Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera numero 988 bis pubblicata da Paix Liturgique il 21 dicembre 2023, in cui il giornalista Rémi Fontaine, tra i promotori del Pellegrinaggio di Pentecoste, riprende i Dialoghi dello scrittore cattolico (e conservatore) Louis Salleron per rispondere alle affermazioni di mons. Éric Marie de Moulins d’Amieu de Beaufort, Presidente della Conferenza episcopale francese, secondo il quale la Chiesa in Francia ha un problema con i fedeli tradizionalisti e «Cristo non è venuto a costruire nazioni cattoliche» (QUI).
L.V.
Secondo mons. Éric Marie de Moulins d’Amieu de Beaufort, Presidente della Conferenza episcopale francese, in risposta a un seminarista, se c’è un problema con i «tradizionalisti» è soprattutto una questione di teologia politica e di rapporto con il mondo: «La dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II è molto chiara. Cristo non è venuto a costruire Nazioni cattoliche; è venuto a fondare la Chiesa. Non è la stessa cosa. A causa della nostra nostalgia per uno Stato cattolico, stiamo perdendo la nostra energia per l’evangelizzazione». E per citare in particolare il Pellegrinaggio di Pentecoste (Parigi - Chartres)…
In un libretto intitolato Dix dialogues sur la crise de l’Eglise (DMM, 1983), sorprendentemente attuale e (post)moderno, lo scrittore Louis Salleron gli aveva già risposto alla maniera di un Socrate cristiano. Questo è il sesto dialogo sulla politica della Chiesa, ma tutti gli altri dialoghi meritano di essere (ri)letti in questi nuovi tempi di crisi (soprattutto quelli sulla Messa, la morale, il futuro della Chiesa, il Papa…). Offrono la ricchezza di fornire spunti di riflessione al loro interlocutore (o lettore) cattolico senza prendere decisioni, in un modo maieutico che mette in luce paradossi che non sarebbero certo dispiaciuti a Gilbert Keith Chesterton.
Posso evidenziarne solo uno (di paradosso) con qualche frammento già eloquente: «Un veleno permanente della Chiesa è la politica. Ma non possiamo farci nulla. Poiché la Chiesa è una società, è politica… In questo senso, le sue attività sono secondarie e subordinate alla sua stessa missione». Fino a questo punto, mons. Éric Marie de Moulins d’Amieu de Beaufort poteva senza dubbio essere d’accordo con questa affermazione. Padre Raymond Léopold Bruckberger O.P.: «Felice giorno in cui, per forza di cose, la Chiesa sarà ridotta alla sua missione essenziale: custode infallibile del Vangelo, del deposito della fede, dell’integrità dei sacramenti, annunciatrice di colui che deve venire!». Se non fosse che padre Bruckberger, come sottolinea Louis Salleron, evocava profeticamente la «scelta tragica» che, a suo avviso, i Papi avrebbero dovuto affrontare di lì a poco: o adire Cristo e passare al nemico per conservare le «vesti» del cesaropapismo; o rifiutare definitivamente ogni ruolo politico, per assicurare unicamente, anche attraverso il martirio, la funzione di Vicario di Cristo e di pastore di anime (Toute l’Eglise en clameurs, Flammarion, 1977, p. 68).
Sembrerebbe che la Chiesa post-conciliare non abbia ancora scelto veramente tra le due alternative, essendo più dipendente dalla politica di quanto pensi, o comunque più «avvelenata» o subdola dei «tradizionalisti» che stigmatizza caricaturalmente. I più politicizzati (nel senso di una confusione tra spirituale e temporale) non sono necessariamente quelli che immaginiamo! «Tra una Chiesa cristiana e una Chiesa delle catacombe, pensano oggi i nostri Vescovi liberali, deve esserci spazio per una Chiesa libera in una società che la accetta senza riconoscerla come unica detentrice della verità. In una tale società, la Chiesa non può astenersi da qualsiasi ruolo politico». Senza dubbio, ma «si tratta allora di sapere quale debba essere questo ruolo politico e quanta importanza gli si debba attribuire». Il risultato è tutt’altro che soddisfacente: non vediamo forse troppo spesso i resti («les défroques») di un vecchio potere clericale che, per esistere e sopravvivere, si secolarizza, cioè antepone le preoccupazioni sociali, ecologiche e politiche alla sua missione soprannaturale, che è diventata secondaria? È un po’ come il cattivo «spirito del Concilio Vaticano II». E le sue estensioni. Ma anche la sua «aporia», come spiega il card. Joseph Aloisius Ratzinger in Eglise, œcuménisme et politique, che Louis Salleron non cita, e a ragione (Fayard, 1987, p. 288):
Dall’aporia del card. Joseph Aloisius Ratzinger…
Esiste un’incompatibilità tra la pretesa pluralista dello Stato democratico moderno e la pretesa della Chiesa di appellarsi a una verità più grande o più alta. Da un lato, il nuovo diritto alla libertà religiosa (ereditato dal Concilio Vaticano II) riconosce la legittimità di uno Stato cosiddetto pluralista, che si suppone «incompetente» in materia religiosa¹. D’altra parte, la Chiesa è il «luogo di una dimensione pubblica assoluta, che supera lo Stato grazie alla pretesa di Dio che la rende legittima» (Robert Spaemann). La sua rivendicazione della verità di fede, in quanto tale, è una rivendicazione pubblica alla quale non può sottrarsi lo Stato, che deve anche rendere a Dio ciò che è di Dio. Da qui il paradosso enunciato dal card. Ratzinger: «Se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non fa per lo Stato proprio ciò di cui quest’ultimo ha più bisogno. Ma se lo Stato assume questa pretesa, si elimina come Stato pluralista, e la Chiesa e lo Stato si perdono». Dobbiamo quindi uscire da questo brutto dilemma. Ma come?
