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domenica 24 marzo 2024

Suor Nazarena, la Reclusa dell’Aventino, e la Chiesa di oggi

La grande monaca "reclusa" di Roma. 
Chi scrive visitò, con i figli, qualche anno fa, la sua cella monastica: una grande emozione.
Grazie a Marco Tosatti per questo stupendo ricordo.
Luigi C.

18 Marzo 2024 
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Antonello Cannarozzo, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione questo ricordo di una religiosa camaldolese, reclusa per amore di Dio. Buona lettura e diffusione.
§§§

Suor Nazarena, reclusa al mondo per amore di Dio
Pietra d’inciampo per la Chiesa di oggi

In una Chiesa sempre più in uscita senza sapere dove andare, aperta al mondo con i suoi errori insieme all’ “ascolto dell’altro” più che alla sua stessa tradizione, priva ormai di una sua identità, ecco che l’esempio di una religiosa camaldolese morta circa trentaquattro anni fa, ma viva in chi ha conosciuto la sua storia, parliamo di suor Nazarena di Gesù, con la sua chiusura totale al mondo, ma aperta solamente a Dio, può diventare una pietra d’inciampo nel cammino di questa Chiesa moderna.
Nella vita si possono fare tante rinunce: per amore dei figli, del proprio partener, per la propria carriera, per un ideale politico, ma per qualcosa che non vediamo, non sentiamo se non nel nostro cuore e se lasciare tutto il nostro mondo per questo sentimento è veramente difficile, ma addirittura vivere da reclusa per questo è una vera follia per la nostra società che non comprende che questa suora era in realtà più libera che mai perché nel suo cuore poteva incontrare Dio in un amore assoluto ed unico.

Nei suoi scritti ci ha lasciato, forse, pur nella apparente semplicità, la chiave della sua vocazione: «Bisogna evitare tanto il tentare di offrire quel che è al di sopra delle forze del presente. Gesù guarda specialmente all’amore [di chi] offre. A Lui piace tanto anche una sola briciola … offerta con gioia, amore, fedeltà, [piuttosto] che un lauto pranzo offerto con scatti [d’impazienza] e [con] tristezza … per [avere] oltrepassa[to] le forze attuali. Bisogna andare avanti con umiltà, a poco a poco; così, l’anima si fortifica, prende coraggio».

Questa è la sua storia. Si chiamava Julia Crotta, sicuramente molti lettori già conoscono la sua vocazione, ma proprio in questo tempo quaresimale è utile per riflettere su ciò che sembra certo una pazzia, ma che interroga ognuno di noi su cosa significa per un cristiano dire veramente, con i fatti e non solo nelle parole, amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, senza frapporre nulla a questo amore.

Tutto cominciò per Julia nel 1907, il 15 ottobre festa di santa Teresa d’Avila, a Glastonbury nel Connecticut, negli Stati Uniti, da una famiglia cattolica di origine italiana. Fin da piccola dimostrò una grande vivacità di interessi che la portarono ben presto ad eccellere nella carriera scolastica arrivando a laurearsi con ottimi voti, ma senza mai tralasciare la sua passione per lo sport e per la danza. Insomma una ragazza completa che oggi definiremmo di successo.

Nonostante l’età da marito però non le passò mai per la mente l’idea di sposarsi e mettere su famiglia. Su questo argomento scrisse molti anni dopo, nel 1953, una lettera alla sua madre superiora nella quale raccontava che: «Da piccolissima, Dio mi diede grazie fuori dell’ordinario, e mi fece sentire, che io ero chiamata a qualcosa di grande, fuori del comune, ignota per allora – e prosegue – Sentivo pure che un giorno mi sarebbe dato di sapere questa via fuori dell’ordinario che ero chiamata a seguire».

Certamente allora pensava forse a qualcosa di mondano come una carriera nella vita civile, forse, chissà, anche un successo sportivo o nella tanto amata danza.

Ma tutto questo, come vedremo, non era certo il pensiero di Dio per questa sua creatura.

Gli anni passano e la ragazza nonostante sia ormai una donna, non ha le idee chiare per il suo futuro, anzi tutto è ancora incerto e confuso.

È indecisa sulla strada da intraprendere, troppe erano ancora le distrazioni della vita, ma un giorno, durante la Pasqua del 1934, accadde qualcosa di meraviglioso e strabiliante che le avrebbe cambiato completamente la vita.

