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domenica 30 luglio 2023

Prospettive tradizionali della filosofia - parte 1: il Volontarismo

Vi proponiamo – in nostra traduzione – questo interessante articolo di Nicholas Rao, laureato presso la Catholic University of America e dottorando di ricerca in filosofia presso la Saint Louis University, pubblicato sul sito OnePeterFive il 27 luglio.
In esso l’autore dà avvio ad una serie di articoli in cui affronta e descrive, in ottica storica, le principali scuole filosofiche con una prospettiva cattolica tradizionale.
Questa prima parte si concentra sulla corrente del Volontarismo, partendo dal 1209 e la fondazione dell’Ordine dei Frati Minori.

L.V.


Questa serie di articoli è il prodotto di un interesse e di una preoccupazione. Il mio interesse, come studente di filosofia, è quello di servire un pubblico cattolico più ampio demistificando le scuole filosofiche e gli «ismi» che sono rilevanti per la storia cattolica moderna. La fenomenologia, ad esempio, nella mente di molti Cattolici di mentalità tradizionale, tende a evocare associazioni sospette con le tendenze «moderniste». Tuttavia, la fenomenologia merita di essere compresa, considerando la sua influenza su Dietrich von Hildebrand, William Marra e altri fondatori del Tradizionalismo.

La seconda motivazione che mi spinge a scrivere – la mia preoccupazione – è che i Cattolici sono spesso tentati da una narrazione semplicistica secondo la quale il Concilio Vaticano II sarebbe stato una rottura totalmente inspiegabile rispetto a ciò che lo aveva preceduto, come se il leggendario «Un concilio!» di San Giovanni XXIII fosse stato un’ispirazione puramente spontanea (e maligna). Al contrario, sia il Concilio Vaticano II che il progressismo che ha approfittato dell’ambiguità del Concilio sono stati anticipati da anni di controversie ecclesiali e intellettuali (si pensi, ad esempio, che nel 1933 dom Martin Michler celebrò una Messa dialogata versus populum per gli studenti in Brasile). La mia speranza è di approfondire la comprensione tradizionalista della nostra posizione collocando il Concilio Vaticano II nel suo contesto storico-filosofico.

Interpretare la storia attraverso le tendenze filosofiche può essere un progetto vanitoso. Si è tentati di giocare a Hercule Poirot, riassumendo la storia come un’inevitabile catena causale di idee ed eventi. In verità, le idee cattive richiedono mani cattive per produrre frutti cattivi, e le idee buone non sono mai abbastanza buone per impedire il peccato. Tuttavia, pur riconoscendo l’agenzia morale umana, non possiamo negare il ruolo strumentale delle idee. I peccatori hanno bisogno di strumenti e la filosofia, come il linguaggio o la tecnologia, è uno strumento potente per il bene e per il male.

Le mie prime discussioni si concentreranno sul Volontarismo, sul Nominalismo e sulla rinascita tomistica del XVI secolo. Si tratterà di due punti di partenza storici: la metà-fine del XIII secolo e la metà-fine del XVI.

San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura da Bagnoregio morirono entrambi nel 1274. Giovanni Duns Scoto fu attivo nella seconda metà di quel secolo e Guglielmo di Ockham, il pupillo del Nominalismo, nacque nel 1287. Tipicamente concepito come l’età d’oro del consenso cattolico, il XIII secolo fu in realtà testimone di notevoli tensioni di pensiero.

Il XVI secolo, a sua volta, fu un periodo frenetico di sviluppi intellettuali cattolici, di eresia e di politica ecclesiale. Per alcuni aspetti chiave, esso rappresentò l’applicazione pratica – culturale, politica e scientifica – dei dibattiti accademici del XIII secolo. L’Universidad  de Salamanca guidò una rinascita tomistica, iniziata nel 1524 sotto il domenicano Francisco de Vitoria. Gli studiosi della Scuola di Salamanca svilupparono la teoria del diritto naturale dell’Aquinate in teorie politiche del diritto internazionale, stimolati da accesi dibattiti sull’impero coloniale spagnolo. Nel 1517 Martin Lutero pubblicò le sue 95 tesi, spingendo Papa Paolo III a convocare il Concilio di Trento nel 1545.

