Un'altra bella traduzione di Stilum Curiae di una conferenza di Peter A. Kwasniewski su canto gregoriano.
Luigi
Il Canto Gregoriano: La Musica perfetta per la Sacra Liturgia
Sono lieto di estendere al blog del dott. Tosatti il testo completo, pubblicato in lingua originale a febbraio su Rorate Caeli, della conferenza che ho tenuto sul canto gregoriano come modello supremo di musica sacra – una riserva di fede e una sorgente di devozione – alla Conferenza Sacra Liturgia di Spokane (Washington) nel maggio del 2019. Per chi desiderasse, è disponibile in lingua originale il video della conferenza (ricco di diapositive ed esempi musicali).
Il Canto Gregoriano: la Musica perfetta per la Sacra Liturgia
Peter A. Kwasniewski
A prima vista, si potrebbe pensare che qualcosa con un nome come “canto piano” o “canto fermo” non dia granché di cui parlare; dopotutto, il nome stesso dice si tratta di un canto, e che è semplice, “piano”. In realtà, il canto Gregoriano è tutt’altro che “semplice”, se non nel senso che le sue belle melodie sono pensate per essere cantate senza accompagnamento e senza armonizzazione, come si addice all’antica cultura monastica da cui sono scaturite. Quello che chiamiamo “canto gregoriano” è una delle forme d’arte più ricche e fini della musica occidentale – anzi, della musica di qualsiasi cultura. Nella presentazione di oggi, prima darò un rapido quadro della storia del canto gregoriano, quindi spiegherò perché cantiamo la nostra liturgia, piuttosto che limitarci a recitarla, e infine approfondirò le caratteristiche che rendono il canto gregoriano insostituibilmente adatto alla liturgia cattolica.
Per comprendere le origini del gregoriano, dobbiamo tornare alle radici ebraiche della Chiesa. La tradizione di cantare le Scritture – pratica nota come cantillazione – ebbe inizio almeno mille anni prima della nascita di Cristo. Nell’Antico Testamento, il Libro dei Salmi e i Libri delle Cronache parlano di strumenti musicali e della funzione centrale della musica nel culto del tempio. C’erano fondamentalmente due forme di adorazione per gli israeliti: il sacrificio cruento, che prevedeva la morte e la distruzione di un animale, a rappresentare la resa totale a Dio del proprio essere, in atto di adorazione, obbedienza e umile nascondimento; e il salterio cantato, che esprime le nostre lodi e le nostre richieste, come un “incenso verbale” offerto a Dio dal nostro intelletto. Dal momento che il Salterio di Davide era stato composto per il preciso scopo del culto divino, ed era visto come il libro messianico per eccellenza, i primi cristiani scelsero istintivamente il Salterio come il proprio libro per la preghiera. Così vediamo Pietro, Paolo e i Padri Apostolici citarlo innumerevoli volte nella loro predicazione e nelle loro lettere. Inoltre, i cristiani videro l’offerta di Sé sulla Croce del Signore come l’adempimento di tutti i sacrifici cruenti di animali; l’Eucaristia rende presente la realtà ed i frutti di questo supremo sacrificio in modo incruento, adatto a coloro che sono stati redenti. Quindi, si può dire che tutta la liturgia cristiana scaturisca dalla combinazione di Salterio e Sacrificio. Non ci dovrebbe sorprendere, allora, scoprire che il rito romano tradizionale della Messa, che è primariamente un’offerta sacrificale, sia ovunque permeato di versi tratti dai Salmi; e che l’altra grande preghiera pubblica della Chiesa, l’Ufficio Divino o Liturgia delle Ore, sia principalmente composta da Salmi, ma con dell’incenso che viene bruciato all’altare durante i cantici evangelici – un riconoscimento dell’unico supremo sacrificio che unisce cielo e terra.
