Vi proponiamo – nella traduzione curata dall’autore (con nostra revisione) – l’articolo di don Claude Barthe, liturgista e cappellano del Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum, pubblicato il 24 dicembre sul sito Res Novae, in cui si espone un articolato excursus storico del complesso rapporto tra l’Episcopato francese e la Troisième Republique sotto i Pontificati di Leone XIII, San Pio X, Benedetto XV e Pio XI
L.V.
Nove mesi prima della lettera enciclica Quas Primas sulla regalità di Cristo (e sul rifiuto dell’ateismo di Stato) di Papa Pio XI dell’11 dicembre 1925, l’Assemblée des cardinaux et archevêques de France l’aveva anticipata condannando la laicità in quanto contraria ai diritti di Dio sulla società. Questo accadde cent’anni fa.
Un Episcopato francese in prevalenza intransigente
La separazione della Chiesa e dello Stato nel 1905 aveva provocato un profondo trauma nell’Episcopato francese, che si sentiva privato allo stesso tempo, oltre che dei propri palazzi, anche di gran parte della sua influenza sociale. Tuttavia, mentre sotto il regime concordatario qualsiasi riunione nazionale era vietata, dopo la Grande Guerra poté organizzarsi liberamente l’Assemblée des cardinaux et archevêques de France¹, con la benedizione di Papa Benedetto XV e poi di Papa Pio XI.
Dal 1919 al 1930, nel periodo che ci interessa, l’Episcopato francese era rimasto delineato dalle nomine che San Pio X aveva fatto dopo la separazione e dalla linea da lui stesso impressa con questi intransigenti in diverso grado, che erano in particolare mons. Joseph-Marie Humbrecht (Arcidiocesi di Besançon), mons. Pierre Florent André du Bois de La Villerabel (Arcidiocesi di Rouen), mons. Joseph-François-Ernest Ricard (Arcidiocesi di Auch), card. François-Virgile Dubillard (Arcidiocesi di Chambéry), mons. Dominique Castellan (Diocesi di Digne), mons. Jacques-Louis Monestès (Arcidiocesi di Digione), card. Louis-Joseph Maurin (Diocedi di Grenoble), mons. Marie-Augustin-Olivier de Durfort de Civrac de Lorge (Arcidiocesi di Poitiers), card. Alexis-Armand Charost (Arcidiocesi di Rennes), mons. Pierre-Eugène-Alexandre Marty (Diocesi di Montauban), card. François-Marie-Anatole de Rovérié de Cabrières (Arcidiocesi di Montpellier), mons. Jean-Baptiste-Etienne-Honoré Penon (Diocesi di Moulins), mons. Henri-Louis-Prosper Bougoüin (Diocesi di Périgueux), mons. Albert Nègre (Arcidiocesi di Tours) e mons. Joseph-Marie-François-Xavier Métreau (Diocesi di Tulle).
Alla morte di San Pio X, l’orientamento dell’Episcopato non si trovava più in linea con quello di Roma, rappresentato dal card. Bonaventura Cerretti, Nunzio apostolico in Francia. Il card. Pietro Gasparri, Segretario di Stato, facendo leva sulla sacra unione suggellata durante la guerra tra Cattolici e Repubblicani, volle fare in modo che venissero integrate le direttive del Ralliement di Papa Leone XIII. In concreto, si trattava di assicurare la ripresa delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica francese e la Santa Sede e di concludere con quest’ultima un compromesso accettando le associazioni diocesane, che fornissero una base giuridica alle Diocesi francesi, contrariamente a San Pio X, che aveva viceversa esortato l’Episcopato a rifiutare le associazioni cultuali (lettera enciclica Maximam gravissimamque in occasione dell’abolizione del Concordato con la Francia del 1924).
La commissione permanente dell’Assemblée des cardinaux et archevêques de France era presieduta dal card. Louis-Henri-Joseph Luçon, Arcivescovo metropolita di Reims, creato Cardinale da San Pio X, segretario ne era mons. Jean-Arthur Chollet, Arcivescovo metropolita di Cambrai dal 1913, entrambi di tendenza intransigente; mons. Chollet era assistito da padre Marie-Albert Janvier O.P., rappresentante dei Cattolici non aderenti alla Terza Repubblica (aveva sbattuto la porta del partito Action libérale populaire di Jacques Piou).
