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domenica 5 giugno 2022

Card. Caffarra: "L’autonomia della coscienza e la sottomissione alla verità"

«[...] non dovete credere che il monarca terreno sia un padrone assoluto e indipendente, il quale non abbia nessuno sopra di sé; che anzi egli non è tanto padrone quanto ministro del supremo Signore dell'universo: Dei enim minister est. E come Dio è bene infinito senz'ombra di male, così il principe è suo ministro per promuovere il bene fra le genti e non il male»
(Monaldo Leopardi).

Un altro magistrale intervento del card. Carlo Caffarra.
Dal sito a lui dedicato QUI.
Luigi

Orvieto, 27 maggio 1994

Introduzione

La “sorte” toccata alla coscienza nella riflessione etica cristiana è stata singolare: da una posizione che non esiterei a dire secondaria a una posizione sempre più centrale. Non sarebbe difficile dimostrare in modo analitico questo fatto storico. Esistono per altro ricerche al riguardo. Non vorrei tuttavia compiere questa dimostrazione che esigerebbe una competenza storica che non possiedo. Mi limito a constatare tre fatti: due difficilmente contestabili, il terzo forse meno evidente.
Il primo. Nella sua Somma, san Tommaso dedica in tutto al tema della coscienza tre articoli, uno nella prima pars (q. 79, a. 13) e due nella secunda secundae (q. 19, aa. 5 e 6). Se ora prendiamo in mano la Theologia moralis di sant’Alfonso, possiamo osservare che la sua parte generale è composta da due parti (tractatus) solamente, il primo dei quali è dedicato alla coscienza (l’altro alla legge).

Nella introduzione, il Santo Dottore scrive che mediante la riflessione sulla coscienza “aditus ad universam theologiam moralem aperitur”. L’affermazione è teoreticamente forte: si entra nella riflessione morale attraverso la dottrina sulla coscienza. Il che significa: la dottrina della coscienza è la chiave di volta di tutto l’arco.

Non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a un reale cambiamento teoretico, a una trasformazione teoretica all’interno del pensiero cattolico. Esso pone la domanda: si tratta di uno sviluppo, diciamo, organico, che rispetta cioè l’armonia sinfonica dell’insieme oppure si tratta di uno sviluppo patologico? Lasciamo per il momento senza risposta questa domanda.

Il secondo fatto è ancora più importante e più difficile da interpretare. Sinteticamente chiamerei questo fatto “sradicamento della coscienza dalla Chiesa”.

Leggendo i Padri della Chiesa e i grandi maestri del pensiero cristiano, una delle cose che mi colpisce più profondamente è la coscienza di una certa identità fra il “singolo” e la Chiesa. Mi limito solo a due esempi.

Nelle Omelie sul Cantico dei Cantici (1, 7), Origene arriva a dire “io, la Chiesa” e tutta la pagina è basata su questa misteriosa identificazione fra il soggetto, la persona del credente e la Chiesa: la Chiesa è nel credente e il credente è nella Chiesa. E quindi nel Commento al Cantico dei Cantici (3; PG 13, 159 B) può scrivere: “la sposa, cioè la Chiesa o l’anima che tende verso la perfezione”. Si noti: “la Chiesa o l’anima”. Ed è ben noto che questa mistica identificazione ha costituito il principio ermeneutico fondamentale della Sacra Scrittura: tutta la Scrittura parla di Cristo, cioè della Chiesa, cioè di ogni credente.

Lo ritroviamo anche nel Medioevo. Basti un esempio. Tutto il Commento al Cantico di san Bernardo si regge su questa mistica identificazione. “Quae est sponsa”, si chiede, “et quis est sponsus?” e risponde: “hic Deus noster est, et illa, si audeo dicere, nos sumus” (LXVIII, 1). Ma, forse, la pagina nella quale questa esperienza è espressa in modo sublime è nel Sermone 12, 11. “Quod etsi nemo nostrum sibi arrogare praesumat, ut animam suam quis audeat sponsam Domini appellare, quoniam tamen de Ecclesia sumus, quae merito hoc nomine et re nominis gloriatur, non immerito gloriae huius participium usurpamus. Quod enim simul omnes plene integreque possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus”. E termina con questa stupenda preghiera: “Gratias tibi, Domine Jesu, qui nos carissimae Ecclesiae tuae aggregare dignatus es, non solum ut fideles essemus, sed ut etiam tibi vice sponsae in amplexos iucundos, Castos, aeternosque copularemur”.

La pagina di Bernardo è assai utile per proseguire la nostra riflessione. Egli dice: “quod simul omnes plene integreque possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus”. È così spiegato la nostra identificazione colla Chiesa. Questa è pienezza e integrità (cioè è “cattolica”), il singolo partecipa di questa pienezza e integrità: il singolo è tutta la Chiesa, anche se non totalmente. La Chiesa diviene la dimora, cioè l’ethos del credente.

Questo incontro mirabile del singolo colla Chiesa comincia a divenire problematico quando la Chiesa è conosciuta come una realtà estrinseca al singolo: l’ecclesialità non è una dimensione costitutiva del singolo, ma solo una disposizione della volontà di Dio, che non ha un fondamento nell’essere stesso della persona. Si crea una separazione ontologica che si cerca di superare volontaristicamente (l’obbedienza alla Chiesa).

