuttavia, la processione anche
dal Figlio, insegnata forse già da Tertulliano, fu teorizzata da S. Agostino e,
gradatamente, fece il proprio ingresso nelle Liturgie occidentali, appunto con
l'aggiunta al Credo della parola “Filioque”, “e dal Figlio”.
Prima con Fozio, poi con Cerulario, l'Oriente ebbe a reclamare sia contro
l'illegittimità di una siffatta modifica unilaterale alla Professione di Fede
comune, oltretutto in spregio al divieto promulgato al Concilio di Efeso, sia
nel merito, contro una dottrina che considerava, come minimo, estranea alla
Scrittura e alla Tradizione, se non direttamente eretica. Occorreva dunque, per
ristabilire l'unione, che un Concilio esaminasse il punto controverso; e il 6
luglio 1439, sotto lo stupefacente abbraccio di una cupola del Brunelleschi
ancor priva di lanterna, proprio l'Arcivescovo di Nicea, Bessarione, lesse in
greco il testo della bolla[5] con cui il tribunale della
Fede si pronunciava, sancendo quel che ictu oculi pareva quasi
impossibile, cioè che “procede dal Padre” e “procede dal Padre e
dal Figlio” sono due modi legittimi di esprimere la stessa verità, che
è la processione anche dal Figlio:[6] “tutti
debbono professare che lo Spirito Santo è eternamente dal Padre e dal Figlio,
che ha la Sua essenza e il Suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal
Figlio, e che dall'eternità procede dall'uno e dall'altro come da un unico
principio e da un'unica spirazione”.
Quanto
poi all'inserimento del Filioque, “Definiamo, inoltre, che la spiegazione
data con l'espressione Filioque è stata lecitamente
e ragionevolmente aggiunta al Simbolo per rendere più chiara la verità e per
necessità allora incombenti.”[7]
Ho voluto soffermarmi su quest'esempio
storico perché, com'è evidente, il problema riguardava, nello stesso tempo, un
(possibile) cambiamento nella dottrina e un (innegabile) mutamento nella
Liturgia, dove il Credo veniva e viene tuttora cantato. Ebbene: qui
abbiamo un Concilio Ecumenico che, con atto definitivo, dichiara che la
Liturgia – anzi, la Professione di Fede, e di conseguenza la Liturgia – è stata
cambiata in modo legittimo sotto tutti gli aspetti,[8]
“per rendere più chiara la verità e per necessità
allora incombenti”.
Difficile, a questo punto, continuare a
sostenere che la Liturgia deve fare sempre e comunque da norma alla Fede, mai
viceversa, tanto che, anche in seguito ai cambiamenti della “mentalità
teologica”, non si sarebbe osato mutare il rito, ma solo la sua
interpretazione.
Senza dubbio, in molti casi la S. Sede ha
proceduto così, specialmente riguardo ai Greci; e, assai prima dell'Enciclica Ex quo
primum
di Benedetto XIV, che di ciò offre preclara testimonianza, la stessa unione di
Firenze si è astenuta dal mutare i loro riti, lasciando sussistere, in
particolare, il Credo senza Filioque. Ma ciò sul presupposto che
si professasse comunque la doppia processione dello Spirito Santo e per non
aggiungere un ostacolo sulla via dell'unità ritrovata (che comunque, purtroppo,
non durò). Invece, nel caso degli Armeni, a Firenze non solo fu prescritto di
aggiungere il Filioque, ma anche di modificare i giorni in cui
celebravano alcune feste principalissime, stavolta per un motivo nemmeno
dottrinale ma inferiore, l'uniformità di calendario con altri riti.[9] Impossibile, quindi, per un
cattolico escludere in linea di principio ogni cambiamento della Liturgia per
motivi di ordine dottrinale, molto difficile farlo per quelli di opportunità –
sebbene notevoli – come nel caso dell'uniformità del calendario. Se poi tali
motivi siano veri, sufficienti e proporzionati, ovviamente può solo essere
valutato caso per caso; ne parleremo in altra sede, premendo qui anzitutto la
questione di principio.
