Post in evidenza

AGGIORNAMENTO del programma del 13º Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum #sumpont2024

Cari amici, a pochi giorni dall ’inizio de l  13º Pellegrinaggio  Populus Summorum Pontificum   a Roma da venerdì 25 a domenica 27 ottobre  ...

martedì 12 marzo 2024

Un sacerdote è sempre libero di concelebrare o di celebrare individualmente

Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera numero 1011 pubblicata da Paix Liturgique il 7 marzo 2024, in cui – per gentile concessione della Centre Internationale d’Etudes Liturgiques – si pubblica la relazione tenuta dal can. Stéphane Drillon, cancelliere della Diocesi di Nizza, il 25 gennaio 2024 a Roma, in occasione del 13º convegno del CIEL su «L’aspetto canonico della concelebrazione contemporanea».
Il tema della concelebrazione è ritornato di grandissima attualità dopo la richiesta avanza da papa Francesco durante l’udienza in Vaticano concessa alla Fraternità sacerdotale San Pietro il 29 febbraio (QUI su MiL) e da sempre considerata – non fondatamente – elemento discriminante per l’accettazione del Novus Ordo Missae e, in generale, del Concilio Vaticano II (recentemente ne abbiamo trattato QUI su MiL, con l’autorevolissimo studio di mons. Athanasius Schneider O.R.C., e QUI un pregevole sunto commentato della presente relazione).

L.V.


L’aspetto canonico dell’attuale concelebrazione

Introduzione

1. Limiti di questo studio.

A questo colloquio partecipano diversi relatori. Alcuni di loro si occuperanno o si sono occupati della concelebrazione da un punto di vista storico e teologico: don Claude Barthe ci ha parlato del periodo romano, noi ci occuperemo anche del periodo carolingio, e di molti aspetti della concelebrazione in Oriente, della storia della concelebrazione da un punto di vista teologico, dei frutti sacramentali della concelebrazione ecc.

Quindi, in particolare, non mi addentrerò nella discussione «storica» se esista o meno una differenza tra concelebrazione «cerimoniale» e «sacramentale», o se ci sia o meno un solo sacrificio in una concelebrazione, o se ci siano tanti sacrifici quanti sono i concelebranti (cioè uno per persona), questione quest’ultima esclusa dal Magistero, per inciso.

Non mi occuperò nemmeno della natura stessa della Messa in relazione all’evento del Venerdì Santo, né dei suoi elementi essenziali: il carattere sacramentale della Messa, l’aspetto liturgico e rituale dell’atto in cui si celebra il sacramento e la funzione ministeriale del sacerdote.

Limiterò quindi questo studio al diritto positivo, principalmente al suo sviluppo dal Concilio Vaticano II in poi, alla sua formulazione nel canone 902 del codice di diritto canonico e alla sua portata.

Perché parlare del canone 902 c.d.c.? Perché riguarda direttamente l’attuale diritto positivo che regola la materia della concelebrazione.

Ma sarebbe incompleto, in diritto canonico, vedere solo questo canone del Codice di diritto canonico, e tralasciare gli altri canoni del Codice di diritto canonico che, indirettamente, sono interessati o in relazione con il canone 902 c.d.c. Vedremo che questi rapporti possono essere considerati problematici.

I) Le fonti del canone 902 del codice di diritto canonico.

a) Ricordiamo brevemente la normativa precedente, cioè quella del Codice precedente, il Codice pio-benedettino del 1917.

Il canone 803 di allora non permetteva a più sacerdoti di concelebrare (sacramentalmente) se non in due casi specifici:
  • la Messa di Ordinazione dei sacerdoti,
  • e la Messa di consacrazione dei Vescovi.

Perché questo «non licet»?