Ma se ci furono tensioni tra l’Assemblée des cardinaux et archevêques de France – l’accettazione della Repubblica era ben lontana dall’esser fatta propria da molti prelati francesi – ed il transigentismo di Roma, esse non ebbero nulla a che vedere con la condanna della separazione e della laicità, ritenute entrambe inaccettabili da Papa Pio XI («riaffermando la condanna dell’iniqua legge di separazione», scrisse Papa Pio XI nella lettera enciclica Maximam gravissimamque).
Nel 1924 la Chambre des députés dominata dal Cartello delle Sinistre succedette a quella del 1919, in cui il Blocco nazionale era largamente maggioritario (detta Camera Blu aviazione, alludendo al colore dell’uniforme di numerosi veterani che vi sedevano). Édouard Herriot del Parti républicain, radical et radical-socialiste, politico tanto colto quanto accorto, nuovo Presidente del Consiglio dei ministri (14 aprile 1924 - 10 aprile 1925), predisponendosi a «rispettare scrupolosamente le leggi laiche», volle rompere di nuovo le relazioni diplomatiche, ricominciare ad espellere le congregazioni, abrogare lo statuto concordatario nell’Alsazia-Lorena sottratta alla Germania e ripristinare le leggi sulla laicità nell’insegnamento.
Senza tener conto della linea scelta da Roma, l’Assemblée des cardinaux et archevêques scelse quella dello scontro.
«Le leggi sulla laicità non sono leggi»
La Déclaration sur les lois dites de laïcité et les mesures à prendre pour les combattre del 10 marzo 1925², preparata da padre Marie-Albert Janvier O.P., teneva certamente conto della lettera enciclica Au milieu des sollicitudes [Presi dagl’impegni incessanti: N.d.T.] di Papa Leone XIII e se la prendeva con le cattive leggi della Repubblica, non con le istituzioni repubblicane. Ma, sul punto relativo alla laicità, essa attaccava di fatto la matrice della Rivoluzione:
Le leggi sulla laicità sono ingiuste prima di tutto perché contrarie ai diritti formali di Dio. Derivano dall’ateismo e ad esso conducono nella sfera individuale, familiare, sociale, politica, nazionale, internazionale. Implicano una totale ignoranza di Nostro Signore Gesù Cristo e del suo Vangelo. Tendono a sostituire al vero Dio degli idoli (la libertà, la solidarietà, l’umanità, la scienza ecc.); a scristianizzare tutte le vite e tutte le istituzioni. Coloro che ne hanno inaugurato il regno, coloro che l’hanno consolidato, esteso, imposto, non avevano altro scopo. Di conseguenza, esse sono opera dell’empietà, che è l’espressione della più colpevole delle ingiustizie, così come la religione cattolica è l’espressione della più alta giustizia.
Ed enumera quattro complessi legislativi della laicizzazione: la legge sulla scuola, che «toglie ai genitori la libertà loro propria» nello stesso momento in cui inganna l’intelligenza dei bambini, perverte la loro volontà, altera la loro coscienza; la legge di Separazione, che priva la Chiesa dei beni, che erano necessari al suo ministero, «senza contare ch’essa comporta la frattura ufficiale, pubblica, scandalosa della società con la Chiesa, la religione e Dio»; la legge sul divorzio, che «autorizza legalmente l’adulterio»; e l’insieme delle disposizioni, che laicizzino gli ospedali e privano i malati del conforto spirituale, esponendoli ad una morte senza sacramenti.
Giunge poi al cuore della questione: disobbedire ad esse non è soltanto un diritto, bensì un dovere.
Le leggi sulla laicità non sono delle leggi. Sono leggi solo di nome, un nome usurpato; non sono altro che corruzioni della legge, violenze piuttosto che norme, dice San Tommaso³ […]. Dopo aver rovinato i principi essenziali su cui poggia la società, esse sono nemiche della vera religione, che ci ordina di riconoscere e di adorare, in ogni ambito, Dio ed il suo Cristo, di aderire al loro insegnamento, di sottometterci ai loro comandamenti, di salvare le nostre anime a qualsiasi costo; non ci è permesso di obbedir loro, noi abbiamo il diritto e il dovere di combatterle e di esigerne, in tutti i modi leciti, l’abrogazione.
