Cari amici di 300 denari (seguiteci su Instagram, Telegram, Facebook o X per i nostri approfondimenti di economia, finanza e d'impresa in ambito cattolico), di seguito riproponiamo una recente pubblicazione dell'amico economista Carmelo Ferlito (in calce il CV*) che vi avevamo già fatto conoscere in ottobre.
Ci scrive Carmelo che si tratta di una pubblicazione "non accademica, ma davvero sentita alla luce di tutta la mia esperienza di vita fino a qui".
Qui trovate il link al testo originale in inglese e di seguito proponiamo la versione in italiano curata dall'autore.
La domanda centrale a cui cerca di rispondere Carmelo è: "Il lavoro è [...] una fonte di dolore come risultato di una punizione o un piacere appagante come risposta alla nostra natura di figli di Dio?". Di seguito, la risposta che propone nella sua pubblicazione.
La presente riflessione nasce da quella che mi sembra essere una dicotomia, all’interno della riflessione cristiana, tra due visioni apparentemente contrastanti sulla natura del lavoro umano. La prima e più ovvia interpretazione è quella che si può ricavare direttamente dal libro della Genesi: dopo la caduta, Dio “punisce” Adamo ed Eva e, rivolgendosi in particolare all’uomo, Dio dice:«Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita.Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre.Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Genesi, 3,17-19).Seguendo questa visione, il lavoro è dolore (sudore). Tale visione è evidente in alcune combinazioni di parole nelle lingue europee; ad esempio, quello che in inglese è il labour della donna partoriente, in italiano diventa travaglio. La radice di travaglio si trova nelle parole per “lavoro” in francese (travail) e spagnolo (trabajo), ma anche nei dialetti dell’Italia meridionale (in Sicilia, lavorare si traduce in travagghiare). L’evoluzione spontanea dei linguaggi lungo i secoli, dunque, sembra confermare l’associazione tra lavoro e dolore.Ma possiamo anche osservare l’emergere di una visione parallela che sottolinea la natura creativa del lavoro; infatti, gli esseri umani sono gli unici esseri viventi capaci di creatività ontologica: solo gli uomini possono vedere una lancia osservando una pietra e un bastone. In quanto homo creator, l’uomo riflette il fatto di essere stato creato ad immagine di Dio. La naturale evoluzione di una tale visione è pensare al lavoro come vocazione, ovvero la possibilità di mettere i propri talenti, che implicano sempre una sorta di creazione, al servizio della creazione di Dio. Gli esseri umani cercano la loro vocazione, spesso interpretata come un lavoro appagante, e come cristiani possiamo vedere nella possibilità di fare un lavoro che percepiamo come corrispondente alla nostra natura un modo migliore anche per servire Dio. In quanto tale, il lavoro non è una fonte di dolore ma piuttosto una fonte di piacere.Il lavoro è allora una fonte di dolore come risultato di una punizione o un piacere appagante come risposta alla nostra natura di figli di Dio? Questa mi sembra una dicotomia che dobbiamo fuggire. Come? Il punto di partenza dovrebbe essere la parola vocazione, e la precisazione sul suo significato. Qual è la nostra vocazione di cristiani? È davvero fare un lavoro che ci piace e che troviamo appagante? La parola vocazione si può tradurre anche in chiamata e la nostra chiamata di cristiani è semplicemente una chiamata alla felicità totale e senza compromessi. Una tale affermazione può suggerire che propendiamo per la seconda interpretazione della parola lavoro: non così in fretta.All’origine della pretesa cristiana troviamo infatti l’affermazione che Gesù sia il senso della vita: non la soluzione ai problemi umani, ma una risposta ad essi, una compagnia tangibile che rivela il vero senso delle cose. Questa è la felicità.Tale relazione è una relazione d’amore e come tale è fatta di un avvenimento miracoloso e di una cura costante e reciproca. Il punto di tensione di tale rapporto d’amore dovrebbe essere il fatto che «l’anima […] non trova più riposo in nulla che non sia Dio» (Edith Stein, Scienza della Croce). Come