Il dibattito sul salario minimo in Italia è tornato al centro dell’agenda politica a seguito del referendum popolare promosso dai partiti d’opposizione e che ha già raccolto 500mila firme. E che ha suscitato un acceso confronto tra chi ne sostiene l’introduzione (le Sinistre) e chi la considera una misura inefficace, se non addirittura dannosa (i partiti di Governo e di matrice liberista). L’attuale iter parlamentare della riforma ha visto diverse proposte in discussione, con la Commissione Lavoro della Camera che ha recentemente avviato l’esame di un disegno di legge volto a fissare una soglia minima retributiva. Parallelamente, il Senato valuta un’altra proposta che si affida alla contrattazione collettiva per definire i trattamenti economici minimi. Cerchiamo di fare il punto con Giampiero Gogliettino, giuslavorista cattolico e membro della commissione scientifica della Fondazione Einaudi.
Lo spiegone. Sulla riforma del salario minimo le posizioni politiche si sono polarizzate. Le forze di opposizione, in particolare il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, sostengono con forza l’introduzione del salario minimo legale come strumento per contrastare il fenomeno del "lavoro povero" e garantire una retribuzione dignitosa a tutti i lavoratori. Dall’altro lato, il centrodestra e il governo Meloni ritengono che una soglia retributiva imposta per legge possa risultare inefficace e controproducente, rischiando di danneggiare le piccole imprese e di compromettere la contrattazione collettiva. Uno degli argomenti centrali dei contrari alla riforma è che il salario minimo riguarderebbe solo una percentuale ridotta di lavoratori, prevalentemente esclusi dai contratti collettivi firmati dalle grandi sigle sindacali. Un intervento normativo, quindi, avrebbe un impatto minimo sul mercato del lavoro. Inoltre, vi è la preoccupazione che una soglia minima legale possa generare un appiattimento salariale, con il rischio che le aziende smettano di riconoscere aumenti al di sopra del minimo stabilito.
Il parere. La pensa diversamente Giampiero Gogliettino, giuslavorista e componente scientifico della Fondazione Luigi Einaudi. Nel suo recente articolo su Il Riformista, sottolinea come la questione non possa essere ridotta a una semplice battaglia ideologica. La funzione del salario – ribadisce –non è solo quella di remunerare il lavoro svolto, ma anche di garantire al lavoratore e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa, in linea con i principi della Costituzione. Ma anche (afferma a voce) con quanto insegna la Dottrina Sociale della Chiesa, che prende le distanze dalle derive del socialismo quanto quelle del liberismo.
«La determinazione del salario minimo, quale fattore di garanzia della giusta retribuzione, può non considerarsi materia riservata al legislatore, ma va lasciata all’azione sindacale e alle dinamiche della contrattazione collettiva, significativamente diffusa nel nostro Paese», afferma su Economy. Uno dei nodi centrali del suo ragionamento riguarda la natura dei contratti collettivi. «Contrariamente a quanto spesso si crede – ci racconta al telefono – questi non hanno forza di legge, ma sono contratti di diritto comune, vincolanti solo per le parti firmatarie». In altre parole, sarebbe a dire che un datore di lavoro può decidere di non applicare il trattamento economico stabilito da un contratto collettivo, salvo interventi giurisprudenziali. «Non a caso – ci ricorda –, recentemente la Cassazione e le procure sono intervenute in numerosi casi di sfruttamento del lavoro, come dimostrano le vicende di Mondialpol, Sicurpol ed Esselunga, evidenziando la necessità di un quadro normativo più solido».
L’approccio proposto da Gogliettino non si limita all'introduzione di un salario minimo tout court, ma punta a una riforma più strutturata che rafforzi il ruolo della contrattazione collettiva attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale. Un simile intervento avrebbe un duplice vantaggio: da un lato, garantirebbe la certezza del diritto e la piena applicazione dei contratti collettivi più rappresentativi, dall'altro, consentirebbe di differenziare il trattamento economico minimo in base alle realtà territoriali e al costo della vita locale. Insomma, «in uno Stato democratico, liberale e riformista – come affermato su La Stampa – la definizione del salario minimo non può essere materia riservata al legislatore ma, inevitabilmente, è prerogativa delle parti sociali, tanto più in un mercato del lavoro come quello italiano, storicamente incentrato su un sistema di relazioni industriali e contrattazione collettiva».
Le nostre considerazioni. L’idea di un sistema di contrattazione decentrato, che contemperi la giusta remunerazione con le specificità economiche di ciascun territorio e di ciascun ambito, si avvicina a una concezione del lavoro che non si esaurisce in una dinamica puramente economica ed utilitarista, ma riconosce la centralità della persona e della sua dignità. Una prospettiva che, senza essere esplicitamente richiamata sulla stampa citata, trova punti di contatto con l’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa – da Leone XIII a Pio XI, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II – che hanno sempre sostenuto la necessità di garantire una retribuzione equa senza cadere né nel collettivismo statalista né nel liberismo senza regole.
Il nostro auspicio? Che il salario minimo sia una questione che vada affrontata con responsabilità politica e buon senso, evitando facili slogan e dannose polarizzazioni ideologiche. Il vero obiettivo non deve essere solo l’introduzione di una soglia retributiva, ma la costruzione di un sistema di tutele capace di garantire il diritto a un lavoro dignitoso per tutti. Affinché si possa procedere con il mandato secondo il quale Dio creò l’uomo “ut operaretur”.
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