Jean Auguste Dominique Ingres, Messa papale (1832) |
L’autore esamina le radici storiche e le implicazioni teologiche della concelebrazione eucaristica e quindi avanza una proposta concreta su come la concelebrazione possa essere usata raramente ma in modo appropriato e su come dovrebbe svolgersi il suo cerimoniale.
Per quanto risalente, riteniamo quanto mai opportuno tornare ad approfondire la questione della concelebrazione, in quanto essa viene sempre più usata come arma impropria ed elemento discriminante per l’«accettazione» del nuovo rito, come emerge, ad esempio, nella richiesta di papa Francesco alla Fraternità sacerdotale San Pietro riportata nel comunicato «interno» e poi cancellata dal comunicato ufficiale del 1º marzo (QUI su MiL).
L.V.
I. Aspetto teologico e storico
1. La prima Santa Messa fu celebrata da Nostro Signore nel cenacolo. Questa Messa non aveva la forma di una concelebrazione sacramentale, perché gli apostoli non pronunciavano le parole di consacrazione, ma solo il Signore le pronunciava. Gli apostoli partecipavano all’Eucaristia, celebrata dal Signore, ricevendo sacramentalmente il suo Corpo e il suo Sangue. Potremmo dire che hanno «concelebrato» nella prima Messa sotto forma di concelebrazione non sacramentale.
2. Fin dai primi tempi, la Chiesa universale (sia in Oriente che in Occidente) ha conservato fedelmente questa forma originale di concelebrazione eucaristica con queste due caratteristiche:
- il celebrante principale pronuncia da solo le parole di consacrazione;
- il celebrante principale è sempre ed esclusivamente il «sommo sacerdote», cioè il vescovo (e a Roma il Papa).
3. All’inizio del Medioevo, nella Liturgia papale di Roma ci fu un’evoluzione della forma originale grazie al fatto che i concelebranti pronunciavano le parole di consacrazione insieme al Papa (cfr. Ordo Romanus III, VIII secolo).
4. Tuttavia, fino ad oggi, le chiese orientali più antiche – i greci bizantini non cattolici, i copti non cattolici e i nestoriani non cattolici – hanno conservato la norma secondo cui solo il celebrante principale pronuncia le parole di consacrazione.
5. Fino a tempi recenti, nella Chiesa universale, un sacerdote non ha mai presieduto come celebrante principale di una concelebrazione eucaristica sacramentale.
6. A partire dal XVII secolo, le Chiese cattoliche bizantine hanno introdotto un’innovazione, ossia la forma di concelebrazione tra sacerdoti senza il vescovo come celebrante principale. In questo modo la concelebrazione tra sacerdoti divenne abituale (cfr. l’articolo Le rituel de la concélébration eucharistique di Aimé Georges Martimort in Ephemerides Liturgicae 77 [1963] 147-168).
7. Una tale forma di concelebrazione eucaristica solo tra sacerdoti era estranea alla tradizione universale e costante della Chiesa. Pertanto la Chiesa romana ha proibito tale concelebrazione tra i sacerdoti (cfr. can. 803 del Codice di Diritto Canonico 1917).
8. Solo le Chiese cattoliche orientali hanno adottato l’usanza che tutti i concelebranti pronuncino le parole di consacrazione.
9. Fino al Concilio Vaticano II, nella Chiesa latina la concelebrazione eucaristica sacramentale, in cui tutti i concelebranti pronunciano le parole di consacrazione, era praticata solo in tre occasioni:
- consacrazione episcopale: concelebravano solo il consacratore principale e i vescovi appena consacrati;
- ordinazione sacerdotale: concelebravano solo il vescovo e i sacerdoti appena ordinati;
- Messa crismale del Giovedì Santo nella Cattedrale di Lione (Francia): il vescovo ha concelebrato con sei sacerdoti.
10. Per la Messa crismale, la Chiesa romana ha comunque conservato fino al Concilio Vaticano II la forma più antica, cioè le parole di consacrazione pronunciate solo dal vescovo, anche se dodici sacerdoti lo assistevano rivestiti di tutti i paramenti richiesti per la Messa. Con questa forma, la Chiesa romana ha forse voluto raccontare la prima Messa del Giovedì Santo, in cui il celebrante principale, Gesù il Sommo Sacerdote, pronunciava da solo le parole di consacrazione, mentre i dodici apostoli concelebravano in modo non sacramentale, poiché non pronunciavano insieme al Signore le parole della consacrazione sacramentale.
11. Nella tradizione millenaria della Chiesa romana, la concelebrazione sacramentale eucaristica costituiva sempre un atto solenne straordinario, che si verificava in occasione di:
- circostanze ecclesialmente importanti, che riflettevano la costituzione gerarchicamente ordinata della Chiesa, come nelle già citate consacrazioni episcopali e nelle ordinazioni sacerdotali;
- quando il vescovo celebrava la Messa nella forma più solenne e gerarchicamente strutturata, come nel caso della Messa crismale di Lione, o quando il Papa (nel primo millennio) celebrava solennemente nelle quattro feste più alte dell’anno: Natale, Pasqua, Pentecoste, Ss. Pietro e Paolo (usanza cessata a Roma nell’alto Medioevo).
12. In tutti i riti di tutti i tempi, una Messa episcopale solenne ha sempre richiesto l’assistenza liturgica dei rappresentanti di tutti i gradi del clero. Nel rito romano, una Messa di questo tipo era così strutturata: sacerdoti con i paramenti da Messa (così, ad esempio, i concelebranti cerimoniali nel caso dei canonici parati della Cattedrale, prescritti nell’antico Caeremoniale Episcoporum), sacerdote assistente, due diaconi assistenti, diacono e suddiacono della Messa, accoliti, lettori.
