Brutte notizie dalla Cina.
Luigi
Sandro Magister, 7-11-23
In un mondo squassato dalle guerre di Terra Santa, d’Ucraina e non solo, la Cina è il convitato di pietra, temibile, incombente, enigmatico.
Limitando il campo d’osservazione al fenomeno religioso, anche qui la Cina è un enigma. E lo è anche per la Chiesa cattolica. L’intesa siglata nel 2018 tra Roma e Pechino sulla nomina dei vescovi ha fin qui prodotto effetti più problematici che risolutivi. Delle 99 diocesi ridisegnate dal regime, un buon terzo sono ancora scoperte e le ultime due nomine sono state decise unilateralmente dalle autorità comuniste, obbligando il papa a sottoscriverle “ex post”.
Non solo. A capo delle due diocesi maggiori, quelle di Pechino e di Shanghai, il regime ha oggi al suo servizio due vescovi che sono a loro volta, rispettivamente, i presidenti dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi e del Consiglio dei vescovi cinesi, cioè dei due organismi tramite i quali il partito comunista controlla e governa la Chiesa. Al Sinodo che si è tenuto a Roma in ottobre, i due vescovi in rappresentanza della Cina continentale hanno avuto il lasciapassare per Roma – valido solo per una decina di giorni – con questa formula eloquente e umiliante: “La Chiesa locale d’intesa con le autorità ha presentato due nomi e il Santo Padre li ha inseriti tra i membri di sua nomina”.
Hong Kong era l’ultima oasi di libertà, anche per i cattolici che in questa metropoli hanno un ruolo importante. L’attuale suo vescovo e cardinale, Stephen Chow Sau-Yan, fa il possibile per resistere, ma il viaggio “ponte” che ha compiuto a Pechino lo scorso aprile su invito del vescovo della capitale Joseph Li Shan e che sarà ricambiato a metà novembre dalla visita di questi a Hong Kong rappresenta piuttosto, per le autorità comuniste che l’hanno voluto, un passo avanti nel piano di totale annessione e sottomissione dell’ex colonia britannica.
Un piano che corrisponde alla più generale volontà di “sinizzazione” che Xi Jinping sta applicando in Cina a tutte le religioni, e che il neovescovo di Shanghai Joseph Shen Bin ha sposato come una sorta di invalicabile ”linea rossa”, in una lunga intervista programmatica sulla rivista della sua diocesi, diffusa il 20 ottobre:
“C’è una lezione profonda che dobbiamo imparare dagli errori del passato che non devono essere ripetuti. Dobbiamo aderire al principio del patriottismo e dell’amore per la Chiesa, aderire al principio dell’indipendenza e dell’autonomia nella gestione della Chiesa, aderire al principio della democrazia nella gestione della Chiesa e aderire alla direzione della sinizzazione della Chiesa cattolica. È un confine che nessuno può oltrepassare, ed è anche una linea sensibile, che nessuno dovrebbe toccare”.
Oltre che presidente della pseudo conferenza episcopale cinese, Shen Bin è anche vicepresidente della Conferenza politica consultativa del popolo cinese, l’organo con più di duemila delegati chiamato ad approvare a scatola chiusa le decisioni del presidente Xi e della leadership del partito comunista.
Shen Bin ha concluso la sua intervista con un caloroso invito ad accorrere da tutto il mondo a “vedere sul campo com’è la Chiesa in Cina”.
Ma a volersi limitare alle statistiche, le cifre non forniscono un’immagine vitale della Chiesa cattolica in Cina. Un missionario italiano a Hong Kong, Fabio Cavata, in una sua recente tesi di dottorato, ha constatato che nei seminari cinesi si è calati dalle 2400 presenze nell’anno 2000 alle 420 del 2020. Più in generale, il cattolicesimo in Cina non risulta affatto in espansione. Un forte limite alla crescita è dato dalla proibizione assoluta di affiliarsi a qualsiasi religione prima di aver compiuto 18 anni e dal divieto di insegnare il catechismo ai minorenni, in qualsiasi luogo e modalità.
