No, non ci siamo piegati al maggiormente noto fra i mantra del più bieco ideologismo femminista: lo abbiamo preso in prestito per volgerlo in senso tradì – anzi, in senso cattolico - e, come avrete già compreso, riferirlo alla condizione in cui versiamo dopo Fiducia supplicans.
Quel mantra, infatti, suggerisce che non è possibile sopportare oltremodo una situazione perniciosa, che non si può più rimanere inerti in proposito. Esprime bene, perciò, i nostri sentimenti nel difficilissimo momento in cui si trova attualmente la Santa Chiesa; un momento così angosciosamente problematico che non si sa bene come e dove incominciare a descriverlo.
Basti dire che stiamo assistendo ad una conclamata spaccatura della comunità cattolica: a memoria vostra era mai accaduto che, dopo un pronunciamento ufficiale ed autorevole del Vaticano, interi episcopati, ordini religiosi, associazioni sacerdotali, comunità di rito non romano, singoli vescovi, ecc. ecc., prendessero ufficialmente posizione per dissociarsi e per dire che non lo applicheranno? O che autorevoli cardinali affermassero pubblicamente che ciò che la dichiarazione prevede è blasfemo?
Certo, di fronte ai pronunciamenti romani ci sono sempre state voci dissenzienti, in genere provenienti dalle frange moderniste (tutti ricordiamo bene che accadde dopo la pubblicazione di Dominus Iesus o, per restare al tema che ci è più caro, dopo Summorum Pontificum), ma una reazione solenne e ufficiale come quella attuale mi sembra proprio che non la avessimo ancora conosciuta.
Forse non ci rendiamo pienamente conto della gravità della cosa, assuefatti come siamo al vociare continuo di chicchessia, e al susseguirsi inesausto di notizie e notiziuncole, che ci rendono incapaci di capire che cosa sia davvero importante e che cosa non lo sia. Ma basterebbe considerare che sarebbe mai accaduto se, quando fu promulgato il nuovo messale, un bel po’ di conferenze episcopali avesse assunto ufficialmente la decisione di non applicarlo e di continuare a celebrare col messale di S. Pio V. Sarebbe stata una cosa enorme.
Naturalmente, potrebbe essere facile rubricare tutto ciò come ribellismo, e condannarlo d’emblée all’esecrazione, per ragioni – diciamo così – di metodo. In proposito, però, è significativo che, finora, contro chi rigetta Fiducia supplicans non sia stata ancora agitata l’accusa di disobbedienza, di rottura della comunione ecclesiale. Forse gli sponsor della benedizione per todos, todos, todos non hanno ancora raggiunto un simile livello di spudoratezza.
Perché, purtroppo, è ben chiaro a tutti, anche ai suoi supporter, che di fronte a Fiducia supplicans non si può più fare il pesce in barile: bisogna schierarsi, o di qua o di la. E non è chi sceglie la fede perenne della Chiesa che ne romperà la comunione. È chi, abusando del suo potere, vorrebbe imporre a tutti un’opzione chiaramente contraria alla Verità: così chiaramente opposta al Vangelo che non se ne avvede solo chi pertinacemente non vuole vederlo. Per accorgersi di quello che sta accadendo, infatti, non ci vuole una laurea in teologia: basta aver frequentato con un minimo di diligenza un normale corso di catechismo (di catechismo cattolico, ça va san dire; non un corso di disegno stile Rupnik per il rimbecillimento dei fanciulli).
Per cui, davvero: se non ora, quando? Se non paleremo oggi, quando lo faremo? Se ci sforzeremo ancora e per l’ennesima volta di violentare la realtà, cercando di convincerci che va tutto bene e che non c’è nulla di eterodosso in ciò che accade, quando apriremo gli occhi? Se preferiremo la nostra comfort-zone (che si tratti di una piccola sinecura, o di un bel palazzo episcopale…), quando ci metteremo seriamente in gioco per il Signore? Ormai è chiaro, ahimè, che chi tace, chi si volta dall’altra parte, chi non grida dai tetti - ciascuno, ovviamente, secondo il suo status (ivi incluso quello di blogger: ecco perché MiL è così “sul pezzo” quanto a Fiducia supplicans) - è complice. E parlare, oggi, significa applicare senza sofismi Matteo, 5, 37: sit autem sermo vester, est, est: non, non: quod autem his abundantius est, a malo est (sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno).
Sottolineo l’importanza di parlare secondo il proprio stato. Da un vescovo, da un teologo, da un confessore o da un direttore spirituale non ci aspettiamo identiche reazioni; e anche dai semplici fedeli ci attendiamo l’adempimento di distinti doveri. A qualcuno, dunque, compete dar voce all’indignazione del popolo fedele; ad altri proteggere i più deboli dalla corruzione della fede e dal favoreggiamento del peccato; ad altri rassicurare i buoni cattolici che nulla è perduto, se si persevera lungo la via della penitenza, dei sacramenti, della preghiera indefessa; ad altri ancora indagare se tutto ciò che ci viene proposto come magistero sia realmente tale, o si debba concludere che un «insegnamento pontificio o dei vescovi che contraddica apertamente e deliberatamente l'insegnamento perenne dei precedenti concili e pontefici non è un insegnamento magisteriale, proprio perché non è in accordo con l'insegnamento dottrinale magisteriale del passato» (ved. qui), anche perché «l’ambiguità deliberata o persistente - tutto ciò che alimenta l'incomprensione o sembra lasciare spazio a un comportamento oggettivamente peccaminoso - non è da Dio. E si traduce inevitabilmente in un danno per le anime individuali e per la nostra vita ecclesiale comune» (ved. qui); e così via. Tutti, però, siamo tenuti a riaffermare che, anche in questa atmosfera surreale, la Chiesa permane indefettibile, e portae inferi non praevalebunt super eam; ma anche che ciò non ci autorizza a tentare la Provvidenza, fare spallucce e attendere passivamente che il Signore risolva il problema.
Non possiamo più nemmeno nasconderci dietro il timore che, parlando, si ottenga l’effetto opposto, si susciti una qualche crudele persecuzione (la persecuzione c’è già, lo sappiamo tutti), si provochino eresie più radicali. Ormai il silenzio è raramente espressione di santa prudenza, molto più spesso manifesta solo una diabolica viltà: ma ciò di cui dobbiamo avere realmente paura è solo di smarrire la carità, la cui più nobile manifestazione è la testimonianza della Verità. Quando parliamo, non dobbiamo farlo per dar voce alla nostra ira, per acuire divisioni fini a sé stesse, ma solo per amore: di Cristo, della Chiesa, dei poveri peccatori abbandonati nei lacci del loro peccato (evidentemente, pregare di non essere abbandonati nella tentazione è già passato di moda…), di tutti i nostri fratelli e – specie quanto ai laici – dei nostri pastori, nessuno escluso.
In questo tempo in cui iustus perit, et non est qui recogitet in corde suo; et viri misericordiæ colliguntur, quia non est qui intelligat (perisce il giusto, nessuno ci bada; i pii sono tolti di mezzo, nessuno ci fa caso – Isaia, 57, 1), preghiamo di non essere proprio noi coloro che il profeta chiamava canes muti non valentes latrare (cani muti, incapaci di abbaiare – Isaia, 56,10).
Enrico Roccagiachini
NB: QUI l'elenco dei presuli, delle conferenze episcopali, ecc.,
che si oppongono a Fiducia supplicans