I prelati francesi, liberati dai vincoli concordatari, rafforzati dal sacrificio di sacerdoti, religiosi e seminaristi durante la guerra, e non ancora imbrigliati dalla condanna dell’Action française, erano chiaramente combattivi, quasi sovversivi.
Le tattiche possibili sono due, spiegavano. «La prima consisterebbe nell’evitare lo scontro frontale con i legislatori laici; nel cercare di tranquillizzarli e di ottenere che, dopo aver applicato le loro norme in uno spirito di moderazione, finiscano per lasciarle cadere in dimenticanza». Ma ciò presenta – proseguivano – delle conseguenze gravi:
- «lascia le leggi in piedi. Supponendo anche che uno o più ministeri ne usino con benevolenza oppure cessino di usarle contro i Cattolici, è facoltà di un nuovo governo farle uscire dall’oblio». Gli effetti del laicismo sono provvisoriamente attenuati, ma il principio resta. «Si dirà che un atteggiamento conciliante ci è valso qualche favore speciale. Piccoli vantaggi, se si pensa all’immensa corrente di errore che invade le anime e le trascina verso l’apostasia!»;
- «le più dannose di queste leggi sono ancora in vigore, indipendentemente dalle intenzioni dei ministeri succedutisi»;
- «questa politica incoraggia i nostri avversari, che, contando sulla nostra rassegnazione e sulla nostra passività, si abbandonano ogni giorno a nuovi attentati contro la Chiesa».
Era dunque un’altra tattica ad essere promossa, «più militante e più energica». Essa richiedeva che «su qualsiasi terreno, in qualsiasi regione del Paese, si dichiari apertamente ed unanimemente guerra al laicismo ed ai suoi principi fino all’abolizione delle leggi inique che ne derivano», con «tutte le armi legittime», elencate ancora qui in tre punti, come in una buona predica:
- agire sull’opinione pubblica attraverso una propaganda insistente, in particolare attraverso giornali e conferenze ed anche attraverso «manifestazioni all’esterno»;
- agire sui legislatori, essenzialmente votando solo per politici contrari alla laicità. La dichiarazione, riferendosi al parere di «uomini seri», rifiutava la tattica di voto del «male minore», che consisteva, in assenza di un buon candidato, nel votare il candidato ritenuto meno peggio;
- agire sul governo, imitare i manifestanti, che «si recano in massa alle porte dei municipi, delle prefetture, dei ministeri», nel rivolgere a coloro che governano proteste, delegazioni, ultimatum e nello scatenare scioperi.
Una preparazione dei percorsi della lettera enciclica Quas primas sulla regalità di Cristo
La dichiarazione dell’Assemblée des cardinaux et archevêques de France suscitò tempeste alla Chambre des députés. Édouard Herriot interpellato da un deputato del Cartello delle Sinistre circa l’atteggiamento che il governo intendesse assumere, rispose in modo alquanto misurato, ma denunciò in particolare, come fonte ideologica del testo episcopale, la dottrina del Pontificio Seminario francese di Roma, dove si reclutavano in abbondanza i Vescovi di Francia (Édouard Herriot si riferiva al suo superiore Padre Henri Le Floch C.S.Sp., una delle figure di spicco del Cattolicesimo integrale). E soprattutto denunciò l’aspetto più sovversivo del testo dei Vescovi: «La dichiarazione degli Arcivescovi e dei Cardinali non dice affatto che si debba riformare la legge, bensì che si debba violarla».
A Roma, il card. Pietro Gasparri scoprì la dichiarazione dei Cardinali e degli Arcivescovi leggendola sul quotidiano La Croix. Si può immaginare il suo disappunto. Disse al card. Louis-Henri-Joseph Luçon che si rammaricava di non esserne stato informato, deplorando soprattutto il tono «aggressivo» del documento. Tanto il card. Louis-Henri-Joseph Luçon quanto mons. Jean-Arthur Chollet si difesero invocando l’urgenza…
Ma, se la diffidenza di Papa Pio XI nei confronti dei prelati francesi, troppo segnati a suo avviso dallo stile di San Pio X, era evidente, il Papa, che aveva scelto come motto Pax Christi in regno Christi, condivideva pienamente, sul fondo delle cose, la loro condanna della laicità. Nella sua lettera enciclica Ubi arcano Dei consilio sulla questione romana del 1922, affermò che
Regna infine Gesù Cristo «nella società civile» quando vi è riconosciuta e riverita la suprema ed universale sovranità di Dio, con la divina origine ed ordinazione dei poteri sociali […]. È dunque evidente che la vera pace di Cristo non può essere che nel regno di Cristo.