In effetti, devo dire, mi sembra che
l'idea di Tradizione soggiacente a tutto il discorso di controparte sia poco
conciliabile con lo sviluppo dogmatico in sé, ancorché omogeneo; ma questo
forse si deve al fatto che vuole rappresentare una posizione comune a / neutra
fra cattolici e ortodossi. Di certo, esso menziona solo i cambiamenti della “mentalità
teologica”, dimenticando che la Chiesa ne conosce di ben più importanti...
e che già ab antiquo essi hanno comportato mutamenti nella Liturgia: se
il Filioque entra nel Credo tra l'età carolingia e l'inizio del
sec. XI,[10] lo stesso Canone Romano pare
rechi tuttora traccia di un antico ampliamento, databile al V sec., volto a
contrastare l'eresia predestinazionista.[11]
Anche tenuto conto dello sviluppo del
dogma, però, resta l'ultima obiezione, senz'altro di indubbio peso: “l'intendimento
dei Padri è che la tradizione liturgica apostolica fonda la dottrina”.
Nessun dubbio, del resto, che la citazione di Prospero d'Aquitania sia
corretta.
Qui il problema, a mio avviso, sta proprio
nel concetto di Tradizione.
Nella dogmatica cattolica (ma suppongo che
gli altri, alla fin fine, dicano le stesse cose in modo diverso), si parla di
Tradizione: a) inesiva, che tramanda di generazione in
generazione l'autentico senso spirituale delle Scritture; b) costitutiva,
ossia l'insieme delle verità rivelate ma non incluse nel NT, a cominciare dallo
stesso canone biblico; c) divino-apostolica ossia risalente agli
Apostoli e riguardante elementi rivelati (dunque inesiva o costitutiva); d)
umano-apostolica, con cui cioè gli Apostoli non hanno imposto che precetti
contingenti e mutabili, anche se talvolta accolti nelle Scritture, p.es.
l'astensione dal sangue degli animali o dal mangiare carni immolate agli idoli;
e) semplicemente umana, perché subapostolica, accezione che tende
già a sfumare nella semplice consuetudine.
Ora, solo la Tradizione
divino-apostolica fonda il dogma. Appunto perché deve essere creduto per
Fede solo ciò che è stato divinamente rivelato prima della morte dell'ultimo
Apostolo.
Ciò posto, è piuttosto evidente che
l'origine apostolica potrà predicarsi, semmai, di quei soli elementi testuali o
cerimoniali che sono comuni a tutti i riti accettati nella Chiesa;[12] quelle specifiche del singolo
rito, anche se per avventura risalissero davvero all'Apostolo da cui esso trae
origine, non potrebbero comunque essere ascritte alla Tradizione
divino-apostolica.
Certamente, oltre alle singole norme,
esistono i princìpi generali, a partire dall'esistenza stessa di cerimonie
esteriori: sono princìpi che si possono sostanzialmente considerare di diritto
divino, perché o sono comuni a tutti i culti, anche meramente naturali, oppure
esprimono caratteristiche proprie del culto cristiano. Ad es., l'uso di vesti
sacre era ben noto anche ai pagani ed esprime la consapevolezza della speciale
funzione che si è chiamati ad assolvere; nel culto cristiano, però assume anche
il significato ascetico di un “dover essere” legato all'interiorità della
persona di chi le indossa (e quest'elemento, al di là dei tipi di indumento o
della varietà di significati simbolici, per quanto ne so è comune a tutti i
riti). Resta, però, che la grande maggioranza delle prescrizioni liturgiche
appartengono alla tradizione umana, anche quando siano plurisecolari.