Perché al momento della sua promulgazione, era stabilito in diversi testi del Magistero:
  1. che era un’ottima cosa moltiplicare il numero delle Messe per la gloria di Dio e il bene dei fedeli, tenendo presente il seguente principio tomistico: «Multiplicata causa, multiplicatur effectus» cioè «moltiplicando la causa, si moltiplicano gli effetti» (cfr. Sum. Theol. IIIa, Q 79, art 7, 3a). Questo principio molto semplice fece dire a San Tommaso: «in pluribus vero missis, multiplicatur sacrificii oblatio. Et ideo, multiplicatur effectus sacrificii et sacramenti», cioè «in più Messe, l’oblazione si moltiplica. In più Messe si moltiplica l’oblazione del sacrificio. E di conseguenza si moltiplica l’effetto del sacrificio e del sacramento» (cfr. Sum. Theol. IIIa, Q 79, art. 7, 3m). Il pensiero di San Tommaso è molto chiaro e vedrà applicazioni molto concrete: l’uso del «Triduo delle Messe», delle «Novene delle Messe», delle «Trentine gregoriane» ecc.;
  2. ma notiamo che è stata anche un’ottima cosa per la Chiesa manifestare l’UNITÀ del Sacerdozio: unità tra Cristo e il Sacerdote, unità tra Cristo e il Vescovo, unità tra i Vescovi, unità tra il Vescovo e i suoi sacerdoti, unità tra i sacerdoti tra di loro. E tra i monaci, idem! Da qui le due eccezioni previste dal canone 803 del Codice del 1917: «la Messa di Ordinazione dei Sacerdoti e la Messa di Consacrazione dei Vescovi» – in breve, l’unità gerarchica e teologica;
  3. va notato che queste due eccezioni che autorizzano la concelebrazione avvengono sempre alla presenza del Vescovo: nessuna concelebrazione senza il Vescovo;
  4. si noti anche che era impossibile sostenere che il numero dei concelebranti da solo moltiplicasse il numero delle Messe in una concelebrazione. (cfr. P. JOUNEL La célébration et la concélébration de la messe in La Maison-Dieu n. 83, 1965, pag. 175) cfr. anche il card. Charles Journet, con la qualità che lo caratterizza, cioè la capacità di dire molto semplicemente cose che sono tuttavia complicate e profonde, che ha scritto a questo proposito: «Immaginate che diverse persone si riuniscano contemporaneamente per battezzare un bambino. Ci saranno diversi battezzatori, ma una sola azione battesimale, plures baptizantes, una baptizatio. Nella concelebrazione, allo stesso modo, ci saranno diversi consacratori, plures ex quo consacrantes, ma una sola azione consacratoria, una consecratio» (cfr. Charles JOURNET, Le Sacrifice de la Messe, in Nova et Vetera (Friburgo) 46, 1971, 241-250).

A questo proposito rimandiamo anche al testo del Sant’Uffizio dell’8 marzo (23 maggio) 1957, DS 3928: l’obbligo di pronunciare le parole di consacrazione «ex institutione Christi».

b) Ricordiamo ora gli eventi del Concilio Vaticano II per quanto riguarda la concelebrazione.

1. La fase pre-preparatoria (17 maggio 1959 - 14 settembre 1960)

- Un’esigua minoranza di voti (di Vescovi, religiosi, Curia romana e università) chiedeva che la concelebrazione fosse trattata nei lavori del Concilio Vaticano II (una quarantina di voti su 2109, cioè l’1,9 per cento).

Un terzo di queste richieste prevedeva l’estensione della Celebrazione a circostanze eccezionali, mentre praticamente nessuna chiedeva l’estensione quotidiana e generale della Celebrazione.

2. La fase preparatoria (14 settembre 1960 - 11 ottobre 1962)

- La Commissione per la Liturgia elaborò un primo schema che comprendeva: la libertà per ogni sacerdote di celebrare la Messa individualmente e il desiderio «generale» (non dimostrato!) di estendere maggiormente questa concelebrazione;
- questo primo schema non ricordava la condanna dello Pseudo Concilio di PISTOIA, nei suoi articoli sulla concelebrazione, da parte di Papa Pio VI nel 1794, e anche il gran numero di Chiese orientali che rifiutano la concelebrazione.

L’obiettivo di questo schema era quello di promuovere l’unità della Chiesa che si manifesta nell’unità del sacerdozio, dimenticando la natura sacrificale della Messa per evocare solo «l’utilità dei fedeli», cioè una ragione soggettiva.