13. La Messa solenne in San Pietro prima del Concilio Vaticano II aveva la stessa struttura: cardinali vescovi e cardinali sacerdoti, con i paramenti da Messa, e cardinali diaconi che assistevano il Papa. I cardinali concelebravano in modo cerimoniale, cioè non sacramentale.
14. L’uso della concelebrazione sacramentale eucaristica per risolvere problemi pratici in una riunione di un gran numero di sacerdoti o vescovi è quindi del tutto estraneo alla tradizione originale e costante di tutta la Chiesa. Tale uso contraddice la forma e la natura originaria della concelebrazione eucaristica e costituisce una «degradazione» della concelebrazione, come già notava Martimort (cfr. op. cit.).
15. L’argomento dell’estensione dei casi di concelebrazione in occasione di riunioni di sacerdoti per risolvere problemi pratici di celebrazione figurava nello «Schema II» della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II. Questo argomento, però, fu respinto dalla maggioranza dei Padri conciliari, tanto che scomparve nel testo definitivo del n. 57.
16. Una concelebrazione eucaristica solo tra sacerdoti oscura un elemento essenziale di questa forma di celebrazione, cioè la forma gerarchica visibilmente riconoscibile. Ogni celebrazione della Santa Messa possiede la sua forma gerarchica innata. La prima Messa nel cenacolo ha rivelato questa caratteristica: Gesù il Sommo Sacerdote era il celebrante principale e da solo pronunciava le parole di consacrazione, circondato dai dodici primi sacerdoti (vescovi) della Nuova Alleanza, che lo assistevano cerimonialmente. Gesù era gerarchicamente più in alto e gli apostoli, che concelebravano cerimonialmente, erano più in basso. Da allora, ogni autentica concelebrazione della Santa Messa possiede questa struttura.
17. Quando un sacerdote celebra da solo e senza la concelebrazione sacramentale di altri sacerdoti, egli rappresenta da solo Gesù il Sommo Sacerdote nel momento della consacrazione, e tutti gli altri sacerdoti che sono presenti e non pronunciano le parole di consacrazione (ad esempio, quelli che eventualmente svolgono il ministero di diacono o suddiacono, o quelli che assistono nel coro) sono, in questo momento, gerarchicamente inferiori dal punto di vista dell’azione sacramentale, in quanto il solo sacerdote celebrante agisce in questo momento sacramentalmente in persona Christi capitis, mentre gli altri non lo fanno.
18. Ogni celebrazione o concelebrazione eucaristica deve mostrare visibilmente l’aspetto di Cristo Capo, cioè che nella struttura della Chiesa c’è un solo Capo, Cristo Sommo Sacerdote. Tutti gli altri sacerdoti (presbiteri, vescovi) che agiscono nella consacrazione eucaristica in persona Christi capitis sono solo suoi vicari visibili a diversi livelli.
19. Pertanto, il momento in cui si realizza la consacrazione eucaristica in persona Christi capitis – sia che la consacrazione venga fatta da un solo consacratore o contemporaneamente da più consacratori – deve mostrare visibilmente l’unicità del Capo; nel caso di un gruppo di consacratori deve esserci visibilmente uno che sia gerarchicamente superiore, per mostrare l’unicità di Cristo Capo.
20. Dal punto di vista del segno – e con la celebrazione sacramentale solo una persona concreta, in questo caso il celebrante principale, rappresenta visibilmente Cristo Capo – sarebbe contro la legge del segno-rappresentazione e del simbolismo sacramentale, quando nel momento della consacrazione eucaristica un gruppo di persone gerarchicamente uguali rappresenta contemporaneamente Cristo, l’unico Capo. «In effetti, una pura moltiplicazione dei concelebranti rende difficile l’espressione liturgica della loro unità in Cristo. In questo caso, come può la Messa essere l’atto dell’unico Sacerdote?» (P. Tihon, De la concélébration eucharistique, Nouvelle Revue Théologique 86 [1964] 600, n. 97).
21. Dall’altra parte, la totalità dei fedeli rappresenta il Corpo Mistico di Cristo (Christus totus), perché ci sono molte membra gerarchicamente diverse. Nel Corpo c’è però un solo Capo, e quindi il Capo è rappresentato concretamente da una sola persona negli atti visibili della vita della Chiesa: sia a livello canonico (giurisdizione) sia a livello eucaristico (celebrazione del sacrificio eucaristico).
22. La celebrazione eucaristica è il sacramento che più perfettamente realizza e riflette visibilmente il mistero del Corpo Mistico con un solo Capo e un solo Sommo Sacerdote e con molte membra gerarchicamente subordinate. A livello canonico, il Papa rappresenta Cristo Capo per la Chiesa universale e il vescovo rappresenta Cristo per la Chiesa particolare (diocesi). A livello eucaristico sacramentale, il celebrante o il celebrante principale (nel caso di una concelebrazione) rappresenta Cristo Capo. Colui che rappresenta Cristo Capo al momento della consacrazione eucaristica deve essere anche «capo» gerarchicamente o sacramentalmente in riferimento agli altri concelebranti: questo caso si verifica quando il vescovo concelebra con dei sacerdoti, o un delegato papale (o il metropolita o il consacratore principale in una consacrazione episcopale) concelebra con altri vescovi, o quando un sacerdote celebra da solo.
23. Quando più sacerdoti realizzano la consacrazione eucaristica insieme e sullo stesso piano, il simbolismo della rappresentazione dell’unico Capo è oscurato, perché non c’è alcuna differenza gerarchica tra i co-consacratori eucaristici, poiché nessuno di loro è un vero «capo» rispetto agli altri sul piano gerarchico. Una differenza gerarchica tra i co-consacranti eucaristici garantisce in modo convincente il vero simbolismo della rappresentazione dell’unico Capo.
