Su un commento sulla figura mons. Gromier e il suo contributo alla riforma della Settimana Santa, si veda anche qui, il post di Aurelio Porfiri.
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La Settimana Santa
I riti della Settimana Santa - con i loro magnifici canti gregoriani, profonde preghiere, un simbolismo denso e un cerimoniale elaborato - si sono sviluppati lungo un arco di tempo plurisecolare, a partire dall’antichità fino al Medioevo. Gli elementi centrali di tali riti derivavano
Tragicamente, Pio XII si lasciò persuadere della necessità di una “revisione” della Settimana Santa, un tempo liturgico che non aveva conosciuto alcun cambiamento notevole per oltre 500 anni. Con la scusa di “ripristinare ai loro orari originali” le cerimonie del Triduo Sacro, tutta la Settimana Santa cadde sotto la lente della Commissione Piana - una sorta di prova generale per il futuro Consilium - e così la Domenica delle Palme, il Venerdì Santo e la Veglia Pasquale subirono modifiche di una magnitudine senza precedenti nella storia della Chiesa latina[2]. Nel 1951, Pio XII inaugurò una Veglia Pasquale sperimentale, e nel 1955 promulgò i nuovi riti liturgici per il resto della Settimana Santa. Per questo spesso si sente chiamare la vecchia Settimana Santa (cioè quella tridentina), la “Settimana Santa pre-1955”. Ricordo ancora distintamente la prima volta che ho partecipato a una intera Settimana Santa pre-1955. Mi aspettavo di esserne impressionato; ma ne sono rimasto stupefatto. Mi aspettavo di uscirne sbalordito; e mi ha lasciato folgorato, e al contempo stimolato.
La Domenica delle Palme
L’antica liturgia della Domenica delle Palme incomincia con la c.d. Missa Sicca (o “Messa secca”), che prevede una Epistola, un Graduale e un Vangelo, e poi un Prefazio che introduce la benedizione delle palme - tutto ciò, badate, prima ancora della processione con le palme, dell’ingresso in chiesa dopo aver bussato sulla porta con la croce astile, e dunque la Messa del giorno, con il canto della Passione secondo Matteo. La prima preghiera di benedizione dopo il Prefazio ha una sorprendente affinità con la Consacrazione Eucaristica:
Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, degnati di benedire ✠ e santificare ✠ questi germogli d'olivo, che facesti germinare dal legno e che la colomba al suo ritorno nell'arca portò nel becco; cosicché chiunque ne riceverà, ottenga protezione per l’anima e per il corpo; e questo sacramento della tua grazia divenga, o Signore, rimedio della nostra salute.
Questa preghiera è in qualche modo rappresentativa dell’intera liturgia della Domenica delle Palme.
Il Giovedì Santo
Nel Giovedì Santo pre-1955, una cosa che mi è apparsa subito abbastanza nuova era l’omissione della Lavanda dei Piedi (o Mandatum), una cerimonia che si è inserita nella Messa solo a metà del XX secolo, causando un profluvio di dibattiti e distrazioni. In realtà, la Lavanda veniva celebrata come una paraliturgia successiva alla Messa, al piano inferiore della chiesa, dove era stato allestito un altare temporaneo sormontato da candele. Dopo che gli altari del piano superiore erano stati spogliati dei sacri lini, a imitazione dell’umiliazione patita da Cristo durante la Passione, tutti scendevano al piano di sotto. Qui, tredici uomini si sedevano in fila (ricordo che un Sacerdote dell’Istituto Cristo Re spiegò, durante una predica, che questo numero derivava da una visione di Papa San Gregorio Magno). Il sacerdote, il diacono e il suddiacono entravano, insieme agli accoliti. La cerimonia iniziava con il canto solenne del Vangelo, dopo di che il sacerdote indossava un grembiule (o “gremiale”) e lavava i piedi ai tredici uomini mentre il coro eseguiva il canto Ubi caritas. Terminato, il sacerdote tornava all’altare, cantava un certo numero di versetti sacri, il Padre Nostro e infine una Colletta; dopodiché, fatto un inchino, tutti uscivano. Celebrare la Lavanda da sola e dopo la Messa le conferisce un posto e una dignità speciali; in questo modo, ci si può concentrare più direttamente su questa lezione di umiltà, la lezione del superiore che serve l’inferiore. Si accorda anche meglio all’idea che prima di tuttoadoriamo Dio, per amor Suo, e poi, con la Sua grazia, andiamo nel mondo ad amare gli altri uomini, fatti a Sua immagine.