Infine, secondo questo schema, questa disciplina della concelebrazione doveva essere regolata dall’Ordinario del luogo in cui si trovava il Vescovo, giudicato capace di valutare la convenienza pratica della concelebrazione in certi casi e in certi luoghi (questo riguardava anche le Messe conventuali).

Insomma, non si trattava di trattare la concelebrazione nel suo principio teologico e canonico, (un fatto assodato) ma solo nella sua applicazione, cioè nella frequenza delle concelebrazioni autorizzate.

3. La costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium nel Concilio Vaticano II.

Ai Padri furono proposti due schemi, uno dopo l’altro.

Nelle discussioni sono stati sollevati diversi argomenti.

Da notare: la scomparsa del Vescovo al centro della concelebrazione, la scomparsa, come moderatore dell’uso della concelebrazione, dell’Ordinario del luogo, per non parlare dell’Ordinario in generale, che ovviamente interessa soprattutto i religiosi «esenti»…

Da notare anche:
  • -a tendenza a una maggiore apertura;
  • la comparsa di due categorie di casi:
    • un primo caso in cui il Concilio ha dato una facoltà generale di concelebrare,
    • e un secondo caso in cui questa facoltà di concelebrare sarà concessa dall’Ordinario.

In breve, sì alla concelebrazione, ma in casi limitati.

Una bozza finale fu sottoposta al voto dei Padri, che produsse solo 1.417 «placet» e molti modi, in particolare sul ruolo del Vescovo nell’applicazione disciplinare della concelebrazione. Modi che non sono stati discussi per mancanza di tempo.

Infine: ecco il testo che fu approvato dai Padri il 4 dicembre 1963, cioè il n. 57 della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium:

La concelebrazione
57.
1. La concelebrazione, che manifesta in modo appropriato l'unità del sacerdozio, è rimasta in uso fino ad oggi nella Chiesa, tanto in Oriente che in Occidente. Perciò al Concilio è sembrato opportuno estenderne la facoltà ai casi seguenti:
1· a) al giovedì santo, sia nella messa crismale che nella messa vespertina;
b) alle messe celebrate nei concili, nelle riunioni di vescovi e nei sinodi;
c) alla messa di benedizione di un abate.
2· Inoltre, con il permesso dell’ordinario, a cui spetta giudicare sulla opportunità della concelebrazione:
a) alla messa conventuale e alla messa principale nelle diverse chiese, quando l’utilità dei fedeli non richieda che tutti i sacerdoti presenti celebrino singolarmente;
b) alle messe nelle riunioni di qualsiasi genere di sacerdoti tanto secolari che religiosi.
2. 1· Spetta al vescovo regolare la disciplina della concelebrazione nella propria diocesi;
2· Resti sempre però ad ogni sacerdote la facoltà di celebrare la messa individualmente, purché non celebri nel medesimo tempo e nella medesima chiesa in cui si fa la concelebrazione, e neppure il giovedì santo.

Per brevità, non ci soffermeremo sugli altri testi conciliari che fanno anch’essi riferimento alla concelebrazione: il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio (per le Chiese orientali), il decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti Presbyterorum Ordinis, che cita esplicitamente la famosa formula liturgica: «Ogni volta che si celebra questo rito, si compie l’opera stessa della nostra redenzione» (cfr. Missale Romanum, Seconda domenica per Annum, Offertorio).

D’altra parte, il decreto sulle Chiese cattoliche orientali Orientalium Ecclesiarum tace totalmente sulla Celebrazione, così come il decreto sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus, e anche il decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae caritatis, anch’esso tace totalmente sulla questione!

* * *

Infine, concludiamo questa sezione sulla concelebrazione nel Concilio Vaticano II:

  1. nessuna costrizione per nessun sacerdote a concelebrare. La libertà di ogni sacerdote di celebrare la Messa da solo deve essere salvaguardata;
  2. l’uso e la pratica della concelebrazione devono essere limitati e regolati in due modi:
    1. prevedendola in casi specifici (n. 57, §1, 1 della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium);
    2. rendendola possibile in altri casi, consentiti e regolati dall’Ordinario e dal Vescovo locale. (n. 57, §1, 2 e §2, 1 della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium);
  3. la pratica della concelebrazione non può mai sminuire il valore delle Messe private (costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 57, §2 e decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti Presbyterorum Ordinis, n. 13).