Papa Pio XI riteneva che fosse l’apostasia delle nazioni ad averle condotte al suicidio collettivo della Grande Guerra. La dichiarazione dell’Assemblée des cardinaux et archevêques de France anticipava così i temi della lettera enciclica Quas primas sulla regalità di Cristo, pubblicata nove mesi più tardi, il cui scopo, istituendo una festa annuale di Cristo Re l’ultima domenica d’ottobre, mirava anche alla «peste della nostra età è il così detto laicismo coi suoi errori e e i suoi empi incentivi».
Qualunque sia la forma di governo, aveva detto Papa Leone XIII nella lettera enciclica Immortale Dei e diceva ancora Papa Pio XI,
Ma in qualsiasi tipo di Stato i principi devono soprattutto tener fisso lo sguardo a Dio, sommo reggitore del mondo, e proporsi Lui quale modello e norma nel governo della comunità […] Santo deve dunque essere il nome di Dio per i Principi, i quali tra i loro più sacri doveri devono porre quello di favorire la religione, difenderla con la loro benevolenza, proteggerla con l’autorità e il consenso delle leggi, né adottare qualsiasi decisione o norma che sia contraria alla sua integrità.
Papa Pio XI precisava:
il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti.
Bei tempi, quando il magistero del papa e dei vescovi ricordava che l’obbligo per la società politica di rendere un culto pubblico a Dio apparteneva al diritto naturale.
Il «braccio armato» dei Vescovi di Francia?
La dichiarazione dell’Assemblée des cardinaux et archevêques del 10 marzo 1925 era stata preceduta dalla fondazione, nel febbraio 1924, della Fédération nationale catholique ad opera del generale Noël Marie Joseph Édouard, Visconte di Curières de Castelnau, il più intelligente dei generali del 1914-1918 secondo i suoi pari, su incoraggiamento di Cardinali e Arcivescovi. Costituì un potente gruppo di pressione, la cui organizzazione in unioni diocesane, unioni cantonali, unioni parrocchiali, ricalcava quella del Cattolicesimo francese in Diocesi, Decanati, Parrocchie. Il suo primo congresso nazionale, gli Stati generali della Fédération nationale catholique, sorta di assemblea di tutto il Cattolicesimo militante, ebbe luogo precisamente nel febbraio 1925, poco prima della pubblicazione della dichiarazione dell’Assemblée des cardinaux et archevêques, che galvanizzò i militanti rientrati nei loro paesi natii. Tutto era ben calcolato. Bisogna dire che ci si trovava in qualche modo in un «circolo ristretto», essendo padre Marie-Albert Janvier O.P. anche cappellano della Fédération nationale catholique.
Il programma militante dell’Assemblée des cardinaux et archevêques venne applicato dalla Fédération nationale catholique alla lettera. Le manifestazioni su larga scala si moltiplicarono fino al 1927, specialmente nell’ovest della Francia (50.000 manifestanti ad Angers, 60.000 a Saint-Laurent-sur-Sèvre ecc.), ma anche nei Dipartimenti dell’est, a Tolosa, dove i Vescovi non avevano paura di prendere la parola.
Tuttavia, la Fédération nationale catholique del generale de Castelnau, che riuniva molte correnti e tendenze, si collocava nel complesso un gradino sotto l’Assemblée des cardinaux et archevêques dal punto di vista politico: essa non era certo sostanzialmente democratica come Le Sillon di Marc Sangnier, da cui sarebbero usciti i democratico-cristiani francesi, ma non si riteneva nemmeno sovversiva come l’Action française, tanto che quest’ultima all’epoca conservava il suo progetto di «colpo di Stato».