24. Inoltre, avere un celebrante principale gerarchicamente più alto e chiaramente distinto come tale mostra anche la verità che c’è in definitiva un solo celebrante principale e principale in ogni Messa, che è Cristo il Sommo Sacerdote, il «minister principalis» di ogni sacramento, mentre tutti i celebranti, anche il celebrante principale, occupano il rango di «minister secundarius».
25. La struttura essenzialmente gerarchica della Chiesa visibile ha un solo capo visibile come Vicario di Cristo, l’unico Capo (Vicarius Christi): San Pietro e i suoi successori, i vescovi di Roma. Le Chiese ortodosse hanno rifiutato questa verità di fede e hanno creato in sua sostituzione un’ecclesiologia chiamata «sinodalità» (sobornost in russo). Secondo tale visione, l’unicità di Cristo Capo non è rappresentata da una persona concreta, cioè Pietro e i suoi successori, ma dal corpo o dal collegio dei vescovi contemporaneamente, soprattutto quando sono riuniti in un concilio o in un sinodo e sacramentalmente quando concelebrano l’Eucaristia. In tale teoria, non esiste un vero e proprio capo visibile, ma tutti sono uguali («pares»). Di conseguenza, il presidente di un tale sinodo o di una tale concelebrazione eucaristica è solo «primus inter pares».
26. Una celebrazione eucaristica riflette e realizza perfettamente il mistero della Chiesa se e solo se esiste un vero «primus» giurisdizionale e gerarchico. Pertanto, dal punto di vista del segno e del simbolo, deve esserci tra i concelebranti uno che al momento della consacrazione eucaristica sia realmente «primus»:
- solo sacramentalmente: quando un solo sacerdote (per quanto presente) consacra sacramentalmente, o
- sacramentalmente e gerarchicamente: quando il vescovo concelebra con i sacerdoti, oppure
- sacramentalmente e gerarchicamente: quando un vescovo con delega papale ordinaria o straordinaria concelebra con altri vescovi (il metropolita che usa il pallio, il consacratore principale nell’ordinazione episcopale, un legato pontificio).
27. Una concelebrazione non gerarchica oscura la natura intrinsecamente gerarchica della concelebrazione eucaristica e rivela una forma egualitaria, poiché in tale scenario vescovi e sacerdote costituiscono insieme una sorta di gruppo egualitario di concelebranti in riferimento a un celebrante principale episcopale, che non ha una vera e propria posizione gerarchica superiore, come sarebbe il caso di un Metropolita che usa il pallio papale, del consacratore principale in un’ordinazione episcopale che agisce sulla base di un mandatum papale, o di un delegato papale appositamente nominato.
28. Il Papa è il segno visibile dell’unità dell’ordine episcopale. Il vescovo, unito al Papa, è il segno visibile dell’unità del presbiterio. Questo deve essere visibile anche nella concelebrazione eucaristica. Una concelebrazione eucaristica tra vescovi in cui il celebrante principale non ha alcuna delega papale, nemmeno remota, ha una forte caratteristica «egualitaria». Allo stesso modo, una concelebrazione eucaristica tra sacerdoti senza il vescovo ha una forte caratteristica «egualitaria», poiché manca anche la presenza del capo visibile del presbiterio, cioè il vescovo.
29. Inoltre, la concezione egualitaria si spinge oltre, affermando che l’essenziale non è la rappresentazione di Cristo da parte di uno o di molti sacerdoti, ma la sua rappresentazione da parte dell’intera comunità che celebra l’Eucaristia (cfr. P. Tihon, op. cit., 593).
30. Quando un sacerdote realizza la consacrazione eucaristica da solo (anche se potrebbero essere presenti altri sacerdoti non celebranti), rende sacramentalmente visibile Cristo unico Capo, agendo in persona Christi capitis. A distanza, la sua singolarità si riferisce anche al vescovo, unico capo della Chiesa particolare, che a sua volta è unito al Papa, unico capo della Chiesa universale. Pertanto, una celebrazione eucaristica lecita deve menzionare espressamente il vescovo, unico capo della Chiesa locale, e il Papa, unico capo della Chiesa universale.
31. Nella prospettiva della verità che non esiste un «primus inter pares» nella costituzione gerarchica della Chiesa, ma che c’è «un solo capo» a livello universale (Papa), locale (vescovo) e sacramentale (il sacerdote consacrante in persona Christi capitis), il segno più alto dell’unità del sacerdozio non è la concelebrazione eucaristica tra i sacerdoti senza il vescovo come celebrante principale, ma la concelebrazione eucaristica dei sacerdoti con il vescovo, come avviene nella Messa di ordinazione sacerdotale. Nel rito dell’ordinazione sacerdotale si dice che l’unità del Corpo di Cristo è costituita da membra molteplici e diverse per dignità: «ex multis et alternae dignitatis membris unum Corpus Christi efficitur» (Allocutio episcopi).
32. La forma della concelebrazione sacramentale (come avveniva nella Messa del Papa con i cardinali solo quattro volte all’anno a partire dal VII-VIII secolo) apparve gradualmente nei secoli successivi anche nella Messa di consacrazione episcopale e di ordinazione sacerdotale (in questo caso divenne obbligatoria solo nel 1596). Allo stesso tempo, la concelebrazione eucaristica del Papa con i cardinali scomparve gradualmente, rimanendo una concelebrazione cerimoniale del Papa con i cardinali.