Ora esaminiamo attentamente un altro testo, il testo firmato da tre Vescovi tedeschi (Saier, Lehman e Kasper) riguardante la pastorale dei divorziati risposati (10 luglio 1993). Mi riferisco in particolare al paragrafo in cui si afferma che, a determinate condizioni, un cattolico può essere legittimamente ammesso alla partecipazione dell’Eucaristia, anche se non ha ragioni di pensare che il primo matrimonio consumato fosse invalido e anche se vive nella seconda convivenza una sessualità coniugale. E ciò in forza di un suo giudizio di coscienza (cfr. IV, 4). Questo fatto è di una gravità eccezionale. Per la prima volta nella storia della Chiesa, la Chiesa stessa, attraverso i suoi pastori, riconosce che non esiste un’obiettiva economia sacramentale che non debba essere sottoposta al giudizio finale della coscienza del singolo, che non debba essere verificata o non possa essere falsificata dal giudizio della coscienza del singolo. Verificazione e falsificazione che la Chiesa deve riconoscere come legittima. Inoltre, e soprattutto, la Chiesa ha sempre insegnato che l’indissolubilità del matrimonio rato e consumato (ratum et consummatum) è fondata sulla divina Rivelazione. Ora, il documento dei tre Vescovi, contro esplicite affermazioni fatte nel documento stesso e sicuramente contro le loro intenzioni, può introdurre nella comunità cristiana l’idea che quell’insegnamento, divinamente rivelato, può essere messo in discussione in forza di un giudizio della coscienza. Cioè: la verità di una proposizione che la Chiesa insegna come fondata sulla Rivelazione deve essere ultimamente sottoposta al giudizio della coscienza.

Se ora confrontiamo il “punto di partenza” col “punto di arrivo”, vediamo che cosa significa esattamente parlare di “sradicamento della coscienza dalla Chiesa”. La contra-posizione fra la Chiesa e la coscienza (della propria soggettività) è giunta ormai al suo termine finale. Esiste un rapporto fra questi due fatti che ho richiamato? Cioè: la coscienza è andata assumendo sempre più il ruolo di “chiave di volta” dell’edificio morale perché si è sempre più sradicata dalla Chiesa? Ci troveremmo cioè di fronte a un’ulteriore conferma di quel soggettivismo sempre più radicale che ha caratterizzato la vicenda storica della modernità? Lascio per il momento senza risposta questa domanda. Vorrei, infatti, richiamare l’attenzione sul terzo fatto di cui siamo testimoni oculari, e così terminare questa mia lunga introduzione.

Il terzo fatto è costituito da quel processo che si suole ormai chiamare della post-modernità, nel quale il “soggetto” così costruito è andato ormai progressivamente de-costruendosi. Non è necessario descrivere, sia pure brevemente, questo processo di demolizione della “soggettività” nella sua totalità.

Mi limito a fare solo un breve schizzo di che cosa sta accadendo, in questo processo, alla coscienza morale. Devo essere necessariamente assai schematico. Ho seguito abbastanza da vicino il dibattito bioetico di questi anni, più come test di ciò che sta accadendo in profondità. Un primo dato che ho potuto osservare è stato che la razionalità utilitarista-proporzionalista è risultata ormai vincente sia nei luoghi istituzionali (per esempio le leggi civili), sia nella ricerca scientifica, sia nella spiritualità dei singoli. Ora, sappiamo che la scelta di quel modello di razionalità significa la distruzione pura e semplice dell’etica (come Kant aveva ben visto e ancora più profondamente il nostro Manzoni). Poiché, in questo contesto, il giudizio di “bilanciamento dei beni” è un giudizio di carattere tecnico, alla coscienza del singolo non resta che affidarsi semplicemente al giudizio dei cosiddetti “competenti”. Voglio dire questo: alla fine la coscienza si trova in un processo di espropriazione progressiva di quella autonomia che aveva conquistato.

Ho detto che il dibattito bioetico mi serviva come test di qualcosa di più profondo. Probabilmente l’evento più profondo è precisamente questo progressivo svuotamento della coscienza. Del resto già Newman aveva esattamente previsto che in nome della coscienza si stava distruggendo la coscienza. Forse anche per questa vicenda, la parabola evangelica è paradigmatica: il figlio che per affermare se stesso lascia il padre, si trova a fare il pastore dei porci.

È possibile trovare una chiave interpretativa unica di questo dramma che ha due atti, l’abbandono della casa (la Chiesa) nell’affermazione della propria autonomia (primo atto) e il trovarsi in campagna nella solitudine a pascolare i porci (secondo atto)?

È possibile riscoprire la via che riconduca la soggettività cristiana e la coscienza nella sua patria, ad essere se stessa?

I due punti della mia relazione saranno dedicati a rispondere rispettivamente a queste due domande.

1. Riflessione diagnostica

Tutta la dottrina della coscienza dipende dal modo col quale rispondiamo ad una domanda, la domanda centrale. Quale? La persona umana non è moralmente obbligata se non sa di essere obbligata. È questo atto della sua ragione che “lega” la libertà della persona: esso (atto) è insostituibile. Nessuna autorità né umana né divina può obbligare la libertà se non attraverso, mediante questo giudizio. Se auto-nomia significa imprescindibile necessità di questa mediazione, negarla equivale semplicemente a negare che esista un’obbligazione morale, che esista semplicemente la morale. Ma il problema sta precisamente racchiuso in questa imprescindibile mediazione.

La formula “la persona umana non è moralmente obbligata se non sa di essere obbligata” connota, almeno prima facie, due fatti: l’essere obbligati e il sapersi obbligati. La domanda centrale di cui parlavo è precisamente la seguente: che rapporto esiste fra il fatto di essere obbligati e il fatto di sapersi obbligati? Dalla risposta che diamo a questa domanda dipende tutta la dottrina della coscienza.