Tenendo presente questo contesto storico, passiamo al Volontarismo, iniziando nel 1209, con l’origine di un nuovo ordine religioso: i Francescani.

San Francesco d’Assisi esortava i suoi frati ad amare Dio «con tutto il cuore e con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutto il coraggio, con tutta la comprensione e con tutta la forza, con tutto lo sforzo e con tutto l’affetto, con tutta l’emozione, con tutto il desiderio e con tutta la volontà».¹ San Francesco modellava una spiritualità dell’affetto, dell’azione e della predicazione attraverso l’azione, enfatizzando la testimonianza pratica rispetto al discorso teorico. Queste «enfasi» spirituali suggerivano una comprensione della carità come appassionata ed estetica. Come tale, condivideva caratteristiche con Platone e Sant’Agostino d’Ippona. Platone aveva caratterizzato la bellezza e l’amore umano per il bello come fonte di «ascesa» spirituale. Sant’Agostino ha specificato che l’oggetto dell’ascesa di Platone è un Dio personale, un Dio che non solo è degno del nostro amore, ma che ci ama personalmente e individualmente. Platone e Agostino colgono una tensione all’interno della vita spirituale, tra l’ascesi, che libera se stessi dagli appetiti, e l’abbracciare la motivazione di un’appassionata fame morale che coinvolge l’intera persona, corpo e anima. Il nostro desiderio di Dio è appetitivo e coinvolge la volontà. «Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te». I Francescani, soprattutto se confrontati con i loro confratelli mendicanti, i Domenicani, sembravano sottolineare la nostra relazione appetitiva con Dio. «Alla luce di ciò», scrive padre Clement O’Donnell, «possiamo comprendere una certa enfasi sulla volontà e sul suo posto nella vita, che è comune ai Francescani».²

Intorno al 1220 i Francescani entrarono nella prestigiosa Université de Paris e le loro preoccupazioni spirituali diedero forma al mondo accademico. L’enfasi pratica sulla conoscenza rispetto al desiderio, sulla scelta attiva rispetto alla comprensione passiva, influenzò la filosofia. La bellezza di Dio, la sua paternità personale, oggetto del nostro desiderio e della ricerca dei santi, si distingueva da Dio come oggetto di studio sistematico e di prove logiche. Questa distinzione accentuava una tensione secolare all’interno della filosofia stessa. Da un lato, la filosofia cerca la comprensione scientifica, perché la struttura e i contenuti del mondo sono immutabili. Come le scienze naturali possono presumere che tutti gli alberi abbiano una struttura comune e che la gravità non scomparirà domani, così la filosofia può presumere che gli oggetti possiedano nature fondamentali e invariabili, e cerca di scoprirle. D’altra parte, la filosofia (a differenza delle scienze naturali) è un discorso etico-morale, un processo pratico di autoesame per vivere bene. Agiamo in modo imprevedibile, perché siamo liberi e possiamo abbracciare o meno la nostra natura divina. Inoltre, gli individui differiscono in molti modi legittimi, il che rende difficile specificare quali azioni siano appropriate in tutte le situazioni. Aristotele inizia la sua Etica Nicomachea avvertendo che l’etica è una disciplina imprecisa, perché richiede esperienza e prudenza. (Sant’Agostino si preoccupava molto di questa dimensione scivolosa della filosofia. Come osserva padre Clement O’Donnell, per l’Agostiniano «la filosofia non è tanto una teoria dell’essere, quanto una ricerca del bene [, o] … una teoria dell’interpretazione e dell’azione».³

Fin da Sant’Agostino, la psicologia filosofica aveva sviluppato una teoria che distingueva tra Ragione e Volontà. La ragione è la facoltà di raggiungere l’esperienza fisica e di cogliere le strutture delle cose create. Queste strutture includono la bontà che Dio ha percepito per primo nella sua stessa creazione. Che ci piaccia o no, possiamo comprendere la bontà delle cose create. La volontà, invece, è la facoltà di desiderare il bene, di scegliere di perseguirlo e di conformare la nostra vita ad esso. Questo comporta qualcosa di più di un giudizio spassionato. Coinvolge gli affetti. La volontà è «affettiva». La ragione e la volontà rispecchiano rispettivamente i due «volti» della filosofia, quello scientifico e quello affettivo. Nel 1200, filosofi come Filippo il Cancelliere, Alessandro di Hales, San Bonaventura da Bagnoregio e Giovanni Duns Scoto (gli ultimi tre, Francescani) sostenevano che la Volontà fosse più propriamente «libera» della Ragione. Ciò implicava che la Volontà fosse in un certo senso più autenticamente umana della Ragione. La volontà, in quanto sede della libertà, era (sostenevano) la fonte dell’autentica carità, dell’agenzia morale e della santità.