33. Secondo l’originario e perenne sensus ecclesiae, la concelebrazione eucaristica è la forma più solenne della Messa e non una forma semplice e quotidiana di celebrazione. Ne parlano, ad esempio, Sant’Ignazio di Antiochia (I-II secolo) e la Traditio Apostolica (III secolo): durante la Messa il vescovo è circondato da tutto il suo presbiterio, dai diaconi e dagli altri servitori e da tutta l’assemblea dei fedeli. La Traditio Apostolica dice che solo il vescovo pronuncia la preghiera eucaristica.
34. La maggior parte dei monasteri greco-ortodossi del Monte Athos, ad esempio, non pratica una concelebrazione eucaristica quotidiana. Hanno conservato la tradizione originale di una concelebrazione eucaristica – sempre in forma cerimoniale e mai sacramentale – solo in alcune feste principali durante l’anno (cfr. Hagioreitokon Typikon tes Ekklesiastikes Akoloutheias, Athena 1997, Parte I, Capitolo 1, nota 28).
35. La consuetudine di alcune Chiese cattoliche orientali con una regolare concelebrazione eucaristica dei sacerdoti senza il vescovo, che è appunto in definitiva una forma «egualitaria» e non strettamente gerarchica, è stata erroneamente considerata dai rappresentanti del Movimento Liturgico del XX secolo come il modello autentico e originale di concelebrazione eucaristica, di cui hanno chiesto con forza la «restaurazione» nella Chiesa latina.
36. Fino al Concilio Vaticano II, la Chiesa romana ha conservato questa forma originale di concelebrazione eucaristica secondo la norma dei Padri («pristina norma Patrum») nella Messa crismale, in cui dodici sacerdoti, indossando i paramenti della Messa, concelebrano cerimonialmente con il vescovo, circondati da sette diaconi e sette suddiaconi. I numeri dodici e sette sono rappresentativi e simbolici della totalità dei rispettivi gradi del clero.
37. La forma originaria e più antica, la concelebrazione eucaristica non sacramentale o cerimoniale, come quella della Messa crismale, coesisteva nella Chiesa romana con la forma successiva della concelebrazione eucaristica sacramentale nel caso della Messa di consacrazione episcopale e di ordinazione sacerdotale.
38. Alla vigilia del Concilio Vaticano II, nella Chiesa romana vi furono molte richieste di armonizzare queste due forme di concelebrazione eucaristica, cioè di estendere la concelebrazione eucaristica sacramentale anche alla Messa crismale, come avveniva nel Rito di Lione fino al Concilio Vaticano II e in diverse diocesi francesi fino al XIX secolo (cfr. Martimort, op. cit.).
39. La richiesta di estendere la possibilità di concelebrazione eucaristica alla vigilia di questo Concilio era molto forte. I Padri conciliari erano circondati da un’atmosfera di euforia, di approvazione acritica della nuova «teoria della concelebrazione», di mancanza di una riflessione più approfondita sugli aspetti sacramentologici ed ecclesiologici legati alla concelebrazione eucaristica.
40. Il Concilio Vaticano II ha effettivamente esteso formalmente la possibilità di concelebrazione eucaristica a sei casi (Sacrosanctum Concilium, n. 57). Le norme erano però così «elastiche» che di fatto oggi esiste una totale libertà di concelebrazione, libertà che i documenti postconciliari hanno addirittura favorito.
41. Il Concilio Vaticano II non aveva alcuna intenzione di decidere sui problemi teologici e ancor meno su quelli storici della concelebrazione. «Il Concilio non ha dato nessuna definizione, nessuna descrizione della concelebrazione, essendoci tendenze teologiche diverse e opposte» al riguardo (P. Tihon, op. cit., 579).
42. La pratica attuale della concelebrazione eucaristica nella Chiesa latina costituisce una grande rottura con la tradizione costante della Chiesa romana e della maggior parte delle Chiese orientali, perché oscura il senso e la forma originaria di questa concelebrazione così come Cristo l’ha affidata alla Chiesa e come è stata fedelmente trasmessa dalla Chiesa romana negli ultimi due millenni.
43. La pratica attuale della concelebrazione eucaristica nella Chiesa latina ha oltrepassato oggi spesso i limiti della dignità liturgica e del significato teologico, soprattutto nei casi frequenti di «concelebrazioni di massa» o «oceaniche» con diverse centinaia e persino migliaia di concelebranti.
44. Le frequenti concelebrazioni quotidiane tra sacerdoti (o tra vescovi) sfigurano il senso originario della concelebrazione eucaristica, secondo cui tale celebrazione deve essere chiaramente gerarchica (e non in forma egualitaria) e deve anche essere la forma più solenne della celebrazione eucaristica.
45. Una concelebrazione eucaristica sacramentale quotidiana diminuisce nel tempo un rapporto più profondo, più stretto e più personale del sacerdote con Cristo Sommo Sacerdote durante l’offerta della Santa Messa, che è il centro stesso della vita sacerdotale.
46. La celebrazione eucaristica ha sempre avuto nella sua forma diversi gradi di solennità. La forma più alta e solenne della Messa era l’Alta Messa Pontificia, e tali Messe Pontificie hanno sempre conservato nel Rito Romano gli elementi essenziali della concelebrazione eucaristica originale, cioè della concelebrazione non sacramentale o cerimoniale. Prima della riforma liturgica postconciliare, tali Messe pontificali con concelebrazione cerimoniale avevano tre forme:
- la Messa solenne pontificale ad thronum in Cattedrale: il vescovo era circondato da alcuni canonici, che indossavano i paramenti da messa («canonici parati»), con sacerdote assistente, diaconi assistenti, diacono e suddiacono, accoliti;
- la Messa crismale con dodici sacerdoti, con paramenti da Messa, sette diaconi e sette suddiaconi. Questa era davvero la Messa più solenne di una diocesi;
- la Messa solenne del Papa nella Basilica di San Pietro, dove cardinali-diaconi, cardinali-sacerdoti e cardinali-vescovi, indossando i paramenti da Messa, circondavano il Papa e servivano o concelebravano cerimonialmente. Questa era la forma più solenne di Messa nella Chiesa universale. Tali Messe solenni venivano celebrate raramente, come accadeva anche nel primo millennio, dove il Papa concelebrava sacramentalmente con i cardinali solo quattro volte all’anno (Natale, Pasqua, Pentecoste, Ss. Pietro e Paolo).
