Dal blog Duc in Altum, vi proponiamo l’articolata analisi di José Antonio Ureta, ricercatore della Société française pour la défense de la Tradition, Famille, Propriété – TFP, sulla lettera apostolica in forma di motu «proprio» «Traditionis custodes».
L.V.
di José Antonio Ureta
Con un tratto di penna, papa Francesco ha compiuto passi concreti per abolire nella pratica il rito latino della Santa Messa, sostanzialmente in vigore da san Damaso sin dalla fine del IV secolo (con aggiunte di san Gregorio Magno Grande alla fine del VI secolo), fino al messale del 1962 promulgato da papa Giovanni XXIII. L’intenzione di limitare gradualmente – fino alla sua estinzione – l’uso di questo rito immemorabile è evidente nella lettera che accompagna il motu proprio Traditionis custodes, in cui il pontefice regnante esorta i vescovi di tutto il mondo a “operare perché si torni a una forma celebrativa unitaria” con i messali dei papi Paolo VI e Giovanni Paolo II che diventano così “l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano”. La conseguenza pratica è che i sacerdoti di rito latino non hanno più il diritto di celebrare la messa tradizionale, ma possono farlo solo con il permesso del vescovo (e della Santa Sede, per coloro che fossero ordinati d’ora in poi!).
La domanda ovvia che sorge di fronte a questa misura drastica è la seguente: ha un papa il potere di abrogare un rito che è stato in vigore nella Chiesa per 1400 anni e i cui elementi essenziali provengono dai tempi apostolici? Perché, se da un lato il vicario di Cristo ha la plenaria et suprema potestas nelle materie che riguardano «la disciplina e il governo della Chiesa diffusa nel mondo» [1], come insegna il Concilio Vaticano I, dall’altro, deve rispettare i costumi universali della Chiesa in materia liturgica.
La risposta è data perentoriamente dal Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da Giovanni Paolo II, al paragrafo 1125: “Nessun rito sacramentale può essere modificato o manipolato a discrezione del ministro o della comunità. Neppure la suprema autorità della Chiesa può cambiare la liturgia a suo piacimento, ma solo nell’obbedienza alla fede e nel religioso rispetto del mistero della liturgia”.
Commentando questo testo, l’allora cardinale Joseph Ratzinger scriveva: “Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, ovvero la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis.” [2] [Termine greco usato tredici volte nella Bibbia e tradotto per tradizione come istruzione, trasmissione.]
Un ottimo libretto di mons. Klaus Gamber, che lo stesso cardinale Joseph Ratzinger considerava uno dei più grandi liturgisti del Novecento, sviluppa questo pensiero: La riforma della liturgia romana. Egli parte dalla constatazione che i riti della Chiesa cattolica, intendendo l’espressione nel senso di forme obbligatorie di culto, risalgono definitivamente a Nostro Signore Gesù Cristo, ma si sono via via sviluppate e differenziate dall’usanza generale, venendo poi corroborate dalla autorità ecclesiastica.
Da questa realtà, l’illustre liturgista tedesco trae le seguenti conclusioni:
1. “Se il rito è nato per consuetudine generale – e su questo non c’è dubbio per chi conosce la storia della liturgia – non può essere ricreato nella sua interezza”. Nemmeno all’inizio della Chiesa ciò avvenne, poiché “anche le forme liturgiche delle giovani comunità cristiane si separarono progressivamente dal rito ebraico”.
2. “Così come il rito si è sviluppato nel tempo, potrà continuare a farlo anche in futuro. Ma questo sviluppo deve tener conto dell’atemporalità di ogni rito e svolgerlo in modo organico (…) senza rompere con la tradizione e senza un intervento dirigista delle autorità ecclesiastiche. Queste non avevano altra preoccupazione nei Concili plenari o provinciali che quella di evitare irregolarità nell’esercizio del rito”.