Possiamo già notare che il Codice di diritto canonico promulgato nel 1983, che vuole essere un’attuazione dello spirito del Concilio Vaticano II:
  • rispetta, nel canone 902 c.d.c., la libertà di ogni sacerdote di celebrare individualmente («possunt» e non «debunt» per quanto riguarda la concelebrazione);
  • rispetta, nel xanone 902 c.d.c., la possibilità di concelebrare l’Eucaristia;
  • rispetta, nel canone 904 c.d.c., l’esortazione a ogni sacerdote a celebrare la Messa quotidianamente, anche in assenza di fedeli, e quindi il valore delle cosiddette Messe «private» (cfr. anche il canone 246 §1 sulla formazione dei seminaristi, il canone 276 §2, 2° sugli obblighi e i diritti dei chierici);
  • ma non applica, per disposizioni legislative, la doppia limitazione alla pratica della concelebrazione; si noti che non esiste alcun canone per questo;
  • e sembra non applicare, dal momento che il canone 902 c.d.c. prevede una possibilità generale e illimitata di concelebrare (a parte l’utilità dei fedeli), la teologia sulla concelebrazione insegnata dal Concilio Vaticano II e la prassi che questo stesso Concilio ha voluto instaurare, che era ampia ma sempre limitata.

C) Il magistero dopo il Concilio Vaticano II fino al Codice di diritto canonico del 1983.

Le due tendenze presenti durante le discussioni conciliari sulla concelebrazione sono continuate:
  • da un lato, l’incoraggiamento a estendere la concelebrazione;
  • dall’altro, tre testi magisteriali che riprendevano la teologia sacramentale tradizionale e che professavano l’unicità del Sacrificio eucaristico offerto a Dio nella concelebrazione (un unico sacrificio), per cui, in questa prospettiva, la moltiplicazione delle Messe diventava auspicabile, essendo allora limitato l’uso della concelebrazione.

Questi tre testi sono:
  1. il decreto generale Ecclesiae semper del 7 marzo 1965, che ricorda che la concelebrazione è un unico atto sacramentale, un’unica causa strumentale sacramentale (in altre parole, qualunque sia il numero di sacerdoti presenti alla concelebrazione);
  2. il secondo testo è il n. 47 dell’istruzione De Cultu mysterii eucharistici del 25 maggio 1967, che richiama l’attenzione sul carattere soggettivo della concelebrazione (il numero di sacerdoti uniti in un unico Sacrificio);
  3. il terzo testo è la Declaratio de Concelebratione del 7 agosto 1972, di cui vale la pena citare un paragrafo:
Sebbene la concelebrazione debba essere considerata un modo eccellente di celebrare l’Eucaristia nelle comunità, la celebrazione senza partecipazione dei fedeli «rimane tuttavia il centro della vita di tutta la Chiesa e il cuore dell’esistenza sacerdotale». Per questo motivo ogni sacerdote deve essere lasciato libero di celebrare la Messa individualmente: per favorire questa libertà, si deve prevedere tutto ciò che può facilitare questa celebrazione: tempo, luogo, l’aiuto di un servitore e altri elementi della celebrazione.

Va notato che questo passo è l’unico caso, per quanto ne sappiamo, in cui l’esercizio della libertà di celebrare individualmente è descritto in forma concreta e «realistica».

Il canone 902, c.d.c. come vedremo, afferma certamente questa libertà, ma senza specificare le condizioni giuridiche e concrete del suo esercizio. Ora, sappiamo bene che in certe situazioni locali, questa libertà può essere «ostacolata» da certe condizioni «in concreto» (per esempio, a causa degli orari, della mancanza di altari o cappelle, delle pressioni dei superiori sulle coscienze e sui comportamenti ecc.).