Accogliendo l’invito di una suora, partecipò a un ritiro spirituale durante la Settimana Santa e in quei giorni, proprio nella notte tra il Venerdì e il Sabato santo, racconterà di una visione in cui Gesù stesso le dice semplicemente: «Vieni con me nel deserto», una frase che sarà scolpita per sempre nel suo cuore.

Quella notte la chiamerà “Nox beatissima”.

Come raccontò ancora alla sua madre superiora, quando era già reclusa: «In un solo colpo, con una grazia fuori dell’ordinario, Dio mi attirò con forza irresistibile a sé, al deserto».

Era certamente un segno del destino sulla strada da intraprendere, ma non fu certo un’impresa facile comprendere e mettere in pratica questo invito.

Per la giovane americana cominciò così una lunga e sofferta riflessione sul significato di quelle parole e un duro cammino spirituale da intraprendere.

Come erano lontani ormai nel suo cuore la carriera, lo sport, la danza.

Tutto era scomparso con quella frase.

Ormai, era presa dalla sua ricerca interiore e nel suo cuore si affollavano idee e progetti irrealizzabili o vaghi come vivere la vita di Gesù nel deserto della Palestina, progetti assai confusi che le venivano sconsigliati dai suoi confessori che, per fortuna, ascoltava sempre con grande ubbidienza tanto da scrivere anni dopo nel sua diario: «Non mi fido assolutamente di quanto provo, anche quando credo che venga da Dio. Mi fido invece di chi parla nel suo nome».

Ma cosa significava allora questa spinta irrefrenabile per il deserto, cosa le mancava per attuarlo concretamente?

Era la domanda che si poneva con maggior angoscia pensando di fallire davanti a Dio per non saperlo ascoltare, comprenderlo e, dunque, seguirlo nella Sua volontà. Forse, si domandava, ciò accadeva a causa dei propri peccati, almeno così credeva, e questo le comportava una indicibile sofferenza acuita maggiormente dalla incomprensione di chi le stava intorno.

Per dare però una regola alla sua vita, seguendo il consiglio del suo padre spirituale, dopo una breve permanenza al Carmelo di Newport, partì alla volta di Roma e, come a presagire la sua vera missione, le fu indicato il monastero delle camaldolesi di sant’ Antonio Abate sull’Aventino dove trascorse alcuni mesi di postulato e noviziato.

Passato il tempo però tornò in America, lasciando come fosse solo un ricordo la sua permanenza a Roma.

Venne accolta nuovamente nel Carmelo, ma qui ebbe tante amare delusioni vissute nel silenzio della propria sofferenza.

Dirà molti anni dopo di quegli anni in una lettera a don Anselmo Giabbani, Procuratore generale dell’Ordine camaldolese e suo padre spirituale, «Passai davvero attraverso il fuoco. Ero nel bel pieno della notte più terribile: quella dello spirito, e senza alcun aiuto o direzione».

Furono anni di tormento e di angoscia per non essere capace di capire cosa voleva Dio da lei, ma gli anni passavano e Julia pian piano dispose l’animo a convincersi che forse questa sua ricerca era in fondo una pia illusione e niente più.

Ma come nelle favole ciò che sembrava impossibile si realizzò in poco tempo.

La sua richiesta di essere di nuovo accolta dalle monache camaldolesi a Roma venne accettata, non solo, con il suo ritorno in Italia si avverava anche il suo sogno espresso di diventare una reclusa per amor di Dio all’interno del monastero, proprio come antiche tradizioni del passato.

Con grande solerzia scrisse la regola della sua reclusione senza concedersi nulla di sollievo: né una sedia, ma solo uno sgabello, né un tavolo, ma una piccola asse di legno che sarà il suo tavolo, il suo leggio e il luogo di studio, per letto una panca con una croce montata sopra senza un materasso, senza un cuscino solo con la sofferenza del suo corpo per stare più vicino alla sofferenza di Cristo, tutto in una stanza cinque metri per tre.

Di questa donna americana che cercava la solitudine si cominciava a parlarne negli ambienti ecclesiastici tanto che il 21 novembre del 1945 papa Pio XII la volle ricevere in udienza privata per soppesare le sue intenzioni.