La risposta che la modernità ha progressivamente costruito, è stata di identificare puramente e semplicemente i due fatti suddetti: identificazione perfetta raggiunta definitivamente nell’idealismo trascendentale. L’identità consiste precisamente in questo: obbligare se stesso e riconoscersi obbligati è perfettamente lo stesso.

L’identità ha un significato negativo e un significato positivo. Negativo: l’obbligazione morale non precede in alcun modo la consapevolezza che ho della stessa; positivo: è l’atto del sapersi obbligati che costituisce, che pone in essere l’obbligazione morale. Non è solo principium quo (fons cognoscendi), ma è principium quod (fons essendi) dell’obbligazione morale.

Ma non mi propongo, tuttavia, di seguire questa vicenda teoretica dentro la riflessione non teologica, ma dentro la teologia cattolica. È ovvio che una tale identificazione non poteva transitare tale quale dentro la teologia cristiana. L’esito, infatti, logicamente necessario di quella identificazione medesima è l’ateismo e l’amoralità pura: eventi che si sono puntualmente verificati. Cioè: la risposta data alla domanda centrale sulla coscienza, dalla modernità, era in netta contraddizione colla fede. Che cosa, dunque, è accaduto? La vicenda è complessa e la sua ricostruzione e interpretazione non è facile.

In primo luogo, come molte ricerche storiche hanno dimostrato (cfr. soprattutto quelle del p. Servais-Théodore Pinckaers), il legalismo aveva profondamente pervaso la riflessione cattolica nell’etica. Non è necessario che ci soffermiamo a dare una definizione rigorosa di questo concetto. Mi limito a due osservazioni. Il legalismo comporta una progressiva espulsione dal campo dell’etica del concetto di verità: un’etica legalista è sempre, in misura più o meno grande, un’etica senza verità. La domanda infatti del legalismo non è: “quale è il bene o il male?” (domanda riguardante la verità sul bene/male), ma è: “esiste o non esiste una legge al riguardo?” (domanda riguardante l’obbligo come tale). La seconda osservazione è una conseguenza. In un contesto legalista, la domanda centrale sulla coscienza si pone nel modo seguente: “che rapporto esiste fra la legge morale e il riconoscersi obbligati?” Mi spiego. Poiché è la legge che obbliga, poiché la persona non è obbligata (dalla legge) se non sa di essere obbligata, la domanda centrale è la seguente: “quale consapevolezza della legge obbliga la persona?” Posta così, la domanda aveva imboccato una strada teoretica che avrebbe portato dentro un vero e proprio labirinto.

L’attenzione teoretica veniva a concentrarsi sempre più esclusivamente sulle qualità soggettive della conoscenza che il soggetto ha della legge: conoscenza certa, conoscenza dubbia e così via. Il tema della coscienza vera/falsa cede il posto al concetto di coscienza certa/dubbia. La domanda cioè è la seguente: a quali condizioni il “riconoscersi obbligati” mi obbliga? Quando il giudizio mediante cui mi riconosco obbligato (=coscienza morale) è tale da obbligarmi veramente (=da non essere più libero)? Per cogliere quanto profondo sia stato il mutamento intervenuto, anche se molto sottile, sia sufficiente una sola osservazione. Alla domanda suddetta, san Tommaso risponderebbe: “per se, quando il giudizio è vero; per accidens, anche se — poste alcune condizioni — fosse falso”. Ora si risponde: “quando è un giudizio certo”. In una parola: l’attenzione si è spostata dalla verità del giudizio (di coscienza) alla certezza con cui il soggetto assentisce. Ora, la verità è una proprietà del giudizio che connota il rapportarsi del soggetto all’essere; la certezza è una proprietà del giudizio che connota il rapportarsi del soggetto al suo giudizio stesso. La certezza, infatti, denota in sé e per sé solo uno stato soggettivo senza alcun riferimento all’essere: posso essere assolutamente certo di un errore e dubitare di una verità. In questo modo, la dottrina della coscienza prendeva una ispirazione sempre più profondamente soggettiva. Cioè, letteralmente: la dottrina della coscienza è la dottrina del soggetto in quanto si costituisce o non si costituisce sotto l’obbligo della legge.

Prima di procedere oltre, fermiamoci un momento a considerare il concetto di autonomia (di coscienza). In una visione classica, autonomia significa che solo il giudizio vero, cioè solo un atto della ragione, può guidare la libertà. Solo la verità (un giudizio falso non è un atto della ragione) può rendere possibile la libertà che conduce alla beatitudine. Autonomia della coscienza quindi significa: “segui solo la verità; sii ragionevole nelle tue scelte; non lasciarti guidare se non dalla verità”. E in realtà, la dimostrazione che san Tommaso fa dell’esistenza della legge morale nella Contra Gentes (III, 114) è tutta fondata su questo concetto di autonomia. Nel contesto di una dottrina della coscienza che pone al suo centro il problema della certezza, autonomia diviene un termine di diverso contenuto. Autonomia significa diritto del soggetto a costruirsi una propria certezza, senza che nessuno possa intervenire in modo determinante. Si comincia ad intravvedere le insolubili difficoltà che andrà incontrando il problema del rapporto col Magistero della Chiesa, come vedremo meglio in seguito.

Vorrei ora riprendere la riflessione che abbiamo poc’anzi interrotto per riflettere sul primo cambiamento di senso del concetto di autonomia.