Infine, per quanto riguarda l’Institutio Generalis Missalis Romani (dal n. 153 al 159), il n. 153 ribadisce che la concelebrazione «manifesta felicemente l’unità del sacerdozio, del sacrificio e “del popolo cristiano”», e poi ripete, quasi parola per parola, il n. 57 della Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II:
  • alcuni casi di concelebrazione sono previsti dal rituale;
  • alcuni casi in cui l’uso della concelebrazione è possibile, ma che sono elencati in modo esaustivo (per esempio, la Messa crismale);
  • in altri casi ancora, ma con «il permesso dell’Ordinario», che è il giudice dell’opportunità della concelebrazione.

Il n. 155 precisa che «spetta al Vescovo», a norma del diritto, regolare la disciplina della concelebrazione nella sua diocesi, anche nelle chiese degli esenti…

II - Il canone 902 c.d.c. preso da solo.

Per mancanza di tempo, non ne tratteremo lo sviluppo; abbiamo solo una pagina delle «Communicationes» che riproduce gli ACTA COMMISSIONIS (COMM. Vol. XV, 1983, n. 2, p 191) su questo argomento, e che riassume la discussione tra i membri di questa commissione riguardo alla stesura del canone 855 che diventerà il nostro canone 902 c.d.c.

Vediamo subito i vari elementi che compongono il canone 902 c.d.c.

A) «Nisi utilitas christifidelium aliud requirat aut suadæt».

Questo è l’unico limite che il diritto positivo pone alla possibilità di concelebrare: la preoccupazione pastorale deve sempre prevalere. Tutti i commentatori si riferiscono qui al «bene dei fedeli». Questa nozione era già presente nei testi che estendevano la facoltà di concelebrare nel periodo post-conciliare. Ma notiamo l’abbandono di tutte le limitazioni previste dal testo conciliare (costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium n. 57), essendo il canone basato sui documenti successivi che abbiamo già citato. Il commento di Navarra precisa che «la necessità o l’opportunità di facilitare ai fedeli la possibilità di partecipare alla Santa Messa in luoghi e tempi diversi, o per altre sollecitazioni pastorali» può rendere obbligatoria la celebrazione individuale.

B) «Sacerdotes Eucharistiam concelebrare possunt».

I sacerdoti possono concelebrare. Nessun obbligo. Nessun incoraggiamento è previsto dalla lettera del testo, che sembra quindi, oggettivamente, un passo indietro rispetto al progetto iniziale (il canone 855 iniziale raccomandava la concelebrazione), e anche un passo indietro rispetto all’istruzione Eucharisticum Mysterium n. 47, ma molto più fedele al contenuto della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (n. 57), che prevedeva un’estensione limitata della facoltà di concelebrare, senza raccomandarla.

Così il «possunt» latino del canone esprime una flessibilità, una possibilità, ma non una raccomandazione che avrebbe potuto essere espressa con l’uso di un verbo al congiuntivo. È quindi andare oltre il significato del canone affermare, come fa padre Julio Manzanares Marijuán nel commento di Salamanca, che «in linea di principio, la concelebrazione dovrebbe essere il modo raccomandato quando non c’è bisogno di celebrare individualmente per il bene dei fedeli». Il canone non dice nulla di tutto ciò, e non stabilisce in alcun modo una «gerarchia» dei modi di celebrare l’Eucaristia, né una preferenza per la concelebrazione rispetto alla Messa privata. «possesso» e nient’altro.

Julio Manzanares Marijuan giustifica la sua posizione con due riferimenti: il primo all’istruzione Eucharisticum Mysterium n. 47, e il secondo al canone 837 c.d.c.

1) Se è assolutamente vero che il primo testo (istruzione Eucharisticum Mysterium n. 47) «raccomanda» e «incoraggia» la pratica della concelebrazione, il Concilio Ecumenico Vaticano II la limita. Considerare l’istruzione Eucharisticum Mysterium come uno sviluppo armonico della SC n. 57 è molto discutibile, e interpretare il «possunt» con l’uso dell’ istruzione Eucharisticum Mysterium n. 47 e il rifiuto della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium n. 57 è molto rischioso.

