Per la nostra rubrica sugli "echi tridentini", oggi proponiamo alcuni estratti di questo bell'articolo di V. Pece tratto da Tempi (8/12/2024).
Retrospettiva del tormentato e profondissimo percorso umano e artistico del “Bardo di Melbourne” alla luce del suo incredibile incontro (su X) con Bob Dylan.
«Mi ha molto colpito una canzone chiamata Joy dove canta: “Abbiamo provato tutti troppo dolore, ora è il momento della gioia”. Tra me e me ho pensato: già, è proprio così». Queste le parole di Bob Dylan su X, dopo aver assistito al concerto parigino di Nick Cave il 19 novembre scorso. L’uscita pubblica di “His Bobness” sarebbe già da sola una notizia. Ma al di là dello spasso che è «questo nuovo Dylan twittarolo» di cui ha amabilmente scritto Claudio Todesco per Rolling Stone, ad essere intronizzata e messa sugli scudi è la “signora Gioia”. Una gioia ritrovata, che nella vita di Nick Cave arriva da lontano.
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Eppure sono proprio il lutto, il dolore, la fede, Dio, la pietra angolare degli ultimi anni di vita del cantautore. Sul Times del 4 marzo 2023, Rowan Williams, ex arcivescovo di Canterbury, nel cappello a un’intrigante intervista fatta al cantautore, racconta di averlo incontrato «in una sagrestia polverosa di una chiesa al centro di Londra», e che per parlare si sono seduti su «sedie di legno dure, armadi, scope e secchi sparsi qua e là». Un posto solo in apparenza inadeguato, visto che Nick Cave, scrive il reverendo Williams, «cresciuto nella città australiana di Wangaratta, da ragazzo ha cantato nel coro della sua cattedrale, quella della Santissima Trinità, sorprendendo poi il suo pubblico, per tutta la sua carriera, con testi saturi di Dio ed echi della Bibbia. Per cui – sedie inospitali a parte – lui è tutt’altro che un estraneo in questa sagrestia».
La convinzione dell’emerito di Canterbury, quella per cui «la fede di Cave non è quella di un uomo che cerca scorciatoie», è corroborata dalle confessioni che il cantautore gli concede sul più blasonato quotidiano inglese:
«L’audacia spirituale nata in me alla morte del figlio Arthur mi fa vivere una sorta di rifiuto sconsiderato di sottomettermi al modo di pensare del mondo».
Per questo l’autore di The Boatman’s Call – album in cui Cave esorta ad ascoltare il richiamo di Gesù, l’uomo della barca (“the boatman”) – dopo tanto navigare confessa a Williams di essersi «naturalmente ritrovato a casa, nella Chiesa cattolica». Confida il cantautore all’arcivescovo:
«Ho preso atto che faccio parte di un vasto fiume di sofferenza. È stato scioccante scoprire che la mia tragedia era in un certo senso “ordinaria”. Mi sono sentito parte di qualcosa. Qualcuno lo ha definito “il club in cui nessuno vuole essere”. Sono diventato invece una persona più completa, pienamente realizzata, al contrario del passato, in cui la mia personalità era solo parzialmente formata, come frammentata».
L'autore delle musiche per The Road (film tratto dall’omonimo romanzo del suo amato Cormac McCarthy); l’artista che nel capolavoro di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino canta, soffre e si agita sul palco di un fumoso locale punk, forse ha il diritto di apparire qualche volta sibillino, tanto è vero che c’è chi ha azzardato per Nick Cave prospettive aperte, controverse. Uno di questi è il passionista Massimo Granieri, che sull’Osservatore Romano si è occupato più volte del cantautore (qui e qui). Cambierà parzialmente idea, ma in una vecchia intervista ad Avvenire Granieri “psicoanalizza” spiritualmente Cave tracciando per lui una pista inedita: «Dal mio punto di vista, Nick Cave è profondamente ateo, rimane cioè dentro la sua laicità. Come sempre è ossessionato dalla Bibbia, affonda nelle Sacre Scritture, usa il simbolismo religioso per raccontare la sua storia personale. I suoi ultimi lavori, in particolare sono intrisi di dolore personale per la perdita del figlio, Cave ha bisogno fisico, fortissimo di qualcuno che traduca questa sofferenza e allora quale mezzo migliore se non la sacra scrittura? Vuole riscattarsi dal dolore ma la forza la trova dentro di sé, non al di fuori di sé. E questo è un atteggiamento profondamente laico, che esprime poca fiducia verso un aldilà che non riesce a definire. Come un figlio che va in cerca di suo padre ma non riesce assolutamente a raggiungerlo. Certo, il discorso con Dio rimane sospeso, è una partita ancora aperta».
Che la partita di Cave con Dio sia ancora aperta lo dice anche il suo modo di lasciarsi alle spalle l’uomo vecchio. Esattamente come Giovanni Lindo Ferretti, che nella Berlino dei primi anni Ottanta ha frequentato lo stesso club dell’australiano, anche per quest’ultimo un certo tipo di critiche (sempre le stesse!) non sono mancate. «Gioia, amore, pace. Che vomito! Dove sono finite la rabbia, la collera, l’odio? Ultimamente leggere i tuoi scritti è un po’ come ascoltare un vecchio predicatore che blatera durante la messa domenicale». La rabbia di Ermine su Red Hand Files, candido forum fortissimamente voluto da Cave, riassume bene la posizione di certi vecchi fan.
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Nella lunga risposta all’ex fan, il rocker australiano da una parte descrive con apparente normalità quello “svuotamento” caro ai monaci orientali, quella kénosi frutto di un dolore vissuto con misteriosa eleganza, dall’altra sembra rimarcare l’intuizione contenuta nel tweet di Dylan («ora è il momento della gioia»). Conclude Cave:
«Quand’è morto mio figlio ho dovuto affrontare un dolore autentico e senza alcuno sforzo quella posa di disprezzo nei confronti del mondo ha cominciato a traballare per poi crollare. Ho cominciato a capire quanto precarie sono le cose del mondo […]. Improvvisamente ho sentito l’urgenza di dare una mano a questo bellissimo, terribile mondo, l’urgenza di portare un po’ di gioia, al posto di limitarmi a denigrarlo compiacendomi del mio giudizio».
(qui per leggere l'articolo per intero).