Possiamo vedere la doppia impasse di questa aporia, che è tanto difettosa nel suo comune maggiore quanto il ragionamento dello stesso Arcivescovo di Reims (successore di San Remigio!): no, non c’è necessariamente incompatibilità tra le due pretese (temporale e spirituale). La Chiesa non si riduce, come stiamo vedendo in Francia, a diventare una mera parte dell’insieme delle «forze sociali», con il rischio di abbandonare la sua missione divina di insegnare con autorità la verità e i valori universali di cui è custode. In altre parole, rischia di alienare o dissolvere la sua Rivelazione e di perdere anche se stessa attraverso l’integrazione «nel pantheon di tutti i sistemi di valore possibili» (la dittatura del relativismo). Allo stesso tempo, perde la sua energia per l’evangelizzazione soffermandosi sull’utopia di uno Stato neutrale che si suppone non confessionale, anche se il più delle volte professa il culto dell’uomo senza Dio². Lo Stato non è nemmeno condannato a diventare teocratico (indistinguibile dal religioso) nel caso (attualmente improbabile) che riconosca il diritto superiore della Chiesa in materia religiosa e morale, il che non impedisce un certo grado di tolleranza e pluralità religiosa.
… all’alternativa di padre Raymond Léopold Bruckberger O.P.
La storia e la tradizione, insieme al Cristianesimo e alle Nazioni cattoliche, offrono il principio di una giusta soluzione che, pur non essendo priva di inciampi e derive (sempre il «veleno» della politica o del «clericalismo»), può essere riassunta nella teoria classica della doppia sovranità dei poteri (temporale e spirituale). La lettera enciclica Quas primas sulla regalità di Cristo afferma: «Gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli». Non meno, ma ovviamente in modo diverso (come si finge di non capire), poiché il suo Regno non è di questo mondo. Ma quando, per la forza degli eventi, la secolarizzazione galoppante e l’apostasia, la mescolanza delle culture, tutto questo non sarà più possibile? La distinzione, insegnata dalla Chiesa per unire, merita certamente di essere riconsiderata secondo il principio di realtà, che non toglie nulla al principio dottrinale, come proposto da Papa Benedetto XVI come teologo politico e con la sua ermeneutica della continuità.
Certo, la comunità soprannaturale di persone che è la Chiesa fondata da Cristo non è la stessa cosa della società temporale di famiglie che è la Nazione (voluta dal Creatore) e che la Chiesa deve informare (in senso filosofico) qualunque sia l’unità o la divisione delle fedi in atto. Ma se non riesce più a trovare una certa corrispondenza culturale, la Chiesa dovrà inevitabilmente agire come controcultura, come fece per i primi Cristiani, con quelle che il Papa emerito chiamava «minoranze creative» o «isole di Cristianità». L’energia dell’evangelizzazione, che va dalle catacombe al Cristianesimo attraverso la missione, non deve appassire e perdersi all’indietro nel nuovo pantheon dello Stato moderno. Questo ci riporta all’esclamazione di padre Bruckberger («Jour heureux…»). O a Péguy, il cui pellegrinaggio a Chartres a Pentecoste recupera l’energia della nuova evangelizzazione con la grazia dei nuovi inizi: «La Francia e la Cristianità devono risorgere!». Charles Péguy, di cui Jean Madiran parafrasa anche lo spirito: – Vede, Monsignore, è un grande mistero: non basta avere fede. Siamo fatti per vivere la nostra vita temporale nel Cristianesimo. Altrove, quando non si tratta di martirio fisico, sono le anime che non possono più respirare.
¹ È uno strano nodo gordiano questo nuovo diritto alla libertà religiosa che la Chiesa post-conciliare, in una sorta di contraddizione interna, pretende di riconoscere se non di imporre civilmente agli Stati divenuti incompetenti per principio in materia religiosa! La Chiesa insegna allo Stato che la Chiesa rinuncia ad ogni precedenza religiosa nei confronti dello Stato, che deve accettarla religiosamente come diritto politico di tutti, la cui affermazione si basa sul non riconoscimento da parte dello Stato dell’insegnamento della Chiesa! Ma su quali basi e con quale diritto?
² Vedi Ni laïque ni musulman (2010), Sous le signe d’Antigone (2012) o Après la Chrétienté (2023) pubblicati da Contretemps.
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