3. “Ci sono diversi riti indipendenti nella Chiesa. In Occidente, oltre al rito romano, sono presenti i riti gallicano (ora scomparso), ambrosiano e mozarabico; in Oriente, tra gli altri, il rito bizantino, armeno, siriaco e copto. Ciascuno di questi riti ha attraversato un’evoluzione autonoma, nel corso delle quali si sono formate le loro particolarità specifiche. Ecco perché, semplicemente, elementi di questi diversi riti non possono essere scambiati tra loro”.
4. “Ogni rito costituisce un’unità omogenea. Pertanto, la modifica di una qualsiasi delle sue componenti essenziali significa la distruzione dell’intero rito. È esattamente quello che accade per la prima volta ai tempi della Riforma, quando Martin Lutero fece scomparire il canone della messa e collegò direttamente il racconto dell’Istituzione con la distribuzione della comunione”.
5. “Il ritorno alle forme primitive non significa, in casi isolati, che il rito sia stato modificato, ed infatti questo ritorno è possibile entro certi limiti. In questo modo, non vi fu rottura con il rito romano tradizionale, quando papa san Pio X ristabilì il canto gregoriano nella sua forma originaria” [3].
L’illustre fondatore dell’Istituto teologico di Ratisbona prosegue commentando che “mentre la revisione del 1965 aveva lasciato intatto il rito tradizionale (…) con l’‘ordo’ del 1969 si creò un nuovo rito”, che egli chiama il ritus modernus, poiché “non basta, per parlare di continuità del rito romano, che nel nuovo messale si siano conservate alcune parti del precedente”.
Per dimostrarlo, da un punto di vista strettamente liturgico, basti citare quanto sinteticamente detto a proposito del professor Roberto de Mattei su questa vera devastazione liturgica: “Durante la Riforma furono via via introdotte tutta una serie di novità e varianti, alcune delle quali non previste né dal Concilio né dalla costituzione Missale Romanum di Paolo VI. Il quid novum non può limitarsi a sostituire il latino con le lingue volgari. Consiste anche nel desiderio di concepire l’altare come una ‘tavola’, per sottolineare l’aspetto del banchetto piuttosto che del sacrificio; nella celebratio versus populum, sostituito al versus Deum, con conseguente abbandono della celebrazione ad Oriente, cioè verso Cristo simboleggiato dal sole nascente; nell’assenza di silenzio e di meditazione durante la cerimonia e nella teatralità della celebrazione spesso accompagnata da canti che tendono a profanare una Messa in cui il sacerdote è spesso ridotto al ruolo di ‘presidente dell’assemblea’; nell’ipertrofia della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica; nel ‘segno’ della pace che sostituisce le genuflessioni del sacerdote e dei fedeli, come azione simbolica del passaggio dalla dimensione verticale a quella orizzontale dell’azione liturgica; nella S. Comunione ricevuta dai fedeli in piedi e in mano; nell’accesso delle donne all’altare; nella concelebrazione, tendendo alla ‘collettivizzazione’ del rito. Consiste soprattutto e infine nel cambiare e sostituire le preghiere dell’Offertorio e del Canone. L’eliminazione in particolare delle parole mysterium fidei dalla formula eucaristica può essere considerata, come osserva il cardinale Stickler, un simbolo della demistificazione e, quindi, dell’umanizzazione del nucleo centrale della Santa Messa” [4].
La più grande rivoluzione liturgica è avvenuta proprio nell’Offertorio e nel Canone. Il tradizionale Offertorio, che preparava e prefigurava l’immolazione incruenta della Consacrazione, fu sostituito dal Beràkhôth del Kiddush, cioè le benedizioni della cena pasquale degli ebrei. Padre Pierre Jounel, del Centro pastorale liturgico e dell’Istituto superiore di liturgia di Parigi, uno degli esperti del Consilium che preparò la riforma liturgica, descrisse al quotidiano La Croix l’elemento fondamentale della riforma della liturgia dell’Eucaristia: “La creazione di tre nuove preghiere eucaristiche, quando finora ne esisteva solo una, la Preghiera Eucaristica I, fissata nel Canone Romano fin dal IV secolo. La Seconda è stata tratta dalla Preghiera Eucaristica di [S.] Ippolito (III sec.) ritrovata in una versione etiope alla fine del XIX secolo. La Terza si ispira allo schema delle liturgie orientali. La Quarta è stata preparata in una notte da una piccola équipe attorno a P. Gelineau” [5].