47. Il noto liturgista A. Martimort ha riconosciuto il carattere di particolarità e solennità di una concelebrazione eucaristica sacramentale, affermando che: «Più delicato è il problema delle condizioni a cui deve essere sottoposta la concelebrazione, per quanto riguarda le date, il numero e la qualità dei concelebranti. I liturgisti osservano che la concelebrazione in sé è una cosa rara e un po’ eccezionale, come lo è sempre stata in Occidente e come lo è in Oriente, se non in pratica, comunque in linea di principio» (op. cit.).
48. Alla vigilia del Concilio Vaticano II, Martimort fece questa proposta teologicamente corretta e praticamente equilibrata per una pratica estesa della concelebrazione eucaristica: «Si dovrebbe immaginare la concelebrazione nella Chiesa latina solo intorno al vescovo diocesano, con lui che presiede la celebrazione: essa trova un posto normale nella Messa in cui il vescovo è circondato dal suo clero, vestito con i paramenti per la Messa (clergé paré)». (op. cit.).
49. Martimort dà i seguenti suggerimenti concreti sull’estensione dei casi di concelebrazione: «Ci sono tre casi in cui è richiesta la concelebrazione: nel caso dei co-consacranti della consacrazione episcopale, nel caso dei sacerdoti nella Messa crismale del Giovedì Santo, [e] nel caso di una grande manifestazione della Chiesa, in cui alcuni sacerdoti che circondano il celebrante esprimono l’universalità della catholica» (op. cit.).
50. Se si voleva estendere la pratica della concelebrazione eucaristica, si sarebbe dovuto farlo secondo l’autentico e perenne significato teologico ed ecclesiologico, vale a dire che essa deve soddisfare contemporaneamente le seguenti caratteristiche essenziali:
- ci deve essere il segno dell’unità gerarchica e dell’universalità (cattolicità): quindi, nessuna forma egualitaria; quindi, nessuna concelebrazione tra soli sacerdoti o tra vescovi senza un delegato papale o senza il Metropolita, usando il pallio;
- ci deve essere il segno della solennità particolare: quindi niente concelebrazioni quotidiane, ma solo in occasione di eventi particolari importanti della Chiesa universale (Concili ecumenici) e delle Chiese particolari: consacrazione episcopale, ordinazione sacerdotale, Messa crismale, sinodo diocesano, concilio provinciale (le diverse Chiese particolari di una stessa provincia ecclesiastica), concilio plenario (tutte le Chiese particolari di una stessa conferenza episcopale);
- deve esserci il segno della particolare dignità e bellezza rituale: quindi, nessuna «concelebrazione da stadio» e – ad eccezione delle ordinazioni sacerdotali – necessariamente una limitazione concreta del numero dei concelebranti (ad esempio, un minimo di due e un massimo di dodici concelebranti), come è stato esemplificato dall’esperienza quasi millenaria e ben collaudata della Chiesa romana, del Rito di Lione e di alcune diocesi francesi dopo il Concilio di Trento.
51. Considerando i suddetti aspetti ecclesiologici, sacramentologici e liturgici, si può avanzare la proposta che la concelebrazione sacramentale eucaristica nel Rito romano comprenda i seguenti sette casi:
- Consacrazione episcopale;
- Ordinazione sacerdotale;
- Concili ecumenici;
- Concili provinciali;
- Concili plenari;
- Sinodo diocesano;
- Messa crismale.
52. La forma più alta dell’esercizio del magistero (concili a livello universale, regionale e locale) potrebbe essere opportunamente collegata anche con la forma più alta dell’esercizio della celebrazione eucaristica, cioè con la concelebrazione sacramentale eucaristica, mostrando il legame indissolubile della lex credendi con la lex orandi.
53. La natura del culto divino richiede che nella vita liturgica della Chiesa ci sia una forma particolarmente solenne e non quotidiana della celebrazione eucaristica, e dovremmo vederla in una concelebrazione eucaristica gerarchicamente strutturata. Martimort aveva avvertito profeticamente nel 1960, alla vigilia del Concilio Vaticano II: «È l’occasione per ammonire che la concelebrazione sarà una cosa molto impegnativa dal punto di vista della qualità delle cose e dell’organizzazione materiale» (op. cit.). P. Tihon diceva nel 1964: «La concelebrazione non deve essere fatta a buon mercato. Inoltre, una celebrazione dignitosa, eseguita secondo le norme, impone un numero limitato di sacerdoti partecipanti, e sarebbe quasi impossibile durante i grandi raduni di sacerdoti, come ad esempio durante i Congressi Eucaristici» (op. cit., 606).
54. Secondo l’esempio delle Chiese orientali non cattoliche (dove non c’è affatto la concelebrazione sacramentale) e l’antica norma dei Padri (pristina norma Patrum), la concelebrazione eucaristica strettamente sacramentale dovrebbe essere ridotta ai casi sopra citati e la concelebrazione non sacramentale, che è la forma originaria, dovrebbe essere più estesa, come abbiamo nella Messa alta pontificale secondo il Rito romano tradizionale, l’usus antiquior del Rito romano.