Il Venerdì Santo
Il Venerdì Santo pre-1955 si apre con il canto di due Letture e di due Tratti, che permettono ai fedeli di entrare lentamente e delicatamente all’interno dell’immenso mistero che si celebra in questo giorno. Poi il sacerdote, il diacono e il suddiacono cantano la Passione, in cui domina e conduce la melodia in tono basso, la voce di Cristo; poi il narratore, con i suoi interventi intermittenti e pragmatici; e infine quel tono acuto e inquietante di chi presta la voce a Pietro, a Pilato, ai Giudei, alla folla e a ogni altro personaggio losco. Finita la Passio, i lettori si separano e il diacono canta il Vangelo “proprio” del giorno in un tono speciale, che racconta la sepoltura di Cristo.
Dopo le c.d. Grandi Intercessioni (o Preghiera Universale), ha luogo la venerazione della Croce, che incomincia con una processione dei ministri che, scalzi, genuflettono tre volte nel percorso verso il presbiterio: la prima volta, all’estremità opposta della Chiesa; una seconda volta in mezzo alla navata; e un’ultima volta proprio davanti alla Croce, che giace su un cuscino, come un sovrano orientale adagiato sul suo sofà. Il canto degli Improperia e dell’inno Crux fidelis accompagna la lenta processione dei fedeli; ed è un bene anche per noi che questo bel rito richieda i suoi tempi: esso brucia come incenso prezioso il nostro “prezioso” tempo.
L’aspetto più strano della venerabile liturgia del Venerdì Santo è il modo in cui viene trattata la Santissima Eucaristia. Solo un’Ostia magna è rimasta dalla sera precedente. L’Ostia, velata, viene portata in processione sulle potenti note del Vexilla Regis. Il sacerdote incensa il Santissimo Sacramento e poi depone l’Ostia sul caporale; prepara il calice con il vino e con l’acqua; incensa le oblate e l’altare; si lava le mani; e dunque dice l’Orate Fratres: “Pregate, fratelli, affinché il mio sacrificio e il vostro siano accettabili per Dio Padre Onnipotente” - ma non riceve alcuna risposta. Canta la Preghiera del Signore nel tono feriale, fa cadere un frammento dell’Ostia nel vino non consacrato, eleva l’Ostia con una sola mano perché tutti La possano vedere e adorare, e poi La consuma recitando le consuete preghiere, che invece omette quando beve il vino dal calice.
I riti del Venerdì Santo simboleggiano i diversi momenti della Passione. Come Cristo venne catturato e condotto davanti al tribunale, così l’Ostia viene portata fuori dall’altare in cui era stata riposta; come Cristo venne innalzato sul Calvario, così l’Ostia viene sollevata in alto; e come Cristo fu deposto dalla croce e collocato nel sepolcro, così l’Ostia è consumata dal solo sacerdote. In modo quasi brusco, la liturgia si conclude con l’inchino del sacerdote verso l’altare e con la sua uscita silenziosa dal presbiterio. Per quanto la si cerchi, la Presenza Reale di Cristo nel Santissimo Sacramento non si trova più: né nella chiesa, né nel tabernacolo, né sull’altare e nemmeno nei fedeli: Lui se ne è andato. In questo momento, la desolazione del Venerdì Santo ha raggiunto il suo apice; il Figlio ha messo in atto la sua resa totale, e noi attendiamo la Risurrezione e il rinnovarsi del glorioso sacrificio della Messa. Solo il sacerdote riceve la Comunione; per tutti gli altri, al centro della scena è l’Adorazione della Croce. Gli accoliti, il diacono e il suddiacono, i fedeli, tutti loro comunicano al mistero della Croce: è Lei che “sostituisce” la Santa Comunione, al Venerdì Santo. Certo, incontriamo il mistero della Croce ogni volta che riceviamo l’Eucaristia; ma i veli del pane e del vino possono distrarci, in un certo senso, dalla nostra unione con la morte di Cristo. Una volta all’anno, il Venerdì Santo fa risaltare visibilmente la Croce: è la Croce il segno sacro che tocchiamo e baciamo[3]. Nella sua elaborazione medievale, codificata nel rito tridentino, il Venerdì Santo è l’unico giorno dell’anno in cui riviviamo realmente quella stessa desolazione vissuta dalla Vergine Maria e dagli apostoli; e qual modo migliore di far ciò avrebbe potuto trovare la Chiesa che privarci, in questo giorno, della comunione sacramentale? Colui che è morto ed è stato posto nella tomba è oggi separato da noi. Così, la liturgia concentra la nostra adorazione sulla Croce salutifera, con la quale Egli ha conquistato la nostra salvezza, e ci porta a pregare per i bisogni della Chiesa e del mondo intero.