Con questo non intendo dire che non
abbiano importanza per la dottrina, ci mancherebbe altro: la genuflessione alla
Consacrazione è un esempio lampante... ma anche raro. Nella generalità dei
casi, invece, il cambiamento di queste norme non ha particolare rilievo per il dogma;
comporta, però, un cambiamento nella teologia, perché, nel corso dei
secoli, da esse gli autori hanno tratto spunto per le considerazioni più
disparate, dall'interpretazione allegorizzante dei riti all'omiletica, senza
escludere temi propriamente dottrinali, non però come vera prova del dogma. E
le teologie sono, in seno alla Chiesa, tanto molteplici quanto mutevoli.
Il cambiamento, dunque, per lo più non
crea tanto problemi dottrinali in sé – non in senso stretto, almeno - ma
problemi di scandalo del popolo che, molto più sensibile al linguaggio dei riti
che a quello dei laureati, facilmente rischia di pensare “Prima si faceva
così, ora cosà... dunque prima sbagliavamo! Dunque la Chiesa sbaglia!”.
Naturalmente, quanto più stretta la connessione del testo o della cerimonia con
una verità di ordine dogmatico, tanto maggiore il rischio. Ma se si può
accettare come direttiva di ordine pratico un invito pressante a non cambiare
nulla, o meglio a procedere con la massima prudenza e circospezione, occorre
però ammettere che, in linea di principio, il cambiamento è possibile.
Dicendo possibile, non intendo
affatto dire opportuno e, a rigore, nemmeno lecito. Ma queste
valutazioni appartengono già ad un'altra fase, quella dei giudizi sul caso
concreto.
Genova, li 25 luglio 2020
[1] Cfr. L. Billot, Tractatus
de Ecclesia Christi sive continuatio theologiae de Verbo Incarnato, tomo I
– De credibilitate Ecclesiae, et de intima ejus consttutione, Prato
1909, pagg. 466-71, specialmente pagg. 469-70: «De infallibilitate autem in rebus disciplinae breviter notandum
quod tota est sita in hoc, quod ex Spiritu Sancti assistentia habet suprema
Ecclesiae auctoritas ut nunquam possit condere leges quae revelatis regulis
fidei et morum sint quomodolibet oppositae. […] Nunc autem leges disciplinares
sunt quaedam socialia principia per quae suum influxum in propria membra
exserit Ecclesia. Si igitur necesse est ut ipsa sit sancta sanctitate
principiorum, fieri nunquam poterit ut disciplina ab ea constituta et probata
contrarietur regulis fidei et quibuslibet normis in evangelio praestitutis. Ex
quo manifeste sequitur Ecclesiam esse infallibilem in statuenda disciplina,
sumendo nunc infallibilitatem in sensu paulo supra declarato. — Accedit quod ex
verbis Christi, Matth.
XXVIII-20, non minus infallibilis exhibetur Ecclesia in concreta et practica
interpretatione revelationis, quam in eius interpretatione dogmatica».
[2] Cfr. Melchor Cano, De locis theologicis,
Madrid 2006, pag. 205 (Lib. V, Cap. V, secunda conclusio): pur avendo
detto «Ecclesiam, cum in re gravi quidem et quae ad
Christianos mores formandos apprime conducat, leges toti populo dicit, non
posse iubere quicquam, quod aut evangelio aut rationi naturae contrarium sit. -
Non ergo hic
omnes ecclesiae leges approbo, non universas poenas, censuras, excommunicationes, suspensiones,
irregularitates, interdicta commendo. Scio nonnullas eiusmodi leges esse, in
quibus si non aliud praeterea quicquam, at prudentiam certe modumque desideres.
[…] Deinde ecclesia non potest definire quippiam esse vitium quod honestum est,
aut contra honestum esse quod est turpe: ergo nec sua edita lege probare
quicquam, quod evangelio rationive inimicum sit. […] Quare quemadmodum
concilium falsa plebi credenda proponere nequit, sic nec mala potest proponere
facienda. Proponere, inquam, firmo certoque decreto, quo omnes ad credendum
et ad faciendum sub aeterna poena obligentur.». E alla tertia conclusio
(pag. 207) ammonisce: «Nunc illud breviter dici potest, qui summi Pontificis
omne de re quacumque iudicium temere ac sine delectu defendunt, hos sedis
apostolicae auctoritatem labefactare, non fovere; evertere, non firmare.».