La concentrazione sul problema della certezza più che sul problema della verità (del giudizio di coscienza) comportava l’introduzione nella vita dello spirito di un disordine, diciamo, nel rapporto fra le facoltà spirituali. Mi spiego. Nonostante le apparenze e il modo con cui la questione è stata trattata, il problema del rapporto fra volontà e ragione non è di secondaria importanza per la vita umana. O meglio: cessa di essere pura accademia, quando la riflessione non è soprattutto fondata sul rapporto delle facoltà all’oggetto, ma è discorso sulla persona, sul singolo esistente, come soggetto che decide del suo destino eterno. Ora, e la cosa è stata notata dai più fini interpreti della modernità, la flessione sul versante della certezza è una flessione volontarista. L’assenso nelle questioni morali, che raramente assurgono all’evidenza dell’incontrovertibile, è un atto di volontà. E, infatti, tutta la pedagogia cristiana, da sempre, ha insistito sulla “purezza del cuore” per conoscere la verità sul bene e sul male. Ma ora ci troviamo in una situazione diversa.

Poiché il problema della verità non è più centrale, non si tratta di una disponibilità, di una attitudine alla verità: essere senza pregiudizi, ma col solo disinteressato desiderio di conoscere. Si tratta di una decisione di coscienza: non la verità, ma il tenere per vero con certezza. Il termine e il concetto di giudizio è stato sostituito dal concetto di decisione. “Volendo mettere in risalto il carattere ‘creativo’ della coscienza, alcuni autori chiamano i suoi atti, non più con il nome di ‘giudizi’, ma con quello di ‘decisioni’: solo prendendo ‘autonomamente’ queste decisioni l’uomo potrebbe raggiungere la sua maturità morale” (Veritatis splendor 55, 2). Ora forse può risultare chiaro che cosa intendevo dire quando parlavo dell’introduzione nella vita dello spirito di un disordine nel rapporto fra le facoltà dello stesso. Anziché tenere distinto il piano del conoscere dal piano del volere, la conoscenza del vero è stata evacuata nell’affermazione dell’autonomia della decisione.

Che cosa significhi questa evacuazione, vorrei mostrarlo richiamando l’attenzione su alcuni fatti teoretici.

Il primo. La libertà di coscienza significa coscienza della propria libertà: anzi si identificano. Libertà di coscienza significa infatti che il giudizio con cui il soggetto “dice” a se stesso se l’atto che sta per compiere è giusto/ingiusto è una decisione che non ha nessun fondamento ultimo fuori di se stessa. Pertanto, l’appartenenza della libertà alla coscienza e della coscienza alla libertà è totale. Nel senso che la coscienza (= il giudizio che è la coscienza) non rimanda ad altro, ultimamente, che non sia la decisione della libertà. Abbiamo una conferma di questo nella scomparsa pressoché totale da questa riflessione etica del tema della prudenza e del suo giudizio. In realtà, diventava inutile parlarne. Infatti, la coscienza aveva preso il suo posto. Ma, penso, che altri rifletteranno su questo punto.

Il secondo. Trattandosi di “decisioni” e non di “giudizi”, la qualifica di verità-falsità in realtà non ha più senso. La coscienza è sempre infallibilmente vera: nell’ambito delle decisioni, non ci può essere questione di vero o falso. Scrive, infatti, Bruno Schüller: “La coscienza non può ingannarsi sul bene e sul male: ciò che essa ordina è sempre ed infallibilmente bene morale” (in La fondazione dei giudizi morali, Assisi 1975, pag. 75). Più che di verità o falsità, si deve parlare di autenticità, di sincerità: a ciascuno è chiesto di agire secondo le sue convinzioni, senza necessità di interrogarsi sulla verità o falsità delle stesse convinzioni. Il singolo è semplicemente affidato a se stesso, in una sorta di auto-fondazione che sembra la più perfetta definizione della disperazione, vera malattia mortale dell’uomo contemporaneo. È vero che si continua a parlare di verità, da parte di alcuni, della coscienza. Tuttavia si parla di questa verità (della coscienza) come di una verità di carattere proprio, non avente valore universale. Sinceramente non riesco a comprendere che cosa tutto questo possa significare (cfr. Veritatis Splendor 56, 1).

Il terzo. La radicale “soggettivazione”, cioè la totale inclusione della coscienza nella decisione libera ha reso impossibile la fondazione della legge civile perché ha distrutto lo stesso tessuto connettivo della socialità umana. La distruzione del tessuto connettivo sociale è facilmente riscontrabile. La socialità umana si costruisce nella e attraverso la partecipazione all’interno dell’agire della persona (cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, cap. VII; ed. LEV, 1982 pag. 287). L’atto e della persona ed è sempre, ovviamente, singolare. Tuttavia esso, precisamente attraverso il giudizio della coscienza, si radica nella verità del bene comune (nel senso agostiniano del termine) dell’uomo come tale. E in questo senso il Vaticano II vede nella fedeltà alla coscienza un evento di profonda comunione sociale (cfr. Gaudium et spes 16). Se si nega, come è stato fatto, il radicarsi della coscienza nella verità del bene comune, l’affermazione della libertà diviene incompatibile, in linea di principio, con l’affermazione di un sociale che non sia il risultato di una libera contrattazione. Una libera contrattazione che si fonda sulla base della propria utilità: neo-contrattualismo e utilitarismo si incontrano. È il consenso che crea la giustizia.

