in quanto strettamente connessi ai contenuti di Laudato Si' e Laudate Deum (nonché, ahinoi, in maniera pervasiva ad ogni aspetto di consumo o di lavoro), con questo e con il prossimo post vorremmo provare a fornire un breve spaccato della genesi dei c.d. “investimenti green”, dei problemi progressivamente emersi nonché della bolla finanziaria che tali politiche hanno generato e dalla disillusione che sta maturando negli operatori del mercato. Come scriveva Nicolás Gómez Dávila (in “In Margine ad un testo implicito”) «il tempo è temibile non tanto perché uccide, quanto perché smaschera».
La genesi
Come noto, la grande narrazione fondata sull’emergenza climatica antropica ha condotto molte nazioni (soprattutto, quelle c.d. “occidentali” e, in particolare, europee) dal 2015 ad oggi a definire politiche economiche volte a canalizzare trilioni di dollari (così il Presidente del COP28 Sultano Al Jaber, ma anche Climateworks Foundation) pubblici e privati verso i c.d. “investimenti ESG” (Environmental, Social, Governance) nel prometeico tentativo (espressamente convenuto nel “Paris Agreement” del COP21 tenuto nel 2015) di «contenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e a proseguire gli sforzi per limitare l'aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali». Nella stessa direzione milita anche la c.d. “Agenda ONU 2030”.
Soffermandoci sul profilo enviromental, fin dagli albori è stata evidente la volontà politica di istituire regole che, facendo appello ai “princìpi non negoziabili” dell’ESG e falsificando la libera e leale concorrenza, conducessero a indirizzare capitali pubblici e privati verso imprese e investimenti c.d. green.
Agli esiti del COP21 di Parigi, Nicholas Stern (ex responsabile economico della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) dichiarava che “gli investitori mondiali chiedono: grande possibilità di investimenti, buoni profitti e libertà di azione”. “Dal summit esce con chiarezza la direzione che sta prendendo l’economia. Chi oggi deve decidere gli investimenti da fare avrà molta più fiducia nel fatto che sarà il settore a basse emissioni a dare profitti, mentre il settore delle fonti fossili comporterà dei grandi rischi finanziari”. “Gli investitori vedono nel cambiamento climatico la nuova svolta economica da cui estrarre valore”.
Alcuni problemi
Primo problema. Al vertice c’è un tema di metodo in quanto si impongono obiettivi a tutto il pianeta in forza di una presuntuosa onniscienza del reale che è di per sé destinata all’insuccesso. Evidente la superbia che alberga nei cuori di coloro che promuovono tali iniziative e il tentativo di disconoscere i limiti della natura umana corrotta dal peccato: governi che non riescono a manutenere le strade o a intrattenere relazione geopolitiche ordinate, con quale credibilità possono pretendere di essere in grado di controllare il clima globale o di coartare l’autonomia di centinai di milioni (se non miliardi) di persone per tali finalità?
Secondo problema. È subito risultato evidente che la capacità di generare profitti per le imprese operanti in “settori a basse emissioni”, a causa degli elevati costi di produzione dei beni e dei servizi ESG, era strettamente correlata alla presenza di sussidi pubblici da parte degli Stati. Di fatto, si è inteso collettivizzare i costi (per tutti) per poter creare (più correttamente, simulare) un “profitto/vantaggio” per alcuni (come qui puntualmente illustrato, gli incentivi alle rinnovabili vengono finanziati spalmando il relativo costo sulle bollette elettriche di tutti).
Terzo problema. Un progetto talmente “grandioso” doveva definire il perimetro dei cc.dd. “investimenti green” e della corretta pubblicità degli stessi. È stata creata una complessissima architettura regolamentare a livello sovranazionale, europeo e nazionale formata da disposizioni normative cogenti (di rango primario e secondario), da standard delle autorità di vigilanza e da prassi di mercato. Si è assistito a una vera e propria ipertrofia normativa: la sola regolamentazione UE che mira a definire la tassonomia degli investimenti green si compone di diverse migliaia di pagine (se stampate, la stessa normativa risulterebbe assi poco green). Il costo per confermarsi a tali prescrizioni regolamentari in materia ESG (che impongono rilevanti obblighi informativi al mercato e ad autorità pubbliche) è stato stimato secondo il c.d. “Report Draghi” in un importo variabile che va da 150.000 euro per le imprese non quotate a 1 milione di euro per quelle quotate.
Quarto problema. Alla sovrapproduzione normativa si è affiancata la precarietà normativa: con la giustificazione di contrastare il preteso greenwashing, molteplici sono stati gli interventi regolatori volti a modificare il perimetro degli investimenti green, con grave instabilità nel mercato e nella valutazione delle asset class. A fronte dell’irrigidimento del perimetro green si è assistito a un declassamento di migliaia di fondi di investimento in quanto non più conformi ai “nuovi” requisiti di sostenibilità e ciò ha costretto i gestori che volevano mantenere il bollino green a dismettere i pregressi investimenti con perdite per diversi miliardi di dollari per i vari investitori (vedi qui, qui e qui). Nonostante gli immani quanto illusori sforzi regolatori, la stessa Commissione UE ha recentemente rappresentato che il 53% delle dichiarazioni verdi fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate, che il 40% delle stesse non ha prove a sostegno e che la metà di tutti i green claim offre una verifica debole o inesistente. Invece di interrogarsi sulla bontà complessiva delle iniziative assunte, si elaborano – in una logica sempre più socialista-collettivista – ulteriori regole: nel marzo 2024 ha già trovato il consenso del Parlamento UE una proposta di direttiva che stabilisce un sistema di verifica e pre-approvazione delle dichiarazioni di marketing ambientale da una terza parte, obbligando le imprese a fornire prove concrete a supporto delle loro affermazioni prima di pubblicizzarle. Le imprese che infrangeranno le regole potranno subire sanzioni, come l’esclusione temporanea dalle gare d’appalto pubbliche, la perdita dei propri ricavi e ammende pari almeno al 4% del loro fatturato annuo.
Di fronte a cotanta protervia, permane sempre attuale l’antico adagio “Quos Deus perdere vult, dementat prius” (“quelli che Dio vuole perdere, per prima cosa li rende dementi”). Non a caso, fu richiamato anche da Tolstoj in Guerra e Pace per descrivere Napoleone Bonaparte che ordina l’avanzata in territorio russo nel 1812 (cfr. Volume III, Parte I, III).
[il prosieguo, nel prossimo post della rubrica settimanale: il 14 novembre]
Filippo
E quindi? Cosa si fa per rallentare il riscaldamento globale, che è un fatto e che è dovuto alle attività antropiche?
RispondiEliminaBisogna comprare i banchi a rotelle
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