[3] Quest'ultimo è un evidente caso di legge inopportuna, tema che
però – e me ne scuso con i lettori – debbo rimandare ad altra sede, poiché qui
pretenderebbe troppo spazio.
[4] Per quest'ultimo punto, cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede,
Nota
dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei,
29 giugno 1988, n. 9, testo e nt. 17.
[5] Nota però soltanto con l'incipit latino, Laetentur
caeli. Non è privo di significato che il testo gemello sia stato letto da
Giuliano Cesarini, Cardinale del titolo di S. Angelo, ma soprattutto, fino a
poco tempo prima, guida e anima morale del Concilio di Basilea nella sua lotta
contro Eugenio IV, ora invece convertitosi a fermo assertore del Primato
pontificio, proprio grazie alle discussioni dottrinali con i Greci e
all'approfondimento delle testimonianze che la Chiesa del primo millennio
poteva e può offrire al riguardo.
[6] Infatti, fa sempre parte della definizione,
perché ne dipende sintatticamente in quanto subordinata implicita, anche
l'opportuna aggiunta esplicativa: “dichiarando [Noi] che quello che
affermano i santi Dottori e Padri – che lo Spirito Santo procede dal Padre per
mezzo del Figlio – tende a far comprendere che anche il Figlio è causa, secondo
i Greci, principio, secondo i Latini (secundum Graecos quidem causam,
secundum Latinos vero principium), della sussistenza dello Spirito Santo.”.
[7] Riprendo la trad. it. di TotusTuus; per il testo
latino delle definizioni, cfr. Denz. 1300-02. Gli originali della bolla,
tuttora conservati a Firenze, nella Biblioteca Medicea Laurenziana, all'interno
della cassetta
d'argento appositamente donata dal Card. Cesarini, sono pubblicamente
visionabili in riproduzione digitale sul sito della veneranda istituzione.
[8] Legitimus, in latino, non ha il significato dell'omologo
italiano e vale invece “secondo la legge”, “a norma di legge”; nel linguaggio
ecclesiastico e canonico, poi, la liceità attiene alla sfera morale,
mentre la ragionevolezza è requisito di ogni norma canonica. Il Concilio
di Firenze sta affermando, dunque, che il mutamento del Credo è avvenuto
a) senza che si commettesse peccato, b) da parte di chi ne aveva
l'autorità, c) in termini oggettivamente corretti e d)
effettivamente atti ad assicurare un bene comune maggiore di quello sacrificato
con il cambiamento stesso.
[9] Concilio Ecumenico
Fiorentino, Decretum pro Armenis, 22 novembre 1439: “Perché, dunque,
nella celebrazione di cosi grandi solennità il rito dei cristiani non sia
diverso e non si dia occasione di turbare la carità, stabiliamo, conforme alla
verità e alla ragione, che, secondo l'uso di tutto il resto del mondo, anche
gli Armeni debbano solennemente celebrare la festa dell'annunciazione della
beata vergine Maria il 25 marzo; la natività di S. Giovanni Battista, il 24
giugno; la nascita carnale del nostro Salvatore, il 25 dicembre; la sua
circoncisione, il primo gennaio; l'epifania, il 6 dello stesso mese; la
presentazione del Signore al tempio, cioè la purificazione della madre di Dio,
il 2 febbraio.”. Tralascio
la modifica al rito cipriota, dove si è proibito per l'avvenire di aggiungere
olio all'Eucarestia, perché riguarda un problema di possibile invalidità del
Sacramento.
[10] Fenomeno in larga misura indipendente dall'autorità papale, per
giunta. Quanto poi alla sua inclusione in una professione di fede, si trova già
nel Concilio di Toledo del 633 (Denz.
645-6).