Ma vorrei fermarmi maggiormente sulla problematica ecclesiale. La dottrina della coscienza che si è andata costruendo ha introdotto nella dottrina cattolica il principio anti-ecclesiale per eminentiam: e questo spiega, mi sembra, molti problemi attuali nella Chiesa. Possiamo spiegarci, iniziando col dire che il principio anti-ecclesiale è il principio anti-mariano. Per “principio mariano” intendo il consenso obbediente alla Verità rivelata, nel quale la libertà nasce e si esalta al massimo (“chi rimane in me, porta molto frutto”). Ora, la dottrina della coscienza che si è andata costruendo finisce coll’affermare una rottura fra il singolo e la mediazione ecclesiale della verità rivelata, come una spaccatura fra le due grandezze, la grandezza della singolarità e la mediazione ecclesiale. Arriva il momento in cui il singolo è solo, ma nel senso di un auto-fondarsi, come dicevo. Coerentemente la Chiesa può solo riconoscere questa decisione, anche se obiettivamente contraddice la sua consistenza stessa. Ho parlato dello sradicamento del singolo dalla Chiesa. Questa dottrina della coscienza non è immediatamente antipetrina: è anti-mariana e quindi anti-petrina.

Possiamo concludere questo primo punto della mia riflessione che ho chiamato interpretazione diagnostica. In breve e per riassumere. La concezione oggi prevalente di autonomia nel contesto della dottrina della coscienza morale che ha generato quella concezione, è lo sbocco di una interpretazione secolarista della soggettività cristiana. Cioè: del tentativo di elaborare una dottrina della soggettività cristiana prescindendo dal dato che genera questa soggettività stessa. La teologia cattolica della coscienza ha voluto inserire questa interpretazione nella dottrina cattolica: in realtà ha inserito un corpo estraneo che ha finito col distruggere la stessa dottrina cattolica, come insegna Veritatis splendor.

2. Una proposta teoretica e pratica

Nell’umile tentativo di fare lo schizzo di una proposta positiva, vorrei partire dal concetto di “interpretazione secolare” della soggettività cristiana, con cui terminavo il numero precedente. Intendevo riferirmi ad una pagina famosa di Hegel (Geschichte der Philosophie) nella quale egli sostiene che solo “nella religione cristiana si fece strada la dottrina secondo cui tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio, perché Cristo li ha chiamati alla libertà cristiana”, ma che “il concetto, la conoscenza che l’uomo è libero per natura, questa scienza di se stessi non è antica”. Il significato della pagina è chiaro: solo il principio della modernità ha verificato compiutamente il cristianesimo nel suo nucleo antropologico essenziale. Solo il principio della modernità ha pensato-realizzato una compiuta idea di libera soggettività, una realizzazione resa possibile solo dal distacco della oggettività dogmatica. La pagina ci interessa solo in quanto ci mostra che il confronto fra la modernità e il cristianesimo è avvenuto nella determinazione del concetto e nell’esperienza di libertà.

Tuttavia non possiamo ignorare che quel processo della modernità ha già raggiunto il suo fine ed è stato ormai rimesso in discussione al suo interno stesso. Un processo che ha portato alla evacuazione, o de-costruzione della “soggettività moderna” e della dottrina di coscienza morale che di essa si era nutrita, come ho già detto nella riflessione introduttiva.

La conclusione, allora, non può essere che l’inizio in senso radicale: una ricostruzione di quella soggettività umana, di quella libertà distrutta dalla modernità e post-modernità sia nel versante filosofico sia, spesso, in quello teologico. Solo all’interno di questa ricostruzione, anzi fondazione, possiamo avere una dottrina vera della coscienza morale. Sempre nella riflessione introduttiva parlavo di un “ritorno a casa” da parte di chi era andato in una “regione lontana”. Il primo passo che il figlio compie e di “rientrare in se stesso”, di riacquistare la sua libertà, di ri-diventare in realtà un soggetto.

Vorrei proporre molto semplicemente alcune riflessioni al riguardo: alcune linee, molto frammentarie, per una tale ricostruzione.

Partiamo da una semplice riflessione sull’esperienza di Mosè. Vi chiedo un piccolo sforzo di fantasia. Immaginiamo di trovarci con lui nel momento forse più drammatico di tutta la sua vita. Egli si trova fra il Mar Rosso e l’esercito del Faraone. Che fare? Quali possibilità si aprono davanti a lui? La prima sarebbe di attraversare il mare a piedi: è assurdo solo il pensarlo. Significa morire. È una... possibilità impossibile. La seconda sarebbe di combattere contro il Faraone: è assurdo solo il pensarlo. Significa andare incontro a morte sicura. È una... possibilità impossibile. La terza sarebbe ritornare sui propri passi, venire a patti col Faraone e ritornare alla schiavitù in Egitto. È l’unica possibilità possibile. Ma essa significa la distruzione della propria libertà, perché è la distruzione della propria identità: si rientra a far parte dell’Egitto. O la pura possibilità che è pura fantasia, pura illusione, o la pura necessità, la sempre uguale realtà. Come sfugge Mosè a questo dilemma? Credendo che a Dio tutto è possibile, anche aprire in due il mare e far passare il popolo come su una strada. Nell’atto di fede Mosè è diventato libero e ha costruito un popolo, ha dato inizio a una nuova storia. Non riflettiamo mai a sufficienza sull’abisso di questo atto di fede. Che cosa significa “credere che a Dio tutto è possibile”? Essere certi di tre cose: che Dio può tutto, che Dio sa fare tutto, che Dio vuole fare tutto per colui che Egli ama. Si costituisce nell’uomo il senso di un progetto, di una storia che diviene possibile: Mosè lascia alle spalle tutta la sua esistenza in Egitto. Si costituisce nell’uomo una necessità: non può non essere che così, poiché, se sarà necessario, Dio apre anche il mare, anzi fa risuscitare anche i morti. La possibilità umana si radica nella necessità divina; la necessità umana si radica nella possibilità divina.