Consideriamo quest’ultimo punto in modo più approfondito. La ragione può funzionare male, ma non può creare la propria realtà. È sempre vincolata a ciò che esiste veramente. L’ideale della ragione, quindi, è la perfetta conformità mentale al modo in cui le cose sono. Se qualcuno è irragionevole o «sbagliato», ad esempio nella valutazione di una scena del crimine o nell’osservazione di un fenomeno naturale, lo trattiamo come un errore tecnico. Lo correggiamo e presumiamo (a parità di altre condizioni) che accetterà la correzione. La volontà umana è diversa. Se qualcuno non desidera il bene, cerchiamo di convincerlo del contrario, ma gli concediamo un certo «privilegio dell’errore». La volontà è meno ovviamente determinata dalla realtà. In altre parole, la realtà non ha la stessa pretesa di conformità da parte della Volontà che ha la conformità da parte della Ragione. La volontà appare più intimamente legata a ciò che ci distingue dal resto della creazione fisica: la nostra libertà, autonomia e indipendenza.

Ad esempio, seguendo l’analisi di Colleen McCluskey, Filippo il Cancelliere (nato nel 1160) sosteneva che «la libertà è una funzione della volontà in primo luogo, e dell’intelletto solo in secondo luogo».⁴ San Bonaventura da Bagnoregio si preoccupava di trovare giustificazioni teoriche per il fatto che la Bibbia privilegia la carità rispetto alla conoscenza (cfr. 1 Corinzi 13, 2). Citando Jacques Maritain, padre Clement O’Donnell osserva che «la contemplazione non può mai sostituire la carità». «Poiché la sede di questa carità è la volontà umana, ne consegue, come conclude San Bonaventura, che la volontà è la facoltà più nobile dell’uomo».⁵

Il Volontarismo è una sorta di enfasi: un’enfasi sulla volontà come sede o fonte primaria della nobiltà umana. Ciò ha comportato, tra l’altro, il tentativo di affermare l’indipendenza della Volontà dalla Ragione – ad esempio, spiegando la libertà esclusivamente in termini di Volontà. Evocando Sant’Anselmo d’Aosta, Filippo il Cancelliere sottolinea che Anselmo «definiva la libertà come “un potere di fare ciò che si vuole, e [non] […] un potere di fare ciò che si giudica o si ragiona”».⁶ Nel Duecento, questa tendenza fu accompagnata da un cambiamento nel linguaggio. Il problema del liberum arbitrium, «libera decisione», divenne il problema della voluntas libera, o «libera volontà».⁷ Nel 1277 il Vescovo di Parigi, Étienne Tempier, condannò una serie di posizioni filosofiche, tra cui quella secondo cui la volontà non è libera ma obbligata a obbedire alle conclusioni della ragione.⁸ Citando Bonnie Kent, Colleen McCluskey suggerisce che la condanna ebbe un effetto pendolo, avallando implicitamente tutte le teorie filosofiche che promuovono la libertà e l’indipendenza della volontà. È importante notare che questo includeva l'accusa «che la concezione dell’Aquinate della volontà come… rispondente ai giudizi dell’intelletto [o della Ragione] lo impegna a negare il [libero arbitrio]».⁹

Il futuro del Volontarismo non era predeterminato dalle sue enfasi principali. Molti dei Volontaristi cattolici del XIII secolo, sostenendo la superiore dignità della volontà, la sua libertà e la sua autonomia, mantennero comunque il quadro tradizionale di comprensione della volontà e della ragione come intimamente interconnesse. Pur essendo un appetito, la Volontà si affida alla Ragione per presentare gli oggetti, il suo «cibo». Questa posizione è ben lontana dal Volontarismo di Martin Lutero, che stabilisce un antagonismo tra Ragione e Volontà. Pertanto, la linea del Volontarismo dal XIII al XVI secolo comporta continuità ma anche rotture fondamentali.

