Un'altra analisi sulla nomina del neo Prefetto DDF mons. Fernández.
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Luigi
Roberto de Mattei, 19-7-23
La nomina di mons. Víctor Manuel Fernández a prefetto della Congregazione della Fede ha una portata simbolica di grande rilevanza e rappresenta in un certo senso il compimento del pontificato di papa Francesco, che ha voluto dare un segnale chiaro a quelli che il 24 novembre 2022, incontrando i membri della Commissione Teologica Internazionale, ha definito “gli indietristi” della Chiesa.
La nomina di 21 cardinali, tra i quali lo stesso Fernández nel concistoro che a settembre precederà l’apertura del Sinodo sulla sinodalità è un altro segnale in questa direzione. Francesco vuole garantire che la direzione che ha impresso alla Chiesa non sia mutata dal suo successore, perché, “indietro non si torna”.
Ha ragione dunque chi è convinto che le ultime scelte di papa Francesco siano espressione di una radicale frattura con i pontificati che lo hanno preceduto? Francesco è il peggior Papa della storia, o forse, come qualcuno pensa, addirittura un antipapa?
Per lo storico la realtà è più complessa. I momenti di allontanamento dalla Tradizione della Chiesa, negli ultimi sessant’anni, sono stati molteplici, ma il primo e più eloquente capovolgimento di prospettiva, risale all’allocuzione Gaudet mater Ecclesia di Giovanni XXIII, che l’11 ottobre 1962 aprì il Concilio Vaticano II.
Il tono della lettera di papa Francesco al nuovo prefetto della Congregazione per la Fede ha notevoli assonanze, di linguaggio e di contenuto, con quel documento. Nel passaggio centrale della Gaudet mater Ecclesia, Giovanni XXIII spiegava che il Vaticano II era stato convocato non per condannare degli errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre l’insegnamento tradizionale della Chiesa nel linguaggio adatto ai tempi nuovi. Giovanni XXII affermava che «quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando (…). Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale».
Giovanni XXIII attribuì al Concilio che si apriva una nota specifica : il suo carattere pastorale. Gli storici della scuola di Bologna definirono la dimensione pastorale del Vaticano II come « costitutiva ». La forma pastorale diventava la forma del Magistero per eccellenza. All’inizio non fu evidente a tutti, ma nei mesi e negli anni successivi fu chiaro che l’allocuzione di Giovanni XXIII era il manifesto di una nuova ecclesiologia. E questa ecclesiologia, secondo i teologi progressisti, avrebbe dovuto essere il fondamento di una nuova Chiesa, opposta a quella « costantiniana » di Pio XII. Una Chiesa non più militante, non più definitoria e assertiva, ma itinerante e dialogante : una chiesa sinodale.
Nella nuova prospettiva, il Sant’Uffizio, che era stato per secoli il baluardo della Chiesa contro gli errori che l’aggredivano, non aveva più ragione di esistere, o doveva comunque cambiare la sua missione. E’ in questa prospettiva che si situa ciò che accadde l’8 novembre 1963 nell’aula conciliare (cfr. R. de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2011, pp. 346-347).
Quel giorno il cardinale arcivescovo di Colonia Josef Frings (1887-1978) chiese la parola e, nella sorpresa generale, sferrò un violento attacco contro il Sant’Uffizio, diretto dal cardinale Alfredo Ottaviani (1890-1979). Frings denunciò davanti a tutti i vescovi della Chiesa riuniti sotto la presidenza de Papa, i “metodi immorali” del Sant’Uffizio, affermando che la sua procedura «non si addice più alla nostra epoca, nuoce alla Chiesa ed è un oggetto di scandalo per molti».
Il cardinale Alfredo Ottaviani replicò con un vibrante intervento in cui difese la missione del Sant’Uffizio. «Mi sento tenuto a levare un’altissima protesta contro ciò che è stato detto contro la suprema Congregazione del Sant’Uffizio, di cui è prefetto il Sommo Pontefice. Le parole che sono state pronunciate dimostrano una grave ignoranza – mi astengo, per riverenza dall’utilizzare un altro termine – su quella che è la procedura del Sant’Uffizio».