Il già citato P. Joseph Gelineau, SJ, non sbagliava quando nel salutare con entusiasmo la riforma, dichiarava “Nei fatti, è un’altra liturgia della Messa. Bisogna dirlo senza mezzi termini: il rito romano, così come noi lo conoscevamo, non esiste più, è stato distrutto [6].
Come può, dunque, papa Francesco affermare nella sua recente lettera ai vescovi che “chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti”? Sembra un’ironia amara come il titolo del motu proprio: Custodi della tradizione…
Se il Novus Ordo Missae non è una mera riforma e implica una tale rottura con il rito tradizionale, la celebrazione di quest’ultimo non può essere vietata, perché, come ribadisce mons. Klaus Gamber, “non c’è un solo documento, nemmeno il Codex Iuris canonici, che affermi espressamente che il papa, come supremo Pastore della Chiesa, abbia il diritto di abolire il rito tradizionale. Né si dice da nessuna parte che abbia il diritto di modificare le consuetudini liturgiche particolari. Nel caso di specie, questo silenzio è di grande significato. I limiti della plena et suprema potestas del papa sono stati chiaramente determinati. È indiscutibile che, per le questioni dogmatiche, il papa debba attenersi alla tradizione della Chiesa universale e quindi, secondo san Vincenzo de Lérins, a quanto si è sempre creduto, ovunque e da tutti (quod semper, quod ubique, quod ab omnibus). Diversi autori sottolineano espressamente che, di conseguenza, non spetta al potere discrezionale del papa abolire il rito tradizionale”.
Inoltre, se lo facesse, rischierebbe di separarsi dalla Chiesa. Monsignor Gamber scrive, infatti, che “il celebre teologo Suarez († 1617), riferendosi ad autori più antichi come il Caetano († 1534), ritiene che il papa sarebbe scismatico se non volesse, come è suo dovere, mantenere l’unità e il legame con tutto il corpo della Chiesa come, per esempio, se scomunicasse tutta la Chiesa o se volesse modificare tutti i riti confermati dalla tradizione apostolica”.
Fu probabilmente per evitare questo rischio che otto dei nove cardinali della Commissione nominata da Giovanni Paolo II nel 1986, per studiare l’applicazione dell’Indulto del 1984, dichiararono che Paolo VI in realtà non aveva proibito la Messa antica. Inoltre, alla domanda: “Può un vescovo oggi proibire a un sacerdote in situazione regolare di celebrare una messa tridentina?”, secondo il cardinale Stickler, “i nove cardinali furono unanimi nel dire che nessun vescovo aveva il diritto di vietare a un sacerdote cattolico di celebrare la messa tridentina. Non c’è nessun divieto ufficiale, e io non credo che il Papa emetterà alcun divieto ufficiale” [7].
Papa Francesco, però, nel motu proprio Traditionis custodes, ha di fatto autorizzato i vescovi a vietare questa celebrazione. Tanto che la Conferenza episcopale del Costa Rica si è affrettata a decretare collegialmente che “non è autorizzato l’uso del Missale Romanum del 1962 né di alcuna delle espressioni della liturgia anteriori al 1970”, così che “nessun sacerdote è autorizzato nel continuare a celebrare secondo l’antica liturgia” [8].
Per tutto quanto scritto sopra, sottoscriviamo pienamente le conclusioni tratte da padre Francisco José Delgado: “Penso che la cosa più intelligente adesso da fare sia, in modo calmo e pacifico, difendere la verità dalle leggi perverse. Il papa non può cambiare la Tradizione per decreto o dire che la liturgia post-Vaticano II è l’unica espressione della lex orandi nel Rito Romano. Essendo questo falso, la legislazione che scaturisce da questo principio è invalida e, secondo la morale cattolica, non deve essere osservata, il che non implica cadere nella disobbedienza”.