Rimase assai colpito leggendo la severità della regola che si era imposta giudicandola fin troppo severa, ma vedendo l’umiltà e la fermezza della donna benedisse ugualmente il regolamento e il 15 dicembre del 1947 Julia fece la sua professione di vita religiosa e, per amore il Gesù, prese il nome di suor Nazarena di Gesù.

Il sacerdote che si era premurato per la sua sistemazione, l’accompagnò, ormai suora, nella sua cella dalla quale, come già ricordato, non uscirà più fino alla fine della sua vita.

Il suo regime alimentare consisteva in un po’ di pane e di acqua quasi tutti i giorni della settimana, inasprito durante la Quaresima e nei tempi penitenziali della Chiesa.

Solo in alcuni giorni venne aggiunto alla sua povera dieta un cucchiaino d’olio, qualche frutto, un po’ di verdura e, assai raramente, un poco di marmellata, una dieta che ricordava da vicino i Padri del deserto.

Ammetterà spontaneamente in un suo scritto: «Soffro la fame e ne sono contenta; altrimenti non avrei nulla da offrire, ma tutto questo è sopportabile».

Il silenzio era per lei un’esigenza vitale. Silenzio e solitudine: voleva stare sola con Dio solo e in preghiera continua per i bisogni delle anime.

Visse in queste condizioni, per quarantacinque anni, senza mai parlare o vedere nessuno, vivendo nel totale nascondimento fino alla sua morte, imitando concretamente le sofferenze di Gesù.

Avrà solo degli sporadici rapporti col padre spirituale e la madre superiora Ildegarde Ghinassi, a quest’ultima scriveva in una lettera datata 1975 «Gesù visse 30 sui suoi 33 anni sulla terra chiuso nella casetta colla Sua diletta madre e con S. Giuseppe – ciò quando regnavano idolatria, paganesimo, ecc.; quando avrebbe potuto convertire tante anime colla Sua predicazione, operando strepitosi miracoli, ecc. Egoismo? O il fare la volontà del Padre, nel posto da Lui voluto, nel modo da Lui voluto? Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie». Quello che conosciamo di suor Nazarena, della sua vita interiore e dei suoi ricordi autobiografici, lo dobbiamo a queste sue lettere per i suoi direttori spirituali.

Sei anni dopo la vita da reclusa fece la solenne professione di monaca camaldolese e, finalmente, il suo sogno eremitico e monastico si completava.

La sua giornata era scandita dal lavoro, spesso intrecciava le foglie di palme offerte al Papa per le celebrazioni pasquali, e dalla preghiera, studiava le Sacre Scritture, recitava la Lectio divina, assisteva alla S. Messa da una finestrella con grata, attraverso la quale riceveva ogni giorno la comunione.

Pur non avendo contatto con alcuno, la sua testimonianza parlava forse più di cento libri. Ancora oggi la sua testimonianza di silente santità perdura tra quelle mura, una memoria tanto vivida che ancora oggi, a più di 30 anni dalla sua morte, la sua storia continua a conquistare i cuori e a porre interrogativi sul sacrificio di recludersi per amore di Dio.

Suor Nazarena non si è mai mossa dalla sua piccola cella monastica, ma ha fatto proprio del silenzio la sua “parola”.

Chi pensava alla tristezza di una donna macerata dalle privazioni e dalla sofferenza si sbagliava di grosso. Padre Anselmo Giabbani, affermava che: «Per tutta la vita Julia, ormai suor Maria Nazarena, fu una donna forte, equilibrata, allegra», altro che una donna depressa! Anzi, in una delle sue lettere scritta due anni prima di morire: «Mai, in questi 43 anni, ho provato tristezza, noia; al contrario una gioia sempre nuova, che non perde la sua freschezza. Come quella dell’eternità»,

Per comprendere la sua vita dobbiamo capire la sua offerta totale e incondizionata di sé alle sofferenze di Cristo, tutto per il bene delle anime e della Chiesa, nella grazia di un totale nascondimento: «La supplico di non dire più nulla di me, lasci cadere tutto nel vuoto, nel silenzio» è questa la frase diretta al suo padre spirituale che racchiude, a nostro avviso, anche il suo testamento spirituale.

Il 7 febbraio 1990, proprio il giorno in cui la Chiesa ricorda san Romualdo, fondatore dell’ordine camaldolese, “l’amica di Dio”, come veniva ormai chiamata, rendeva l’anima al Cielo lasciando per sempre il tanto amato e ricercato deserto.