[11] “Nella Preghiera eucaristica romana, tanto nel Messale di Pio
V, quanto in quello di Paolo VI, ad ogni Giovedì Santo, direttamente prima
della Consacrazione, è sottolineato che Cristo, 'prima che patisse per la
nostra e la salvezza di tutti', compì il Sacrificio eucaristico (Qui
pridie, quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit
panem […]). Il Sacrificio della Croce avviene per questo, anche secondo il
Messale di Pio V, 'per noi e per tutti'. Il detto ampliamento del Qui
pridie appartiene nel rito ambrosiano addirittura alla parte ordinaria del
testo. Presumibilmente essa risale al V sec., per combattere il
predestinazionismo (secondo cui Cristo ha patito solo per gli eletti); più
tardi essa scomparve, salvo nella Messa del Giovedì Santo.”. M. Hauke, “Versato per molti”. Studio
per una fedele traduzione del pro multis nelle parole della
consacrazione, Siena 2008, pag. 46 (riferimenti in nota).
[12] Non pretendo certo di possedere quella conoscenza enciclopedica
della Liturgia che sarebbe necessaria per intraprendere un'indagine del genere;
se dovessi azzardare un'ipotesi, visto che non ho mai sentito parlare di un
rito che non lo preveda, penserei ad un'origine apostolica per l'uso
dell'incenso. Resterebbe però da vedere se divino- oppure umano-apostolica.
Purtroppo nelle analisi sulla "tradizione" si confonde troppo spesso tradizione come trasmissione nei secoli di quanto Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto chiaramente di fare (quando pregate..pregate così, fate questo in memoria di me, andate e predicate il vangelo) con la tradizione in senso antropologico e sociologico, ossia gli usi e costumi. Questi ultimi variano nel tempo (Consacrazione di nostro Signore in lingua aramaica, poi greca, poi latina, poi armena, ecc.) oppure la forma dell'ìabito liturgico. Vi è purtroppop nel concetto di tradizione una contaminazione forte del senso sociologico con quello evangelico. La tradizione non è la S. Messa in latino, perchè anche quella di San Paolo Vi è in lingua latina ed è concessa la lingua del popolo. La S.Messa riformata da san Giovanni XXIII nel 1962 è la "Lex orandi" che trae origine da San Pio V,, ma è una Lex, ossia forma, non è la sostanza,La sostaza della S. messa è nella consacrazione, questa non varia, perchè ripete le parole di nostro Signore all'ultima cena, come si può constatare nei messali da me visualizzati dal XV secolo in poi. La riforma di san Pio V era necessaria per dare unità ad una Chiesa vittima dei riformati. Ma la Chiesa è una e la sua unità è espressa dal Papa, felicemente regnante e non da gruppi, gruppetti, pseudo esperti di liturgia o affezionati a pizzi e merletti nelle forme barocche dei riti. I papi san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno riconsociuto che la forma orandi può essere quella del Missale romanum del 1962 o quella detta di san Paolo VI. I cattolici non possono allontarsi dalla sede principe apostolica, finiscono nello scisma e facilmente nell'eresia. Nessuno può senza consenso del papa celebrare la S. messa con un Missale difforme a quello del 1962. Infine, in un mondo che combatte la Chiesa Cattolica, forse, ma direi necessariamente, il bene dell'unità nella S. messa diventa esiziale. Le piccole diatribe da "chierichetti" non servono a nulla; quelle poi dei chirichetti troppo cresciuti è meglio lasciarle stare. Il compito della tradizione è ben chiaro nell'Evangelo, diffo ndiamolo anzichè chiudersi in cappelle o in distribe se si possa o meno celebrare la S. messa senza la patena oppure no. O,è ancora peggio, disprezzare coloro che seguaono il ritor di San paolo VI con la saccenza e la supponenza tipica dei settari. Salviguardare il bene della Chiesa, la sua unità e la fede in varietate rituumm non è male, purche salda sia la fede, la speranza e la carità. Del resto pizzi, pianete consunte, invenzioni rituali e persino abusi come quello di indossare dalmatiche o tunicelle e partecipare a "S. messe in terzo" non essendo chierici, lasciamoli a chi come nel 1968 fa gruppetto e non chiesa.
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