55. Una concelebrazione eucaristica non sacramentale dimostra molto bene l’ordine gerarchico della Chiesa e della celebrazione stessa. Ciò è testimoniato quando un solo sacerdote o vescovo compie la consacrazione eucaristica, mentre altri sacerdoti o vescovi assistono alla Messa nel santuario (presbiterio), portando il segno distintivo del loro sacerdozio o del loro ufficio ecclesiastico. Pur non consacrando sacramentalmente, essi concelebrano tuttavia con l’unico sacerdote o vescovo nella forma originaria della concelebrazione, cioè nella forma in cui Cristo Sommo Sacerdote celebrò la prima Messa su questa terra il Giovedì Santo.
56. La pratica della concelebrazione eucaristica sacramentale, presieduta dal vescovo e limitata a occasioni molto particolari e solenni, sarebbe la forma più appropriata, come affermava Martimort: «Questa concelebrazione ci sembra una via più sicura, più immediatamente praticabile e più conforme all’evoluzione della pietà sacerdotale» (op. cit.).
II. L’aspetto liturgico
1. Una concelebrazione eucaristica sacramentale ritualmente dignitosa e teologicamente sicura richiede necessariamente un numerus clausus [numero chiuso] di concelebranti. È una legge costante della tradizione universale della Chiesa che il consacratore eucaristico deve essere in contatto corporeo con il luogo del sacrificio e della consacrazione per poter toccare l’altare. Il ministro del sacramento deve essere corporalmente vicino alla materia. Le parole «Hoc est corpus…», «Hic est sanguis…» richiedono che la materia sia realmente presente al consacratore. Nella Tradizione latina (ad eccezione dei sacerdoti appena ordinati nell’usus antiquior) i co-consacratori sacramentali dovevano rimanere immediatamente all’altare, come ad esempio nella Messa di consacrazione episcopale e nella Messa crismale del Rito di Lione. La stessa regola viene osservata ancora oggi nei riti orientali. In vista di una concelebrazione eucaristica dignitosa, Martimort ha suggerito di stabilire un numerus clausus di concelebranti (cfr. op. cit.).
2. La Chiesa latina ha un modello ben collaudato per una concelebrazione eucaristica ritualmente dignitosa e teologicamente sicura nella forma secolare di concelebrazione nella Messa di consacrazione episcopale e nella Messa crismale del Rito di Lione. Per quanto riguarda l’aspetto rituale, Martimort suggeriva: «La Messa crismale del Giovedì Santo sarebbe l’occasione più sicura e comoda per una tale evoluzione della disciplina: basterebbe estendere alla Chiesa universale l’usanza di Lione» (op. cit.). Più concretamente, Martimort fece questa proposta: «Adotterei volentieri le rubriche della consacrazione episcopale o l’usanza viva di Lione, che prescrivono per i concelebranti la recita in tono medio di tutte le preghiere dette dal celebrante principale dall’Offertorio alla Comunione; per le parti cantate, il vescovo canta da solo, mentre gli altri concelebranti recitano a bassa voce» (op. cit.).
3. Nel Rito romano la concelebrazione eucaristica sacramentale non dovrebbe regolarmente superare il numero di dodici concelebranti, tranne che nella Messa di ordinazione sacerdotale. Questa usanza ha una tradizione secolare nella Messa crismale. Il numero dodici ricorda il numero dei dodici apostoli durante la prima Messa nel cenacolo il Giovedì Santo. Inoltre, questo numero simboleggia la pienezza. Il numero minimo di concelebranti sarebbe due, per il requisito minimo di bellezza e solennità che due concelebranti disposti simmetricamente esprimono.
4. Durante la parte catecumenale della Messa, i concelebranti sono disposti simmetricamente sui sedili ai lati del santuario o a destra e a sinistra del trono episcopale.
5. Dall’Offertorio in poi, i concelebranti stanno simmetricamente su ogni lato dell’altare. Nella parte anteriore dell’altare, il celebrante principale rimane da solo con il sacerdote assistente, il diacono e il suddiacono. Questa posizione manifesta visibilmente che c’è davvero un celebrante principale, che in questo momento rappresenta Cristo, l’Unico Capo. Gli altri concelebranti, i suoi coadiutori, sono quindi collocati ai lati dell’altare. Questa posizione ha anche un vantaggio pratico: è garantito un ministero senza ostacoli del sacerdote assistente, del diacono e del suddiacono, così come l’incensazione dell’altare. A causa della presenza dei concelebranti ai due lati dell’altare, l’altare durante l’Offertorio viene incensato nella parte anteriore e non in cerchio. Quando i lati dell’altare non sono sufficientemente lunghi, i concelebranti rimasti si dispongono in due file, una dietro l’altra.
6. Tutte le preghiere dall’Offertorio alla Comunione (tranne il versetto dell’Offertorio, la Secreta o Oratio super oblata e il Prefazio) i concelebranti le recitano a bassa voce insieme al celebrante principale, che le recita ad alta voce.
7. Durante il Canon Missae, i concelebranti compiono insieme al celebrante principale i seguenti gesti:
- durante l’Hanc igitur tenendo le mani aperte in modo che il pollice destro sia sopra il sinistro e unendo le mani alla conclusione Per Christum Dominum nostrum;
- durante la pronuncia delle parole della consacrazione, i concelebranti si inchinano;
- tutti genuflettono subito dopo ogni consacrazione;
- durante l’elevazione della Sacra Ostia e del calice, i concelebranti li guardano;
- tutti si genuflettono dopo ogni elevazione;
- fanno un inchino profondo, baciando l’altare e incrociandosi durante Supplices te rogamus;
- si battono il petto all’inizio di Nobis quoque peccatoribus.