Se il legislatore avesse voluto fare della concelebrazione la modalità normale e «raccomandata», avrebbe usato un verbo molto più forte del nostro «possunt» e si sarebbe attenuto molto di più al testo dell’istruzione Eucharisticum Mysterium n. 47.

Infine, il «possunt» è oggettivamente arretrato rispetto alla disciplina e al testo dell’istruzione Eucharisticum Mysterium n. 47.

2) Quanto al riferimento al canone 837 c.d.c., non ci sembra giustificato: il fatto che «le azioni liturgiche non siano azioni private, ma celebrazioni della Chiesa stessa e che “comportino una celebrazione comunitaria (…) con l’assistenza e la partecipazione attiva dei fedeli, ove possibile” non significa che, in assenza di fedeli, si debba preferire una concelebrazione a più Messe singole. In primo luogo, perché il Magistero ha ripetutamente dimostrato che la celebrazione individuale della Messa è un’azione eminentemente comunitaria e pubblica.

È sempre l’azione di tutta la Chiesa. Il canone 904 c.d.c. lo ricorda con forza. In secondo luogo, perché la Chiesa non è mai tornata indietro sul suo insegnamento circa i benefici della moltiplicazione delle Messe, perché sono «atti di Cristo» e «opere di redenzione». È abbastanza chiaro che la partecipazione attiva dei fedeli deve essere incoraggiata… Il fatto di offrire diversi momenti possibili per andare a Messa (piuttosto che ridurre il numero di Messe offerte durante il giorno con una concelebrazione) non è forse un modo migliore di applicare il canone 837 c.d.c.? Infine, va notato che gli altri commentari, in particolare quelli di Urbaniana e Navarra, non deducono dal canone 902 c.d.c. che, in assenza di fedeli, il metodo raccomandato sia la concelebrazione della Messa. Se i sacerdoti «possono» concelebrare, questo non è assolutamente un principio, ma una facoltà.

C) «Integra tamen pro singulis libertate manente Eucharistiam individuali celebrandi, non vero eo tempore, quo in eadem ecclesia aut oratorio concelebratio habetur».

La libertà di celebrare individualmente è qui chiaramente affermata e non limitata, se non da una prescrizione liturgica.

Innanzitutto, la traduzione francese presenta due punti deboli:
  1. il «tamen» latino non è reso in francese (e nemmeno tradotto). L’italiano, ad esempio, traduce «tuttavia». Avremmo potuto dire in francese «cependant, étant respectée la liberté…», che avrebbe accentuato la forza della proposizione che segue;
  2. il «eo tempore, quo (…) concelebratio habetur» è tradotto con «quando c’è una concelebrazione». Avrebbe potuto essere tradotto in modo più preciso, per meglio significare i due elementi richiesti e cumulativi: lo stesso tempo e lo stesso luogo (espressi dal relativo quo).

Il commento di Salamanca tace su questa libertà. Preferisce esporre le opzioni aggiuntive per concelebrare a beneficio di chi ha già celebrato o sta per celebrare un’altra Messa (per il bene dei fedeli), richiamando le prescrizioni del n. 158 della Presentazione generale del Messale Romano e della Dichiarazione del 7 agosto 1972, e precisando la regola del non cumulo dei compensi, stabilita dal canone 951 §2 c.d.c.

Il commento di Navarra ha il merito di sviluppare un po’ questa nozione di libertà, riprendendo la stessa dichiarazione del 7 agosto 1972, che chiedeva realisticamente che questa libertà fosse verificata e resa realmente possibile dall’attuazione di tutte le facilitazioni necessarie in termini concreti.