Come avviene questa sintesi di necessità e possibilità? La sintesi si chiama l’obbedienza della fede al proprio destino che è il Progetto di Dio.

Senza questa sintesi non si costruisce nessuna esistenza. Un’esistenza senza possibilità e morta; un’esistenza senza necessità è vacua. Un’esistenza senza possibilità non si muove; un’esistenza senza necessità non sa dove va.

La sintesi si colloca nel punto di equilibrio dei due poli. Questo punto di equilibrio può essere abbandonato o a spese della necessità o a spese della possibilità. Nel primo caso, la persona esce dalla sua realtà nel regno della pura illusione; nel secondo caso, la persona non diviene mai se stessa. Kierkegaard dice acutamente che per poter parlare occorrono consonanti e vocali: le vocali sono la possibilità, le consonanti sono la necessità. Un uomo senza possibilità è muto: le consonanti da sole sono incommunicabili. Un uomo senza necessità emette suoni senza significato: le vocali da sole non costituiscono un senso. Ma allora quando si ha quella sintesi?

Siamo così nel nucleo della storicità umana: essa è l’incontro di due libertà, la libertà umana colla libertà di Dio. Questo incontro, lo ripeto, si chiama l’obbedienza della fede. E possiamo comprendere come siano possibili tre definizioni radicali di storicità umana.
a) La storia umana è lo svolgimento di una necessità “logica” (ciò che è reale è razionale) in cui ogni evento non è che la proposizione di un intero discorso.
b) La storia umana è il casuale verificarsi di insignificanti possibilità.
c) La storia umana è la storia dell’incrociarsi di due libertà, quella divina e quella umana.

Nel primo caso, la grandezza del singolo consiste nel prendere coscienza del processo storico che si sta svolgendo. Nel secondo caso, la grandezza del singolo semplicemente non ha senso. Nel terzo, la grandezza del singolo consiste nella santità.

È in questo contesto, nell’incrocio delle due libertà, quella divina e quella umana, che va collocato il giudizio della coscienza. Esso non è la decisione della libertà: sta prima di esso e lo giudica. Ogni confusione fra “iudicium coscientiae” e “iudicium electionis” conduce inesorabilmente alla evacuazione della soggettività cristiana e umana.

Ancora meno, si può dire che il giudizio della coscienza prescinda dalla libertà di Dio che conduce l’uomo al suo fine nella Sua Sapienza.

Il giudizio di coscienza sorge dal confronto fra un atto che in data situazione si presenta come possibile e la verità, la bontà, la dignità della persona umana come tale amata da Dio in Cristo fin dalla eternità. Verità, bontà, dignità che può essere affermata/negata, amata/odiata, salvata/perduta nell’atto precisamente della persona.

È in questo contesto che possiamo capire che cosa è la legge morale, che cosa è la coscienza e la funzione che esse esercitano nell’ambito della soggettività umana e cristiana.

Prima di tutto la natura della legge morale. Partiamo ancora da un esempio. Esiste nella persona umana la tendenza, l’istinto al rapporto sessuale colla persona dell’altro sesso e la scienza dimostra come la sessualità sia “costruita” in modo tale che può dare origine a un nuovo individuo umano. Dunque, possiamo dire che il fine proprio (si noti bene: proprio) della sessualità è la congiunzione sessuale per dare origine a una nuova vita. Possiamo anche dire che questo è anche il fine dovuto (debitus finis)? Che fine proprio (della sessualità) e fine dovuto (della sessualità) è lo stesso? Questa identità deve essere negata. Perché?

La persona umana colla sua ragione comprende che: a) essere persona è essenzialmente diverso e più che essere qualcosa; b) il corpo è corpo personale e la persona è persona corporale; c) la sessualità, quindi, è sessualità personale e la persona è persona sessuata (uomo e donna lo creò). La persona ha conosciuto se stessa, è illuminata dalla verità su se stessa. In questa luce si chiede: quale esercizio della sessualità, quale atto sessuale afferma questa verità? quale atto nega questa verità? E arriva alla seguente conclusione: solo l’atto dell’amore coniugale aperto al dono della vita afferma (cioè realizza) la verità della persona; ogni atto diverso da questo nega (cioè non realizza) la verità della persona. In questo momento, cioè nel momento in cui la persona umana giunge a conoscere questo rapporto fra un atto e la persona, essa ha scoperto una legge morale.

La legge morale, quindi, nella sua essenza è in senso proprio un giudizio della ragione mediante il quale conosco il rapporto esistente fra un atto e l’essere della persona in quanto realizzabile (perfezionabile) mediante l’atto libero. La legge morale è questo giudizio.

Per analogia, però, legge morale può anche significare non formalmente il giudizio razionale mediante cui conosco il rapporto atto-persona, ma questo stesso rapporto. È come dire “cibo sano”, nel senso di “cibo che causa la salute”. Ora si comprende perché il fine proprio non è il fine dovuto. L’inclinazione come tale non è la legge morale; la legge morale si costituisce mediante la ragione.