L’Action française contribuiva, del resto, alle manifestazioni oceaniche della Fédération nationale catholique. Padre Marie-Albert Janvier O.P. (anche dopo la sua condanna del 1926), e con lui non pochi Vescovi, simpatizzavano per il movimento di Charles Maurras, come Papa Pio XI sperimentò amaramente quando lo condannò l’anno successivo. Castelnau, invece, era chiaramente «non Action française». Infatti, aveva abbandonato qualsiasi ambizione politica dopo esser stato deputato durante la legislatura della Camera Bleue horizon, all’interno di quel grande partito liberale e conservatore, che era la Fédération républicaine.
I vantaggi del processo di rivendicazione avviato dalla dichiarazione degli alti prelati francesi non furono trascurabili, poiché nel 1925 Édouard Herriot fece marcia indietro di fronte a questa pressione proveniente da tutte le Destre: il concordato del 1801 fu mantenuto in Alsazia-Lorena, le relazioni diplomatiche con la Santa Sede proseguirono e le congregazioni religiose, tanto quelle rientrate in Francia dopo la Grande Guerra quanto quelle che non l’avevano lasciata, rimasero.
Ma la Repubblica laica rimase laica. Fino a che punto i Vescovi di Francia erano pronti a spingersi con le loro direttive? La dichiarazione dell’Assemblée des cardinaux et archevêques del 10 marzo 1925 conteneva un passaggio-chiave, un po’ oscuro, che era curiosamente messo tra parentesi:
(La religione lascia a ciascuno la libertà d’esser repubblicano, realista, imperialista, poiché queste diverse forme di governo sono conciliabili con essa; non gli lascia la libertà di esser socialista, comunista o anarchico, poiché queste tre sette sono condannate dalla ragione e dalla Chiesa. Salvo circostanze particolari, i cattolici sono tenuti a servire lealmente i governi di fatto per tutto il tempo in cui questi operino per il bene temporale e spirituale dei loro amministrati; non è loro permesso dare il proprio appoggio a misure ingiuste o empie assunte dai governi; sono tenuti a ricordarsi che la politica, essendo parte della morale, è soggetta, come la morale, alla ragione, alla religione, a Dio. In modo analogo conviene che si confutino gli altri pregiudizi diffusi nella popolazione).
L’Assemblée des cardinaux et archevêques si pose così nell’alveo di un’ambiguità calcolata: rispettava le direttive di Ralliement di Papa Leone XIII verso il potere repubblicano costituito, semplicemente qualificato come «governo di fatto», ma rendeva possibile il passaggio dalla disobbedienza alle leggi ingiuste alla secessione: i Cattolici sono tenuti a servire lealmente i governi «finché questi lavorino al bene temporale e spirituale dei loro sudditi».
Nonostante tutto, la difesa della Città cristiana per questi vescovi si riduceva a generare un gruppo di pressione conservatore. Ed il suo capo, il generale de Castelnau, pur essendo a capo di un movimento considerevole che, in un anno soltanto, era giunto a raggruppare due milioni di Cattolici, si accontentava d’esser riuscito a mantenere un Nunzio apostolico in avenue du Président-Wilson, a Parigi. Egli non coltivava, nemmeno sotto forma di utopia, il progetto di istituire uno Stato cattolico.
¹ L’Assemblée des cardinaux et archevêques sussistette dal 1919 al 1964, data in cui lasciò il posto alla Conférence des évêques de France.
² Déclaration sur les lois dites de laïcité et les mesures à prendre pour les combattre [Dichiarazione sulle «leggi dette di laicità»], La Documentation catholique, no 282, 21 marzo 1925, col. 707-712, e La Porte latine, Quand les évêques de France déclaraient : «Les lois laïques ne sont pas des lois» [Quando i vescovi di Francia dichiaravano: “Le leggi laiche non sono leggi”].
³ Somma Teologica, Ia IIæ, q. 96, art. 4.
I processi alle intenzioni del passato sono penosi e lasciano il tempo che trovano. La pretesa dei sedicenti tradizionalisti di credere che solo con Pio X tutto andasse bene e che gli altri papi prima e dopo di lui fossero dei deboli, è una pretesa penosa. La pretesa, infine, di porre la storia di Francia come paradigma di storia del cattolicesimo è errata sia nei presupposti sia nei fatti storici.
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