Come ha detto E. TEJERO, la pietà personale del sacerdote sarà così alimentata da ciò che costituisce il «cuore della vita sacerdotale», cioè la celebrazione dei Santi Misteri (cfr. Sinodo dei Vescovi del 1971, "De Sacerdotio ministeriali", pars altera, n. 41, AAS 63, 1971, p. 914). Questa esigenza di «pietà sacerdotale» sembra essere all’origine del rispetto della libertà individuale in materia di modalità di celebrazione, sancita dal canone 902. La «Declaratio de concelebratione» faceva già riferimento al testo del Sinodo dei Vescovi per fornire una base a questa libertà. Una generalizzazione imposta della concelebrazione potrebbe portare a un’alterazione della pietà personale di ciascun sacerdote, perché, come osservano molto opportunamente i padri RAHNER, s.j., e HAUSSLING: «la sua (del sacerdote) collaborazione all’azione liturgica difficilmente va oltre la comune pronuncia di qualche parola». In realtà, la libertà posta dal canone 902 è un’estensione della domanda fondamentale sulla «spiritualità» e la «pietà» sacerdotale: in quale modo il sacerdote si santifica meglio? Celebrando da solo all’altare o concelebrando? La concelebrazione rafforza indubbiamente il senso di appartenenza a una comunità in quel momento, ma priva il sacerdote di una serie di gesti e parole che gli sono propri e che lo configurano in modo sensibile a Cristo Sacerdote. Invece, quando concelebra, risponde a molte delle preghiere del primo celebrante, riceve la comunione e la benedizione, ecc. I sacerdoti hanno bisogno di «sentirsi sacerdoti» e di esprimere la loro «identità sacerdotale» concretamente, in modi diversi da poche parole. Da qui la prudenza della Chiesa nello stabilire la libertà di essere soli all’altare.

Nella realtà, nella vita di tutti i giorni, questa libertà viene rispettata? Ci sembra una domanda legittima. La violazione giuridica, l’assenza di norme concrete che avrebbero potuto essere dettate dal Codice di diritto canonoco, riguardo all’esercizio pratico di questa libertà, favorisce la «pressione» psicologica di molti superiori nei confronti dei sacerdoti, soprattutto di quelli giovani. La generalizzazione, ovunque, sempre e per tutti, della concelebrazione rende i sacerdoti che desiderano celebrare da soli all’altare, di fatto estranei e tagliati fuori dalla «comunità» e dal «presbiterio». Nelle piccole comunità di sacerdoti secolari o religiosi, per preservare le relazioni fraterne e la vita in comune, sono spesso «obbligati» a concelebrare.

Inoltre, il pluralismo teologico non facilita la comprensione tra coloro che concelebrano quotidianamente e coloro che concelebrano solo in alcune occasioni.

Infine, per quanto riguarda quello che chiamiamo il divieto «liturgico», cioè l’impossibilità di celebrare singole Messe se concelebrate alla stessa ora e nello stesso luogo, va notato che il canone non tratta il caso di più Messe singole celebrate nello stesso luogo e alla stessa ora su altari diversi. Inoltre, nella lettera enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia, il venerabile Papa Pio XII condannò l’opinione di «chi afferma che i sacerdoti non possono offrire la vittima divina nello stesso tempo su parecchi altari, perché in questo modo dissociano la comunità e ne mettono in pericolo l'unità».

Conclusione

Cosa possiamo concludere sull’aspetto canonico della concelebrazione oggi?

1. Il canone 902 c.d.c., tuttora in vigore, legifera sulla disciplina (uso) della concelebrazione senza fare alcun riferimento alla teologia e alla giustificazione di questa pratica.

2. L’elemento che è rimasto costante fin dall’epoca preconciliare (ad eccezione di alcuni autori della Dottrina canonica) è quello della libertà per i sacerdoti di celebrare individualmente (ad eccezione della restrizione «liturgica» quando c’è concelebrazione nello stesso tempo e nello stesso luogo).

Questo rispetto della libertà deve poter essere attuato «in concreto», altrimenti di fatto scompare. Da qui il gran numero di abusi possibili (numero limitato di altari, orari mal organizzati, cappelle troppo poche, pressioni ideologiche ecc.) E quindi, in questo contesto, c’è un’innegabile lacuna legislativa e disciplinare che deve essere colmata.

3. Per quanto riguarda la possibilità di concelebrare, il canone 902 c.d.c. elimina e tace la tradizionale presenza del Vescovo alla concelebrazione, e anche il ruolo che gli era stato assegnato, cioè quello di «regolatore» della pratica della concelebrazione.