8. Il rito della Pax è conforme al rito della consacrazione episcopale.
9. Durante il Domine, non sum dignus, i concelebranti si battono il petto tre volte, insieme al celebrante principale.
10. Il rito della Comunione dei concelebranti episcopali è simile a quello della Messa di consacrazione episcopale. Ogni concelebrante si avvicina al celebrante principale, che sta al suo posto al centro. Il concelebrante genuflette verso il Santissimo Sacramento e il celebrante principale depone l’Ostia direttamente sulla lingua del concelebrante, che è in piedi e leggermente inchinato, quindi il celebrante principale porge il calice al concelebrante e questi, tenendo il calice con le mani, beve dal calice. Il celebrante principale non pronuncia alcuna parola mentre dà la Santa Comunione ai concelebranti, né fa il segno di croce con l’Ostia. I concelebranti si purificano bevendo da un calice di vino non consacrato alla credenza.
11. Il rito della Comunione dei concelebranti sacerdotali: i concelebranti si inginocchiano in fila sul gradino superiore dell’altare; il vescovo depone la Sacra Ostia direttamente sulla loro lingua, mentre assistono il diacono e il suddiacono, il diacono tiene la patena. I concelebranti rimangono ancora inginocchiati, in attesa che il vescovo ritorni con il calice; il vescovo porta alle labbra di ciascun concelebrante il calice, da cui beve un sorso, mentre il diacono tiene un purificatore sotto il mento di ciascuno. Il vescovo non pronuncia alcuna parola mentre dà la Santa Comunione ai concelebranti, né fa il segno di croce con l’Ostia. I concelebranti si purificano bevendo da un calice di vino non consacrato alla credenza.
12. Il fatto che i concelebranti e persino i concelebranti episcopali ricevano il Corpo e il Sangue di Cristo dal concelebrante principale dimostra in modo impressionante l’aspetto gerarchico della concelebrazione eucaristica, sottolineando che c’è un solo Capo e un solo Sommo Sacerdote Cristo, che è visibilmente rappresentato dall’unico celebrante principale che in quel momento è il suo vero Vicario (Vicarius Christi).
13. Il rito della concelebrazione nella Messa di ordinazione sacerdotale dovrebbe rimanere invariato, tranne il rito della Comunione, che potrebbe essere fatto come descritto sopra. Le ragioni per mantenere il rito tradizionale di concelebrazione per l’ordinazione sacerdotale sono le seguenti:
- l’eminente carattere pedagogico. Per il neo-ordinato sacerdote è prevista questa introduzione graduale, psicologicamente molto appropriata, al momento impressionante e sacro dell’offerta per la prima volta del Sacrificio incruento della Croce. Così i neopresbiteri rimangono dietro il vescovo e non direttamente sull’altare, e in posizione inginocchiata. Tutto ciò esprime l’atteggiamento spirituale necessario in un simile momento: che ci si può avvicinare al Santo dei Santi solo con profonda umiltà, con un santo e delicato riserbo. Come «apprendisti» docili e stupiti, i sacerdoti appena ordinati sono introdotti a realizzare il più grande potere spirituale che sia dato agli uomini, cioè offrire il Sacrificio della Croce e transustanziare in persona Christi il pane e il vino nel Corpo e Sangue immolato e vivente di Cristo. Infatti, nell’allocuzione prima dell’ordinazione, il vescovo dice: «cum magno timore ad tantum gradum accendendum est». Nell’ultima ammonizione alla fine della Messa, il vescovo dice al sacerdote appena ordinato che la celebrazione della Santa Messa è una «cosa abbastanza pericolosa» («res, quam tractaturi estis, satis periculosa est»). Pertanto, dice il vescovo, prima di iniziare a celebrare la Messa, devono imparare a celebrarla diligentemente da sacerdoti esperti («ab aliis iam doctis sacerdotibus discatis»);
- il rito dell’ordinazione sacerdotale dispiega gradualmente, attraverso segni e azioni impressionanti, i vari poteri spirituali del sacerdozio: prima il potere di offrire il Sacrificio della Messa e poi il potere di assolvere i peccatori nel Sacramento della Penitenza. Per questo, alla fine della Messa il vescovo apre ritualmente la casula, il cui lato posteriore era stato appuntato, pronunciando le parole: «Ricevi lo Spirito Santo: i peccati che rimetti sono rimessi», ecc.;
- il posto e la posizione subordinata occupata dai neopresbiteri rispetto al vescovo celebrante è una dimostrazione molto eloquente della verità teologica che i sacerdoti possiedono il «munus secundi meriti» (cfr. Preghiera dell’ordinazione), cioè hanno il secondo grado, subordinato, del sacerdozio. Nel rito di ordinazione sono chiamati «sacerdotes minoris ordinis» (cfr. Allocutio episcopi);
- il termine «sacerdote minore» indica il fatto che un sacerdote non può celebrare lecitamente la Santa Messa se non ha l’autorizzazione effettiva o abituale del vescovo della diocesi. Nella celebrazione della Santa Messa, il sacerdote è in qualche modo sempre dipendente e subordinato al vescovo del luogo.
14. Nelle concelebrazioni eucaristiche non sacramentali, quando i sacerdoti o i vescovi assistono nel santuario senza paramenti da Messa, devono ricevere la Santa Comunione dalle mani del celebrante principale. Indossano la stola e, inginocchiati sul gradino superiore dell’altare, ricevono il Corpo di Cristo direttamente sulla lingua. Poi possono ricevere anche il calice del Sangue di Cristo. La loro partecipazione alla Messa e alla Santa Comunione dovrebbe essere in qualche modo distinta da quella di coloro che non sono ordinati sacramentalmente o non sono sacerdoti.