La liturgia del Venerdì Santo è molto più simile a una Messa di quanto lo sia l’esaltata Actio Liturgica, con distribuzione della Santa Comunione, di Pio XII, o anche il suo successivo rimpiazzo nel Novus Ordo; tuttavia, ha il sapore di una Messa tragicamente incompleta, si potrebbe persino dire di una Messa “vuota”. All’inizio, le Letture e i lunghi Tratti sono intonati senza nulla che li preceda; alla fine, il sacerdote riceve in silenzio l’Ostia - e poi la liturgia si interrompe, quasi fosse stata decapitata, come una tragedia interrotta a metà dell’atto, senza dare agli attori il tempo di finire le loro battute, la trama lasciata in sospeso. Per quanto Gesù dica, nel Vangelo: “Tutto è compiuto”, la liturgia trasmette forte il sentimento che “tutto è incompiuto”. Questo mi sembra un meraviglioso paradosso tipicamente liturgico: proprio nel giorno che ci pone davanti all’evento storico con cui si è oggettivamente compiuta la nostra Redenzione, la stessa liturgia, attraverso cui ci uniamo soggettivamente a Cristo, si permette di avere il massimo carattere di incompletezza. Tutti i cambiamenti dagli anni ‘50 in poi hanno notevolmente minimizzato quanto sorprendentemente diversa dovesse essere la sensazione trasmessa da questo giorno, come rappresentazione vivente (“vivax repraesentatio”) di quel giorno in cui dal massimo disordine scaturì il ripristino dell’ordine infranto dal peccato di Adamo.
La Settimana Santa di Pio XII “sfoltisce” le Passioni secondo Matteo, Marco e Luca eliminando i racconti dell’Istituzione dell’Eucarestia. In questo modo, i resoconti sinottici di questo evento non ricorrono mai nell’anno liturgico del messale del 1962[4]. Se a questo aggiungiamo la radicale riprogettazione delle cerimonie del Venerdì Santo, che deliberatamente elimina o minimizza tutto quanto imita il rito della Messa, come può tutto ciò non esprimere un radicale divorzio tra l’Istituzione dell’Eucaristia e il Sacrificio della Croce?
La Veglia Pasquale
La Veglia Pasquale pre-1955 ha del sublime. Quelle del ‘55 e del ‘69 danno piuttosto l’impressione di una raccolta arbitraria di rituali. Nella Veglia Pasquale tridentina, questi rituali si fondono in un singolo atto di culto unitario, come un uomo che cammina, passo dopo passo, verso un determinato obiettivo. Potente ricapitolazione di tutti i misteri del cristianesimo, dall’intima natura di Dio alla rivelazione della Ss. Trinità, dall’incarnazione del Verbo alla Redenzione nel sangue e alla gloriosa Risurrezione, la Veglia antica ha in sé una maestà, una serie crescente di simboli che si mescolano ma non si confondono, che le orazioni, le letture e le cerimonie conducono avanti secondo un ritmo maestoso e piacevole: il fuoco, l’candela, la acqua, a cui si rivolgono parole cariche di potere, pronunciate con autorità. La Chiesa prende il comando dei rudimenti della creazione e, letteralmente,ordina loro di servire Cristo per la salvezza delle anime.
Innestate alla liturgia troviamo due cerimonie che ricordano una Messa secca (“missa sicca”): anzitutto, un Prefazio, preceduto dal consueto dialogo, che precede la consacrazione del Cero; poi, la medesima struttura si ripete per la consacrazione dell’acqua. In entrambi i casi, partiamo da elementi materiali e li mettiamo da parte per Dio, chiedendogli di renderli, in un certo senso, Sé stesso: di renderli sacramenti, o segni sacri della Sua grazia.
La liturgia inizia fuori dalla chiesa con la benedizione del fuoco: non del cero, ma solo del fuoco stesso, simbolo dell’eterna natura divina. Da questo fuoco si accende il trikirion, un candeliere a tre braccia ricco di diversi simbolismi: rappresenta anzitutto la Ss. Trinità; ma anche la progressiva rivelazione della Trinità nella storia della salvezza, dal momento che le candele del trikirion vengono accese una ad una durante la processione verso il presbiterio; o anche i tre giorni passati da Cristo nel sepolcro, e le tre Marie che si avvicinano alla tomba il giorno di Pasqua. Questa canna rappresenta poi il serpente di bronzo che Mosè scolpì e mise sopra un’asta per guarire gli Israeliti nel deserto. La processione culmina nell’Exsultet, il cui testo ha un senso solamente nel contesto precedente alle riforme piane, in cui le varie azioni descritte nell’Exsultet vengono effettivamente eseguite al momento corrispondente sul cero pasquale. Il diacono inserisce i cinque grani di incenso nel cero, simbolo dell’“Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Ap 13, 8), per poi accenderlo attingendo da una delle tre candele del trikirion: la seconda Persona della Ss. Trinità si incarna per salvarci. Da questo momento in poi, ogni luce e fiamma nella chiesa viene tratta dal cero pasquale.