Il Volontarismo è pericoloso perché si sposa facilmente con la dottrina secondo cui l’uomo è essenzialmente autocreativo. Questa dottrina era caratteristica dell’Umanesimo rinascimentale, come ha osservato il professor Thomas Stark nelle sue analisi della famosa Orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola.¹⁰ Poco della Mirandola considera l’uomo una «creatura di immagine indeterminata»,¹¹ non soggetta alle leggi che «limitano» le altre creature. Elogiando Adamo, come archetipo dell’uomo, scrive:

Tu, al contrario, non essendo ostacolato da tali restrizioni, puoi, con il tuo libero arbitrio, alla cui custodia ti abbiamo assegnato, tracciare per te stesso i lineamenti della tua natura.¹²

Questa teoria dell’identità umana respinge l’argomentazione di Aristotele secondo cui la nostra specie si distingue per il desiderio di conoscere. Se gli esseri umani fossero autodefiniti – se legiferassimo la nostra struttura, il nostro scopo e i nostri valori – allora la verità, la bontà e la bellezza cesserebbero di essere oggetti della Ragione. Esisterebbero, non in realtà, come cose da conoscere, ma potenzialmente, come cose da creare dal nulla. La ragione, tradizionalmente intesa, è un processo di conformità al vero e al bene. Se il vero e il bene fossero creati da noi, la ragione non avrebbe più alcun ruolo da svolgere. Non avrebbe nulla da afferrare, nulla con una natura fissa indipendente dal nostro capriccio. O meglio, l’unico uso nobile della Ragione in un mondo del genere sarebbe quello tecnologico: quello di rimodellare il nostro ambiente fisico per adattarlo al nostro capriccio. È facile capire come, in un tale mondo post-umanista (o transumanista), rimanga solo la Volontà. Tuttavia, tale volontà non sarebbe quella concepita dai Medievali, un appetito per il bene. La Volontà post-umanista può essere intesa solo come puro potere libertario e non diretto; azione per l’azione. Inutile dire che la Volontà in questo senso è logicamente impossibile. Per quanto abusiamo della nostra natura, non possiamo mai estraniarci completamente dall’ordine creato da Dio. Sotto l’influenza del Volontarismo radicale, gli esseri umani si vedono solo alla luce della loro impotenza e cadono, inevitabilmente, nella disperazione.

Fonti:
  • Clement O’Donnell, O.F.M. Conv., Voluntarism in Franciscan Philosophy, Studi Francescani 2, dicembre 1942, pagine 397-410;
  • Colleen McCluskey, The Roots of Ethical Voluntarism, Vivarium 39, 2001, pagine 185-208;
  • La prima regola non confermata di san Francesco (1209/10-1221);
  • Giovanni Pico della Mirandola, Oration on the Dignity of Man, trad. di A. Robert Caponigri, intr. di Russell Kirk, (Chicago, Illinois: Henry Regnery Company, 1956).

Letture consigliate:

¹ La prima regola non confermata di San Francesco (1209/10-1221), 23.
² Clement O’Donnell, O.F.M. Conv., Voluntarism in Franciscan Philosophy, Franciscan Studies 2, dicembre 1942, 398.
³ Ibidem, 397.
⁴ Colleen McCluskey, The Roots of Ethical Voluntarism, Vivarium 39, 2001, 193.
⁵ O’Donnell 403.
⁶ McCluskey 194.
⁷ McCluskey 186.
⁸ Cfr. ibidem 189-190.
Ibidem, 190.
¹⁰ Il dottor Stark ha ribadito questo punto in una conferenza per la conferenza estiva del 2023 ospitata dal Roman Forum.
¹¹ Giovanni Pico della Mirandola, Orazione sulla dignità dell’uomo, trad. di A. Robert Caponigri, intr. di Russell Kirk, (Chicago, Illinois: Henry Regnery Company, 1956), 6.
¹² Ibidem. 7.

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