diceva san Giovanni della Croce, «per queste piaghe d’amore non si può ottenere medicina se non da Colui che le provoca» (Cantico spirituale). Infatti, quando sperimentiamo l’amore, non desideriamo solamente essere alla presenza costante dell’Amato? La natura del lavoro e della vocazione, quindi, non può essere compresa se non alla luce di un tale intimo rapporto con Dio. Come uomo ho avuto la fortuna di vivere diverse soddisfazioni e realizzazioni mondane, in termini di relazioni e realizzazioni professionali. Ma più ho possibilità di crescere nel mio percorso professionale più riconosco che nessuna soddisfazione è paragonabile ad un momento trascorso in silenzioso amore con l’Amato. Quindi, la nostra vocazione alla felicità è in definitiva vivere in pienezza di spirito la relazione d’amore con Dio.Facciamo un altro passo. Qual è la più alta forma di amore se non il sacrificio? Infatti, Dio ci ha mostrato il suo amore per noi donandoci la vita, la morte e la risurrezione di suo figlio Gesù Cristo. Il Verbo si è fatto carne: questo è l’atto di amore più grande: Dio che si fa uomo, nasce da donna, soffre e ci mostra la Vita Eterna che ci aspetta e che possiamo sperimentare in anticipo continuando a vivere rispondendo all’amore che ci ha già dato. La forma più alta dell’amore è stata la Croce: «Il vero messaggio della sofferenza è una lezione d’amore. L’amore rende feconda la sofferenza e la sofferenza approfondisce l’amore» (Giovanni Paolo II, Omelia per la canonizzazione di Edith Stein, 11 ottobre 1998).Nell’esperienza di un amore così stupefacente, ogni compimento umano perde di significato e può riacquistarlo solo se restituito a Lui per amore. Il lavoro allora può davvero essere vera gioia e appagamento, ma solo grazie alla sua parte dolorosa – e così conciliamo le due visioni.1. La gioia viene dall’Amore.2. Il vero amore è sacrificio (la Croce).3. Il Lavoro come Sacrificio (Croce) è dunque Amore.4. Il lavoro può essere felicità solo come Croce.Il lavoro è Gioia non perché crea soddisfazione ma solo come Croce. La Croce infatti è vera Gioia come imitazione e partecipazione all’Amore di Cristo. Il lavoro è Gioia perché la Croce è Gioia e il Lavoro può essere Croce.La parte dolorosa del lavoro non è quindi un’obiezione alla gioia, ma il suo necessario prerequisito. Ma qui occorre fare un’ultima precisazione. Quando Dio “punisce” Adamo ed Eva condannandoli al sudore, dobbiamo renderci conto che la vera natura del dolore inflitto non è il sudore in sé, ma il fatto che essi che vengano cacciati dal Giardino: il dolore e il sudore provengono dall’essere lontano da Dio.Allo stesso modo, il vero aspetto doloroso del lavoro non è la normale fatica o stress che percepiamo in esso; queste sono solo la parte più tangibile di esso. Il vero dolore del lavoro consiste nel tempo che non possiamo trascorrere nella contemplazione amorosa del nostro Amato: è il tempo sottratto alla contemplazione e al nostro rapporto intimo con Dio.Da qui, dunque, la necessità di lottare per vivere – come tensione – il nostro lavoro in spirito contemplativo. Cosa significa? Significa che dovremmo vivere ogni momento di lavoro con nostalgia per il nostro Amato, con tensione verso di Lui, cogliendo l’occasione che ogni momento dedicato con amore al nostro lavoro sia un momento che ci avvicini a Lui e acceleri il nostro ritorno a Lui, la nostra intima unione con Lui.Questo renderà il nostro lavoro fecondo, ben oltre la dicotomia tra dolore e gioia: esso sarà una mistica unione d’amore.
* Attualmente Carmelo vive in Malesia dove ed è CEO del Center for Market Education, un think-tank di orientamento liberista da lui fondato e con sedi a Kuala Lumpur (Malaysia) e Jakarta (Indonesia). È inoltre Senior Fellow dell’Institute for Democracy and Economic Affairs di Kuala Lumpur. Carmelo collabora anche con Provalindo Nusa Property (Indonesia) come Research Advisor e con la Property Rights Alliance di Washington, DC, come Senior Fellow. È inoltre Visiting Professor presso la Taylor’s University di Subang Jaya, Malaysia.
Gabriele
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