Lo scontro tra Frings e Ottaviani fu, secondo lo storico mons. Hubert Jedin, «una delle scene più emozionanti di tutto il Concilio» (Chiesa della fede, Chiesa della storia, Morcelliana, Brescia 1972, p. 314). Josef Frings non era solo l’arcivescovo di Colonia: era il presidente della Conferenza Episcopale tedesca e uno dei più autorevoli rappresentanti dell’alleanza di vescovi centro-europea che si opponeva allo schieramento conservatore. Il cardinale Ottaviani era il più eminente membro della Curia, a capo di una Congregazione definita, per la sua importanza primaria, “la Suprema”, di cui il papa e non Ottaviani era il Prefetto. Ma Paolo VI, non difese pubblicamente il Sant’Uffizio e accreditò di fatto la posizione di Frings.
Tre anni dopo, nel 1968, il cardinale Frings fu a capo della contestazione dei vescovi centro-europei contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI. Il prof. don Josef Ratzinger, che era stato in Concilio l’ispiratore e il ghost-writer del cardinale Frings, come mons. Victor Fernández lo è stato di papa Francesco, iniziò da allora a prendere le distanze dall’ala più progressista della Chiesa, fondando nel 1972, con Hans von Balthasar, Henri de Lubac e Walter Kasper, la rivista “Communio”. Dopo essere stato nominato arcivescovo di Monaco e cardinale, nel 1981 fu nominato da Giovanni Paolo II prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che diresse per 24 anni. Il teologo del cardinale Frings divenne il capo della Congregazione che Frings in Concilio aveva pubblicamente attaccato.
Paolo VI chiuse i lavori del Concilio Vaticano II l’8 dicembre 1965. La “riforma” della Curia, fu la prima iniziativa di Paolo VI per attuare la rivoluzione conciliare avviata da Giovanni XXIII. L’edificio curiale costruito nei secoli dai Pontefici precedenti venne sistematicamente demolito da Paolo VI. Occorreva, per iniziare, un evento simbolico, e questo fu la trasformazione della Congregazione del Sant’Uffizio, che fu rinnovata persino nel nome, alla vigilia della chiusura del Concilio, con il motu proprio Integrae servandae. Il pomeriggio del 6 dicembre 1965, L’Osservatore Romano pubblicò il decreto che aboliva l’Indice dei libri proibiti e trasformava il Sant’Uffizio in Congregazione per la Dottrina della Fede, affermando che «sembra ora meglio che la difesa della fede avvenga attraverso l’impegno di promuovere la dottrina».
Paolo VI designò il teologo belga Charles Moeller (1912-1986), campione del progressismo ecumenista, come sottosegretario della congregazione per la Dottrina della Fede, in attesa delle dimissioni anticipate del cardinale Ottaviani, che giunsero il 30 dicembre 1967. «Moeller –scriveva il padre Yves-Marie Congar nel suo Diario – è l’ecumenismo al 100%, è l’apertura all’uomo, l’interesse alle sue ricerche, alla cultura, è il dialogo (Diario del Concilio (1960-1966), Cinisello Balsamo, 2005, vol. II, pp. 434-435).
Lo stesso Congar, per ben due volte, nel 1946 e nel 1954, urinò sulla porta del S. Uffizio, in segno di disprezzo verso la suprema istituzione della Chiesa (Journal d’un théologien (1946-1954), Editions du Cerf, Paris 2000, pp. 88, 293). Fu poi creato cardinale da Giovanni Paolo II il 26 novembre 1994. Questo dimostra quanto complessa e talvolta paradossale sia la storia, ricca di eventi, sul piano simbolico, non meno memorabili della nomina di mons. Fernández da parte di papa Francesco.