È importante ora che vediamo la differenza fra la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la legge morale e la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la coscienza morale. La prima conoscenza è universale e solo potenzialmente particolare; la seconda è particolare e solo potenzialmente universale. Mi spiego. Ciò di cui parla la legge è l’atto della persona non considerato dal punto di vista delle circostanze in cui la persona concreta lo può compiere né dal punto di vista dello scopo che una persona concreta si propone nel compierlo. È l’atto della persona considerato in sé e per sé, nel suo rapporto puro colla persona come tale, in quanto può essere oggetto della libera volontà prescindendo da qualsiasi altra considerazione nel volerlo. Si capisce, quindi, perché questa conoscenza sia universale: ovunque esista una persona che compia quell’atto è vero ciò che afferma la legge morale. E si capisce anche perché questa conoscenza sia potenzialmente particolare e quindi solo remotamente praticabile: l’atto considerato dalla legge morale non esiste in realtà, nel senso che l’atto reale è sempre più che l’atto così considerato. Non è una conoscenza falsa, ma limitata e incompleta.

È per questo che è necessaria la conoscenza che raggiungo attraverso la coscienza: questa mi fa conoscere l’atto nella sua particolarità. Si tratta di un atto della nostra ragione pratica, di un giudizio mediante il quale la persona conosce la qualità morale dell’atto che può compiere, che sta per compiere. Ma per capire bene la natura di questo giudizio e della conoscenza che raggiungiamo per mezzo di esso, è necessario ricordare quella distinzione dal giudizio di scelta che abbiamo fatto. Il giudizio della coscienza è un giudizio per sé puramente razionale. Esso dice: “questa è l’azione che devo fare/non devo fare in questa situazione”. Si tratta di una valutazione che riguarda l’azione già circostanziata, ma considerata ancora in se stessa: cioè indipendentemente dai desideri e dalle intenzioni dell’individuo! È per questo che questo giudizio non è immediatamente pratico, come dimostra il fatto che esso può essere contraddetto dalla scelta libera. E, infatti, la scelta scaturisce dalla volontà, dai desideri e dalle intenzioni della persona.

Il giudizio della coscienza, pur essendo un giudizio particolare, ha in sé una esigenza di universalità. Esso cioè ha una sua giustificazione che non si fonda su riferimenti così personali da essere ineffabili e incomunicabili. Nel giudizio di coscienza la persona dice al contempo: “questa è l’azione che devo compiere” e “qualunque persona al mio posto dovrebbe compiere questa azione”. Donde deriva alla coscienza questa capacità di essere giudizio particolare-universalizzabile? Scopriamo qui un’altra importante dimensione del giudizio di coscienza.

La ragione elabora i suoi giudizi secondo leggi universali e necessarie. La coscienza è un giudizio della ragione che ha per oggetto un atto circostanziato al massimo, ma giudicato alla luce della verità della persona, della dignità della persona. Quando la coscienza dice “questa è l’azione che devo compiere”, lo dice perché ha visto che in questa azione la persona umana come tale si afferma, si realizza. Ho detto “la persona umana”, non “il mio io”. La coscienza non giudica secondo ciò che mi piace, ciò che mi è utile: in riferimento, direbbe san Bernardo al seguito di sant’Agostino, a ciò che “tamquam privato sui ipsius amore desiderat anima” (De diversis, Sermo 8, 9). In questo sta la grandezza (ma anche la miseria) della coscienza. In essa l’uomo diventa consapevole della sua verità di persona, della bontà propria del suo essere personale, della singolare preziosità della sua persona, ma in quanto quella verità esige ora di essere affermata e non negata; in quanto quella bontà esige ora di essere amata e non odiata; in quanto quella preziosità esige ora di essere salvata e non perduta. Affermazione, amore, salvezza che la coscienza vede realizzarsi nell’atto, il quale pertanto viene giudicato doveroso. È nella coscienza che l’uomo resta come “imprigionato” dentro la sua verità, nel senso che ora è costretto a... essere libero, a fare la sua scelta. Cioè: la coscienza libera in questo senso l’uomo. Libera l’uomo perché lo sottopone alla verità: per questo siamo liberi — scrive sant’Agostino — perché siamo sottoposti alla verità.

Ed è precisamente in questo profondo rapporto fra coscienza-verità-scelta che possiamo ora dire in che senso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza.

Il senso primo, da cui derivano mi sembra tutti gli altri, è che l’uomo non può fare una scelta libera senza la mediazione del giudizio della sua coscienza: radix totius libertatis judicium rationis, scrive san Tommaso. Non può fare una scelta libera se non in quanto segue il giudizio della sua coscienza, se non per il fatto che è il giudizio della sua coscienza. In questo senso, allora, l’uomo deve sempre seguire il giudizio della sua coscienza, perché semplicemente deve agire umanamente, cioè liberamente. Agire in coscienza e agire liberamente sono come la condizione e il condizionato.

Di conseguenza, l’autonomia della coscienza significa che l’uomo nel suo valutare non deve lasciarsi guidare dalle passioni, dai suoi desideri, ma esclusivamente dal puro desiderio, dal disinteressato desiderio di sapere la verità sulla scelta, sull’atto che afferma il mio essere persona. Non da considerazione di utilità, di calcolo. Quando la persona comincia a sbirciare verso le conseguenze utili o dannose del suo atto ha già rinunciato all’autonomia della coscienza.

