Settimana sociale
di Trieste. Il cristianesimo ridotto a laboratorio
di Silvio Brachetta
Della prima
Settimana sociale, però – quella del 1907, inaugurata dal beato Giuseppe
Toniolo –, non è rimasto più
nulla. Tutto cancellato: Dottrina sociale, Rerum novarum, volontà
d’ispirare cristianamente la società, unione dei cattolici. Nelle ventun pagine
del documento non c’è alcun riferimento né a Gesù Cristo, né a Toniolo, né alla
dottrina sociale, se non come solitaria citazione di facciata.
Scompare del tutto la questione della verità, ritenuta divisiva e viene citato il Nuovo Testamento solo per una rilettura ideologica:
«L’unità dei diversi – si legge nel Documento – è l’esperienza più sorprendente di cui raccontano già le prime comunità cristiane ritratte negli Atti degli Apostoli». Non è così, perché l’esperienza sorprendente della Rivelazione è l’unità dei diversi nella verità del Cristo e nel suo amore. Unità di dottrina e carità. Dove poi sia finita la verità di Cristo è un mistero.Il programma di
evangelizzazione è completamente sostituito da una serie di conferenze dove la
Chiesa ha il ruolo di «ascolto» e «discernimento», mai d’insegnamento o guida.
L’approdo vuole essere una società astratta, dove la divinità suprema è la
«democrazia», che si regge su un apparato di banalità, luoghi comuni e frasi
fatte. Non c’è traccia di una sintesi critica. A rimpiazzare la Dottrina
sociale non c’è più nemmeno il sociologismo: anche le ideologie hanno un
sottofondo di speculazione, ma qui la speculazione è ritenuta del tutto inutile
e sostituita dalla riproposta martellante dello slogan emotivo.
Dietro una
narrazione ripetitiva e noiosa, il programma della cinquantesima Settimana
sociale è questo: nel quadro del solito periodo di «grandi trasformazioni sociali»,
è necessario porsi in «ascolto», cercare il «bene comune», «abitare il
cambiamento», sempre armati di «profezia», capaci «di dare la voce agli ultimi»
nella logica delle «buone pratiche», con un’«identità plurale» in un «crocevia
di persone e progetti diversi», in modo da «immaginare insieme il futuro», così
da «sentirsi parte» di «un campo di azione plurale, collettivo, comunitario,
vitale, generativo», dove «nessuno può chiamarsi fuori» (velata minaccia), in
un contesto d’«infiniti cambiamenti della natura, nel moltiplicarsi degli
eventi metereologici estremi, dall’alternarsi di siccità ed alluvioni dagli
effetti devastanti, nello scioglimento accelerato dei ghiacciai alpini»,
auspicando che all’«Italia senza» sopraggiunga l’«Italia con», affinché si
scorga «la crescita di tante energie positive ed esperienze innovative» e ci si
ponga «in ascolto dei mondi sociali» e delle «reti di prossimità», sotto
l’egida della Costituzione, che è «il documento fondante della vita democratica
del Paese», nel desiderio di «un nuovo inizio», dove le parole sono fatte
«nuove e tutte da sperimentare, da inventare da capo», fermo restando che il
potere è un «poter-essere, poter-fare e poter-cambiare» e in cui «dialogo»
significa «avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, conoscersi, provare a
comprendersi, cercare punti di contatto».
Ecco, secondo
gli organizzatori, questo delirio sarebbe il cristianesimo, e le prime comunità
cristiane parlavano certamente così. A leggere gli Atti degli Apostoli,
francamente non sembra. E nemmeno a leggere gli Atti della Settimana sociale
del 1907.
No, è probabile
invece che questo modo di esprimersi se lo siano inventato gli organizzatori,
nella foga rivoluzionaria di fare piazza pulita della verità e ricominciare
dall’«anno zero», anche perché il parlare dei cristiani non è mai stata una
logorrea.
Le Settimane sociali
nascono su tutt’altri fondamenti. Nascono, specialmente, su ispirazione
dell’enciclica Il fermo proposito (1905) di san Pio X. Il Papa chiedeva
ai cattolici di «restaurare ogni cosa in Cristo», preoccupato più della
salvezza delle anime che del clima. Il compito dell’«azione cattolica» – nel
senso di agire, non nel senso dell’associazione Azione Cattolica – non è quello di ascoltare i diversi,
ma di «diffondere e sempre meglio dilatare il Regno di Dio negli individui,
nelle famiglie e nella società, procurando ciascuno, secondo le proprie forze,
il bene del prossimo con la diffusione della verità rivelata, con l’esercizio
delle virtù cristiane e con le opere di carità o di misericordia spirituale e
corporale», scrive Pio X.
È l’edificazione
della «civiltà cristiana» il programma delle Settimane sociali, non l’elenco
delle astrazioni diffuse dal recente Documento preparatorio.
L’«azione
cattolica» che Pio X prospetta è sì una Chiesa che si adatta al mutamento della
storia e delle circostanze – proponendo sempre forme e mezzi diversi di
evangelizzazione –, ma
restando «sempre la stessa nei principi che la dirigono e nel fine nobilissimo
che si propone».
Questi principi
e questo fine non devono essere soltanto presupposti, ma anche dichiarati
espressamente prima, durante e dopo i lavori delle Settimane sociali. Per mezzo
della stampa – afferma Pio X – i cattolici devono manifestare chiaramente «la bontà
e giustizia dei principi cristiani, la retta morale che essi professano, il
pieno disinteresse delle cose proprie, non altro apertamente e sinceramente
bramando che il vero, il solo, il supremo bene altrui».
L’operazione del
documento preparatorio di pianificare un guazzabuglio di opinioni sullo stesso
piano è palesemente contrario alla Dottrina, non tanto sociale, ma della fede.
Pio X è chiarissimo proprio sulla necessità di un «solo centro comune di
dottrina, di propaganda e di organizzazione sociale». Lo stesso ambito politico
esclude il pressappochismo contemporaneo e richiede basi immensamente più stabili
delle odierne: c’è «il dovere nei cattolici tutti – scrive
san Pio X – di prepararsi
prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati»,
altrimenti «si corre rischio di andare tentoni lungo tempo, in cerca di cose
nuove e mal sicure».
La prossima Settimana sociale è proprio questo: un voler andare a
tentoni, un voler citare Toniolo senza presentarlo e senza conoscerlo, una
morbosa affezione alla novità. Siamo alla maturazione del cattolicesimo
democratico, del «democratismo» privo di contenuti che dilaga.
La mentalità a monte delle nuove Settimane sociali è quella del
Sillon – contro cui sempre Pio X scrisse la lettera Notre charge apostolique
(1910) – e consiste semplicemente nel volere un’azione sociale senza dottrina
sociale. La politica, secondo questo pensiero assurdo, non deve avere nulla di
soprannaturale, ma si appiattisce su di una concezione secolarizzata della
democrazia. Il cosiddetto cattolico in politica cessa così di esistere, non per
l’abbandono della politica, ma del cattolicesimo.
Silvio Brachetta