Lo stesso canone parla della possibilità di concelebrare («possunt) e non dell’obbligo di concelebrare («debunt»). Ancora una volta, questo è rispettato nella pratica? Si può legittimamente dubitarne!

Riconosciamo anche che i ricorsi amministrativi sono un po’ i «parenti poveri» del Codice attuale, e che quindi è molto difficile in pratica far rispettare «in concreto» le disposizioni del canone 902 c.d.c. …

Allo stesso modo, dobbiamo riconoscere che l’invocazione del canone 1378 c.d.c. sugli abusi di potere, che li classifica come reati (e che quindi potrebbe essere applicato nei procedimenti penali), è «dimenticata» e non applicata. Per quanto ne sappiamo, non esiste una giurisprudenza in merito… Quale sacerdote, costretto a concelebrare, ha citato il suo vescovo in una causa penale? Quale promotore di giustizia è stato coinvolto in un abuso di potere su questo tema?

4. Ci sembra che sia necessario legiferare di più sulla pratica della concelebrazione, che esprime l’unità gerarchica della Chiesa e l’unità del Sacerdozio, da un lato, e sulla celebrazione individuale della Messa, che permette di offrire e immolare sacramentalmente l’unico Sacrificio redentore di Cristo, dall’altro.

Legiferare ulteriormente tenendo conto di queste due realtà complementari da tradurre canonicamente permetterebbe di essere più fedeli al testo conciliare che si suppone debba essere «tradotto» giuridicamente dal nostro canone 902 c.d.c.

Questo canone 902 c.d.c. consacra – e questo è innegabile – molto più un cosiddetto «spirito del Concilio» e una prassi spontanea non necessariamente in linea con la Dottrina cattolica tradizionale, che un vero rispetto del Testo conciliare…

5. Anche i frutti del Sacrificio della Messa dovrebbero essere definiti più chiaramente: ogni Messa è il Sacrificio di Cristo, ha un valore infinito, ma le disposizioni degli uomini a riceverne i frutti sono sempre imperfette e, in questo senso, limitate. Da qui l’importanza del numero di Messe celebrate.

6. Sarebbe anche auspicabile che venisse chiarito il regime canonico delle «offerte» della Messa, cioè delle quote pagate e accettate, soprattutto nel caso della concelebrazione. Si tratta di un «obbligo di giustizia». Questa ricerca deve essere combinata con quella sulla natura delle intenzioni della Messa e sui particolari frutti ottenuti dalla celebrazione dei Santi Misteri.

Tali prospettive mi sembrano urgentemente necessarie!

La situazione attuale della Chiesa e del mondo è sufficiente a dirlo, se abbiamo l’onestà e la lucidità di guardare la situazione «in concreto». Si pensi, ad esempio, a tutti i defunti (in particolare in Francia) che vengono privati di una Messa funebre, a favore di una «benedizione», di una semplice assoluzione, o addirittura di una «liturgia della Parola»…

La Chiesa di Dio possiede un tesoro: la Redenzione, che permette al Sangue di Cristo Gesù di scorrere sulla Chiesa e sul mondo intero in ogni Messa.

«quoties hujus Hostiæ commemoratio celebratur, opus nostræ redemptionis exercetur» (Dominica II per Annum Missale Romanum).

In un altro modo, già Sant’Agostino diceva: «Semel immolatus in semetipso Christus, et tamen quotidie immolatur in sacramento».

«Immolato una volta per tutte in se stesso, Cristo è tuttavia immolato ogni giorno nel Sacramento» (Ept. 98, PL 33, p 363).

Sulla questione teologica della concelebrazione, raccomandiamo vivamente la lettura dell’opera fondamentale del Rev. Padre Joseph de Sainte-Marie, o.c.d., intitolata: "l’Eucharistie, Salut du Monde", (che ha fortemente ispirato il presente studio) pubblicata dalle Editions du Cèdre, 13 rue Mazarine, PARIS VIe, 1982, 464 pagine e distribuita dalle Editions Dominique Martin Morin, BOUERE, 53290 en BOUERE. (Francia)

Nessun commento:

Posta un commento