Non è necessario avere una conoscenza specialistica in ecclesiologia per capire che l’autorità e l’infallibilità dei papi hanno dei limiti e che il dovere di obbedienza non è assoluto. Sono numerosi i trattatisti di altissimo caratura che riconoscono esplicitamente la legittimità della resistenza pubblica a decisioni o insegnamenti errati dei pastori, inclusi a quelli del Sommo Pontefice. Costoro sono stati ampiamente citati nello studio di Arnaldo Xavier da Silveira intitolato Resistenza pubblica alle decisioni dell’autorità ecclesiastica pubblicato sulla rivista Catolicismo nell’agosto del 1969.
Nel caso specifico, è lecito non solo ignorare il motu proprio di papa Francesco, ma anche resistere alla sua applicazione, secondo il modello insegnato da san Paolo (Gal 2,11). Non si tratta di discutere dell’autorità pontificia, verso la quale deve crescere il nostro amore e la nostra venerazione. È questo stesso amore per il papato che deve portarci alla denuncia di Traditionis custodes, che intende eliminare dittatorialmente il rito più antico e venerabile del culto cattolico, a cui tutti i fedeli hanno il diritto di abbeverarsi.
Come dice l’insigne teologo Francisco de Vitoria: “Per diritto naturale è lecito rifiutare la violenza mediante la violenza. Ora, con tali ordini e dispense, il papa fa violenza, perché agisce contro la Legge, come sopra dimostrato. Pertanto, è lecito resistergli. Come osserva il Caetano, non affermiamo tutto questo nel senso che spetta a qualcuno essere giudice del Papa o avere autorità su di lui, ma nel senso che è lecito difendersi. Ognuno, infatti, ha il diritto di resistere a un atto ingiusto, di cercare di prevenirlo e di difendersi” [9].
Il modello di ferma resistenza, ma intrisa di venerazione e rispetto per il sommo pontefice, sulla quale i cattolici possono oggi basare la propria reazione è la dichiarazione di resistenza all’ostpolitik di papa Paolo VI scritta dal compianto professor Plinio Corrêa de Oliveira e dal titolo La politica di distensione vaticana verso i governi comunisti – Per la TFP: cessare la lotta o resistere?, che, nel suo paragrafo cruciale, diceva: “Il vincolo di ubbidienza al Successore di Pietro, che mai romperemo, che amiamo dal più profondo della nostra anima, al quale tributiamo il meglio del nostro amore, questo vincolo noi lo baciamo nel momento in cui, macerati dal dolore, affermiamo la nostra posizione. E in ginocchio, fissando con venerazione la figura di S.S. Papa Paolo VI, noi gli manifestiamo tutta la nostra fedeltà. Con questo atto filiale diciamo al Pastore dei Pastori: la nostra anima è Vostra, la nostra vita è Vostra. Ordinateci ciò che desiderate. Solo non comandateci di incrociare le braccia di fronte al lupo rosso che attacca. A questo si oppone la nostra coscienza”. [10]
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Note
[1] Cfr. Denz.-Rahner 1827.
[2] “Lo sviluppo organico della liturgia”, 30 Giorni, www.30giorni.it/articoli_id_6275_l1.htm.
[3] www.obrascatolicas.com/livros/Liturgia/A_reforma_da_liturgia_romana__.pdf. Altre citazioni di mons. Gamber in tutto l’articolo, sono tratte da questo lavoro.
[4] “Considérations sur la réforme liturgique”, testo letto in occasione del Congresso Liturgico di Fontgombault, 22-24 luglio 2001, alla presenza del Cardinale Joseph Ratzinger.
[5] Cfr. La Croix, 28 aprile 1999, p. 19.
[6] Demain la liturgie — Essai sur l’évolution des assemblées chrétiennes, Cerf, 1979, in Cristophe Geoffroy et Philippe Maxence, Enquête sur la mese traditionnelle, La Nef hors série n° 6, pp. 51-52.
[7] Queste dichiarazioni del cardinale Stickler apparvero per la prima volta sulla rivista americana The Latin Mass e riprodotte dalla rivista francese La Nef, nel numero 53 del settembre 1995.
[9] Obras de Francisco de Vitoria, p. 487.
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