Le dodici Profezie si caratterizzano per una convincente direzionalità. Esse trattano dell’acqua, della luce, del fuoco e del sacrificio, con un tema di fondo che è quello del resistere e sconfiggere il diavolo (tema reso esplicito nelle preghiere che circondano la benedizione del fonte battesimale). La prima metà circa di esse si incardina sulle maggiori figure dell’antico testamento: Adamo, Noè, Abramo, Mosè, e un accenno a Re Davide. La seconda metà passa invece alla chiamata di Israele, l’antico e il nuovo. L’ultima lettura è il racconto tratto dal libro del Profeta Daniele dei tre giovani, Sidrach, Misach e Abdenago, che si rifiutarono di adorare il gigantesco idolo di Nabuchodonosor e vennero gettati nella fornace ardente. Viene cantata in un tono speciale, sorprendentemente lirico e gioioso. Poi, l’antifona Sicut cervus ha perfettamente senso come accompagnamento alla processione che si porta dal presbiterio al battistero, o al fonte battesimale in fondo alla chiesa: “Come il cervo anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a Te, o mio Dio”. Dopo aver ascoltato tutte queste Profezie, è giunto il tempo di rendere realmente e sostanzialmente presenti quanto esse promettono, nell’acqua rigenerante del battesimo, così che dei nuovi cristiani possano essere sepolti e resuscitati con Cristo. Se nella cerimonia di Pio XII l’acqua da benedire viene curiosamente posta nel bel mezzo del presbiterio, in modo che non può svolgersi alcuna processione al battistero, nel rito pre-1955, la processione solenne al fonte, aperta dal cero pasquale, rende chiaro che quel cero è la colonna di fuoco che conduce verso il Mar Rosso, e che Israele sta per essere liberato dalla schiavitù egizia passando attraverso le acque dispensatrici di morte e donatrici di vita.
La liturgia nel suo complesso è caratterizzata da molte deliziose “irregolarità”, come il canto di un triplice Alleluia seguito da un Verso e da un Tratto (!), nessuna antifona d’Offertorio, nessun Agnus Dei e, al posto di un’antifona di Comunione, dei Vespri troncati conclusi con un Magnificat. Proprio come con le irregolarità del Venerdì Santo, tali caratteristiche fanno percepire distintamente la verità che questa liturgia è diversa da tutte le altre. Questa sua stranezza è uno stimolo ad una più profonda partecipazione interiore. Potrebbe lasciare confusi i fedeli? Sì, certo: ed è un bene. Il duello mortale tra la Vita e la Morte non è una merenda tra amici. La vecchia Veglia Pasquale è un ricco inno di lode alla forza di Dio che si rivela nella creazione del mondo, nella creazione del vecchio Israele e nella creazione del nuovo Israele; è dotata di un respiro cosmico, di una prospettiva storica e di una immersione nel mistero come non se ne trovano da nessun’altra parte nell’anno liturgico. Tutte le sue parti sono perfettamente interconnesse, senza quegli imbarazzanti momenti in cui si passa in modo disorganico da un rituale all’altro, senza quelle cesure cerimoniali così tipiche del lavoro dei comitati vaticani dopo il 1948.
La Veglia Pasquale pre-1955 può ben definirsi, in effetti, la punta di diamante del rito tridentino. Proprio come per la Domenica delle Palme e il Venerdì Santo, rimango esterrefatto che un qualsivoglia riformatore possa aver osato mettere le mani su un così perfetto connubio tra arte e teologia. Quasi tutto ciò che ho appena descritto - quasi tutto! - è stato ridotto in macerie o riconfigurato in un modo nuovo. Mi ha detto una volta un amico sacerdote, che ha celebrato entrambe le forme della Settimana Santa (pre e post 1955): “Le antiche liturgie sono coerenti in quanto contengono e quando lo presentano; le nuove versioni sono spezzettate e caotiche” [5]. Nel movimento per reintegrare la tradizione nella Chiesa cattolica, recuperare la vecchia Settimana Santa e ridarle la dovuta preminenza è un compito di primaria importanza.