Nel 2004 – ultimo dato ufficiale disponibile, escludendo dal calcolo Hong Kong e Macao – in Cina i cattolici erano più concentrati nelle regioni meridionali costiere e nelle province di Hebei, Shanxi e Shaanxi, come si può vedere dal grafico in questa pagina.
E oggi? All’impossibilità per gli istituti di ricerca occidentali di condurre liberamente indagini sulle religioni in Cina, si sopperisce vagliando le ricerche degli istituti demografici cinesi, specie universitari.
È quanto ha fatto recentemente l’autorevole Pew Research Center di Washington, con una serie di pubblicazioni ricchissime di dati dal titolo generale “Measuring Religion in China”, accompagnate da un utile decalogo per avvertire quanto il fenomeno religioso in questo paese sia un caso unico al mondo, quanto mai difficile da decifrare.
A complicare il quadro è anche il vocabolo e il concetto di religione, tradotto “zongjiao”, che in Cina sta per religione organizzata alla quale si può o no appartenere, come il cristianesimo o l’islam, diversamente da quelle credenze e pratiche più fluide e dai confini tra loro permeabili come il buddismo, il confucianesimo, il taoismo, di cui molti attingono all’una o all’altra tradizione senza derivarne, con ciò, di appartenervi.
Ciò comporta che meno di un cinese su dieci afferma di appartenere a una religione, con un netto calo dal 12 per cento del 2010 al 6,5 per cento del 2021. I cristiani di ogni confessione che si dichiarano apertamente tali sono appena l’uno per cento della popolazione.
Ma nello stesso tempo il 62 per cento dei cinesi ritiene benefico scegliere i giorni augurali per compiervi particolari atti, il 47 per cento crede nell’efficacia soprannaturale del “fengshui”, cioè del disporre con un particolare ordine armonico gli oggetti, il 33 per cento dice di credere in Buddha o in un Bodhisattva, il 26 per cento dice di bruciare incenso a divinità dei culti popolari e il 18 per cento afferma di confidare in divinità taoiste.
Al partito comunista è iscritto un cinese su cinque, in cifre assolute 281 milioni di cittadini. È un partito che per principio promuove l’ateismo e scoraggia la pratica religiosa. E infatti nessuno dei suoi tesserati dichiara di appartenere a una della cinque religioni ufficialmente riconosciute: buddismo, cattolicesimo, islam, protestantesimo e taoismo.
Però si tollera che molti iscritti al partito visitino occasionalmente dei templi, oppure pratichino dei culti tradizionali, pena l’espulsione se lo fanno troppo frequentemente e visibilmente.
Mentre le chiese e i luoghi di preghiera cristiani sono sottoposti a ferrei controlli e non pochi vescovi sono agli arresti, mentre più di un milione di musulmani dello Xinjiang sono detenuti in campi di rieducazione, i templi taoisti sono cresciuti in dieci anni da 3 mila a 9 mila e i templi buddisti da 20 mila a 33 mila 500.
Non hanno avuto una pari crescita, però, i monaci e le monache addetti a questi templi. Il divieto assoluto di dare una formazione religiosa ai minori di 18 anni rende arduo il passaggio della vita monastica da una generazione all’altra.
A favorire l’afflusso nei più celebri luoghi sacri del buddismo, come sul monte Jiuhua, o del taoismo, come sul monte Wudang, oggi con più di 10 milioni di visitatori annui ciascuno, è anche l’aumento travolgente del turismo interno alla Cina.
I più sono semplici visitatori. Ma non sono pochi nemmeno quelli che bruciano incenso nei templi o dicono di recarsi lì per impetrare buona fortuna.
Il comunismo, insieme con l’islam, è un cancro che corrode e corrompe l’uomo. Speriamo che Dio liberi presto il mondo da entrambi e che ogni creatura umana aderisca al Vangelo di Cristo.
RispondiEliminaUn altro disatro compiuto da questo pontificato. Che vergogna
RispondiElimina