Ancora, autonomia della coscienza significa non accettare il criterio della maggioranza come criterio di verità su ciò che è bene o male, di seguire l’opinione dei più. La Familiaris consortio dice stupendamente: “Seguendo Cristo, la Chiesa cerca la verità, la quale non è sempre lo stesso che l’opinione della maggioranza. Essa ascolta la coscienza e non il potere e in questo modo difende i poveri” (5, 2). Giudicare liberi dal condizionamento delle opinioni alla moda; giudicare liberi dalle proprie passioni e dai propri interessi; giudicare solo nella sottomissione alla verità: questa è l’autonomia della coscienza.

Vista la natura della legge morale e la specificità del giudizio di coscienza e il loro rapporto, possiamo chiederci quale è la sua funzione nella soggettività umana e cristiana. È questo un punto assai importante.

Ripartiamo ancora dall’esempio già fatto. È chiaro che la persona sente la tendenza naturale, precedente la sua volontà, al rapporto colla persona di altro sesso. È ugualmente però certo che questo rapporto non si realizza umanamente se non si realizza liberamente. La libertà è chiamata ad assumere questa inclinazione: ciò verso cui inclina è un bene umano. Ma è precisamente questo il punto: verso che cosa inclina? O, il che è lo stesso: quale è il bene proprio della sessualità, in che cosa consiste propriamente la bontà della sessualità? È questa una domanda della ragione, a cui cioè la ragione deve rispondere. In che senso deve? nel senso che la persona deve chiarire a se stessa e in se stessa questa inclinazione; nel senso che è la ragione che deve presentare quella bontà nei confronti della quale la libertà può muovere la persona a fare le sue scelte. Ora la ragione giunge a conoscere quel bene che non solo è possibile (operabile), ma è dovuto (operandum). Che cosa significa dovuto? un bene che appartiene come tale alla volontà razionale, per cui se la volontà sceglie, deve scegliere quel bene se non vuole rinnegare se stessa: auto-distruggendosi nel momento stesso in cui si afferma. Ecco ora siamo in grado di rispondere alla domanda. La funzione della legge morale nella soggettività umana è quella di fare conoscere quali sono quei beni che sono dovuti alla persona come tale. “Dovuti” significa: originaria convenienza per cui bene (indicato dalla legge morale) e volontà razionale si appartengono reciprocamente. Quel bene è il bene proprio della persona: la volontà razionale è orientata a quel bene.

La legge morale e la coscienza rappresentano i due momenti fondamentali nei quali si attua la vita dello spirito alla ricerca della verità sul bene della persona. Sono due tappe dello stesso cammino verso la conoscenza della verità sul bene. Esse si radicano in quella attitudine spirituale che gli antichi chiamavano “sinderesi”, cioè quella innata capacità dell’intelletto di intuire la bontà, di produrre in sé la nozione di bene e i supremi principi dell’ordine morale. E si radicano in quella tensione spirituale della persona verso la pienezza dell’essere che muove la persona a ricercare in che modo la libertà può raggiungerla, cioè a ricercare la verità sul bene. È su questo scopo comune alla legge morale e alla coscienza che vorrei richiamare la vostra attenzione. Se noi prendiamo coscienza profonda di quell’evento spirituale che è l’esperienza etica, aiutati dai grandi maestri che l’hanno descritta, da Platone a Newman, noi vediamo che essa (esperienza etica) è l’esperienza di una bontà che esige di essere riconosciuta, amata dalla mia persona non in quanto e non perché sono io e non un altro. Dalla mia persona in quanto soggetto razionale. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa. San Tommaso dice che chi afferma la dipendenza del bene dalla volontà divina e non viceversa, bestemmia. La cosa è profonda. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa; quindi ogni volontà razionale, quella di Dio come quella della creatura, quella dell’angelo come quella dell’uomo. L’esperienza etica è la percezione di un ordine che è intrinseco all’essere come tale, di una misura trascendente ogni essere ed immanente ad ogni essere.

Tuttavia, l’esperienza etica non è solo questo. In essa ciascuno di noi è interpellato nella sua singolare irripetibilità: nessuno può prendere il mio posto. È colla mia scelta che mi è chiesto di riconoscere, di amare quel bene, quell’ordine intrinseco all’essere.

L’esperienza etica è questo incrocio di universalità e di singolarità, di eternità e di temporalità: è il respiro dell’eternità nel tempo. È per questo che la conoscenza del bene avviene attraverso una visione (= la legge morale) di un ordine che esige di prendere corpo nella nostra concretissima scelta e attraverso una visione (= coscienza morale) del bene proprio della concretissima scelta nella luce dell’ordine dell’essere. È come un circolo che si istituisce nella vita dello spirito.

Quando questo “circolo” si spezza? Quando si contrappone legge morale e coscienza. È proprio questa disarticolazione interiore che è accaduta in questi anni.

Quel rapporto si spezza quando si espelle dalla riflessione etica il concetto di verità. Questa espulsione significa che la domanda di felicità che abita nel cuore umano non può più ricevere una risposta che possa qualificarsi come “vera” 0 “falsa”. Chiedersi se si possa distinguere una vera felicità da una falsa felicità non ha senso, poiché essere felici significa sentirsi felici. La progettazione quindi della propria esistenza sfugge a ogni giudizio avente carattere di validità universale. La stessa cosa vale anche per le scelte che concretizzano e realizzano quel progetto.

Conclusione

Il giudizio della coscienza è il punto ultimo di tangenza della Sapienza divina partecipata all’uomo con la decisione libera: salvare la vera autonomia di esso sia contro la de-soggettivazione della post-modernità sia contro una fondazione su se stesso è uno dei compiti fondamentali del pensiero cristiano attuale. Per salvare la verità della libertà.