Un primo esperimento di concelebrazione… |
… e il ritorno oggi della Messa «privata», oltre a quella parrocchiale o conventuale. |
Conclusione
Per concludere, vale la pena di citare la seguente azzeccata osservazione di un grande teologo anglicano cattolico, il dottor Eric Mascall, riportata da padre John Hunwicke:
Se, scrive Mascall, si vuole far capire «a qualcuno in che cosa consiste veramente la corporalità della Messa», la cosa migliore da fare è portarlo in una chiesa con molte Messe private simultanee e dirgli che «i diversi sacerdoti che dicono le loro diverse Messe sui loro diversi altari non stanno facendo cose diverse ma la stessa cosa, che stanno tutti partecipando all’unica eterna Liturgia il cui Celebrante è Cristo e che il loro sacerdozio è solo una partecipazione a Lui…». La moltiplicazione delle Messe enfatizza la vera unità della Messa e la vera natura del carattere corporativo della Chiesa come nient’altro può fare… ciò che rende la Messa una e corporativa non è il fatto che molte persone sono insieme allo stesso servizio, ma il fatto che è l’atto di Cristo nel suo corpo (corpus) la Chiesa… Guardate quegli uomini ai loro diversi altari in tutta la chiesa, ognuno di loro apparentemente mormorando da solo e non avendo nulla a che fare con gli altri. In realtà, stanno tutti facendo la stessa cosa – la stessa essenzialmente, la stessa numericamente – non solo molte cose diverse dello stesso tipo, ma la stessa identica cosa; ognuno di loro sta prendendo la sua parte come sacerdote nell’unico atto redentivo che Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione, perpetua nella Chiesa che è il suo Corpo attraverso il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue (liturgicalnotes.blogspot.com, 13 marzo 2021).
Padre Hunwicke conclude dicendo: «Quanto sarebbe bello se la scena che descrive tornasse nella vita delle nostre chiese… immaginate la basilica di Lourdes ogni mattina con un continuo andirivieni di sacerdoti agli altari dei quindici misteri».
La celebrazione eucaristica è il segno più perfetto ed efficace della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, nella sua mirabile unità, costruita dalla diversità gerarchica. Pertanto, la pratica della concelebrazione eucaristica deve essere tale da dimostrare visibilmente questa verità in modo più chiaro. C’è un solo Cristo, unico capo e unico sommo sacerdote, che è il celebrante principale della Messa. La prassi originaria, universale e costante della concelebrazione eucaristica secondo la norma pristina dei Padri (pristina norma Patrum) è la forma particolarmente solenne, presieduta da un celebrante principale, che gerarchicamente deve essere distinto dagli altri concelebranti – uno che non solo è «primus inter pares», ma anche visibilmente un «capo», che rappresenta come «vicarius Christi» a diversi livelli – Papa, Legato Pontificio, Metropolita, Vescovo diocesano, Vescovo ordinante con mandato papale – l’Unico Capo Divino di tutto il Corpo. A tale forma di concelebrazione eucaristica si potrebbero applicare le parole di San Paolo sul Corpo mistico di Cristo: «Dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,16).
Il Corpo mistico di Cristo è una gerarchia organica e vivente di ordine e amore. E così dovrebbe essere la forma della celebrazione più solenne dell’Eucaristia, il sacramentum Corporis Christi, che è il sacramentum caritatis, poiché il senso più profondo del Corpus Christi Mysticum si rivela nel Corpus Christi Eucharisticum. Che la pratica della concelebrazione sacramentale eucaristica torni ad essere «bene ordinata… ad pristinam normam Patrum» ben ordinata secondo la norma dei Padri, che doveva essere un principio guida del rinnovamento della sacra liturgia del Concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum Concilium, 50) e della riforma tridentina di Papa Pio V (cfr. bolla Quo Primum).
Inutile.
RispondiEliminaCosa accadeva “prima” è irrilevante. Tutt’al più, può essere interessante dal punto di vista storico.
Adesso, le disposizioni sono queste. Fine.
Penso che il continuo uso della parola gerarchia parlando dell’Eucarestia sia un fattore sufficiente a dare a questi punti il valore che meritano, cioè esclusivamente STORICO. Bella storia, ma oggi, grazie a Dio, abbiamo maturato una consapevolezza che ci porta a vivere nell’Eucarestia un mistero di unione e non di divisione.
RispondiEliminaBell'articolo, fa cmq pensare...
RispondiEliminaNon sono favorevole alla celebrazione in solitaria (serve cmq almeno un chierichetto/ministrante/fedele), ma neanche alle concelebrazioni feriali tra pari... e neanche a quello "oceaniche"...
È buono che il presbitero celebri con la sua gente.
È bene concelebrare quando vi è il vescovo, un prevosto, che chiaramente presiede... in alcune occasioni all'anno: Messa Crismale, ordinazioni, feste patronali...
È bene evitare concelebrazioni a 300 m o a km dell'altare come alle GMG... dove vedi l'altare sullo schermo...
C'è anche la pratica nelle GMG di dare in mano agli accoliti le pissidi con particole da consacrare, mentre si pongono attorno all'altare, che non mi pare secondo Tradizione...
Estremamente interessante. La mente di Schneider è evidentemente molto ordinata e le sue riflessioni sulla concelebrazione mostrano un pensiero limpido, concreto e coerente: il caos oggi imperante richiama ad un ritorno al kosmos. Ma, viene da chiedersi: sono queste finezze liturgiche l'urgenza di oggi? Prima non bisognerebbe tornare all'integrità dottrinale? Se manca il Corpo, che è la Dottrina, a che serve l'abito, che è la Liturgia?
RispondiEliminaIl rischio, oggi, è di avere la bella forma dell'usus antiquior con un cuore ancora usus recentior! Sarò quaresimalista ma ciò che più occorre è una profonda conversione per tutti. Il resto ci sarà dato in aggiunta...