I primi cristiani continuarono a cantare salmi e altre preghiere alla maniera ebraica che era loro rimasta familiare dal culto del Tempio a Gerusalemme e dalle sinagoghe sparse in tutto il mondo romano. Alcune melodie gregoriane ancora in uso sono notevolmente vicine alle melodie della sinagoga ebraica, in particolare l’antico tono del Vangelo, il tono del prefazio e il tono usato per il Salmo 113, il cosiddetto “Tonus Peregrinus”. Ma i cristiani hanno anche assimilato influenze della musica greca e romana che li circondava, in particolare nello sviluppo del sistema degli otto “modi”. Questo sistema – come molti altri elementi – si è poi sviluppato indipendentemente nel contesto latino e in quello bizantino, grossomodo corrispondenti alla metà occidentale e a quella orientale dell’antico impero romano. Ancor oggi, la maggior parte dei canti latini e la maggior parte dei canti bizantini rientrano in otto modi, ma l’unica cosa che questi modi hanno in comune è che ce ne sono otto. (Più avanti approfondirò la questione dei modi.)
Nel corso del primo millennio del cristianesimo il canto si è sviluppato in modo prodigioso. Col tempo, furono cantillati non solo i salmi e le loro antifone, ma anche le letture, le orazioni, le intercessioni, le litanie, le istruzioni (ad es. “Flectamus genua”) e, in generale, tutto ciò che doveva essere proclamato ad alta voce. Arrivati all’epoca di Papa San Gregorio Magno, che regnò dal 590 al 604, esisteva già da tempo un corpo di canti per il Sacrificio della Messa e il ciclo di preghiera quotidiano (l’Ufficio Divino). Proprio mentre sanciva la forma definitiva del Canone Romano, che è il tratto distintivo del rito latino, San Gregorio organizzò questo repertorio musicale, cosicché poi questa forma di canto è stata sempre onorata con il suo nome: “Gregoriano”. Il nucleo del repertorio gregoriano risale a prima dell’anno 800; e la maggior parte di esso fu completata entro il 1200
Va ricordato che il canto della chiesa romana non era l’unica forma di canto utilizzata nella sfera di lingua latina della Chiesa cattolica. C’era anche il canto ambrosiano di Milano, il canto mozarabico in Spagna; e il canto gallicano della Gallia. Per quanto differenti fossero le loro melodie e i singoli testi, queste tipologie regionali di canto condividevano l’uso esclusivo della lingua latina e il sistema di otto modi. A causa delle ambizioni centralizzatrici di Carlo Magno e della sua fedeltà al papato, il rito romano fu importato nell’impero franco. Durante il suo soggiorno transalpino, molti elementi gallicani vennero incorporati nel rito romano. In seguito, questi sono tornati a Roma. La liturgia romana medievale era, così, una fusione di antiche fonti romane e gallicane.
Poiché il gregoriano era la musica fatta su misura e cresciuta con la liturgia della Chiesa, esso viaggiava ovunque viaggiava la liturgia. Nessuno si sarebbe mai sognato di separare i testi della liturgia dalla loro musica; erano come un unione di anima e corpo, o come una coppia felicemente sposata. Ancora, si potrebbe paragonare il canto ai paramenti indossati dal sacerdote. I canti sono le vesti indossate dai testi liturgici! Potremmo persino osare, con una libertà tutta medievale, di applicare alla relazione tra canto e liturgia le parole del Salmo 103: “Ti sei rivestito di lode e bellezza: e sei vestito di luce come di una veste”. Nella Trasfigurazione di Cristo due erano gli elementi: il corpo mortale del nostro Salvatore; e lo splendore della gloria che Egli ha lasciato risplendere attraverso il Suo corpo da un’anima già nell’estasi della visione beatifica. In un certo senso, il testo cantato è un testo trasfigurato, sfolgorante di una gloria soprannaturale che ci ricorda la nostra vera dimora.
Il canto gregoriano fiorì nel periodo che va dall’anno 600 circa alla metà del XVI secolo. Il Concilio di Trento (1545–1563) riaffermò il posto del gregoriano nella liturgia e scoraggiò l’uso di una musica polifonica eccessivamente complessa, soprattutto quando basata su melodie profane. Tuttavia, ebbe inizio un declino nell’uso e nella qualità del canto, causato in parte dal crescente splendore, varietà e quantità della musica polifonica. Il Vespro della Beata Vergine Maria di Monteverdi e i Vespri Carmelitani di Händel sono due ottimi esempi del tipo di musica che soppiantò le forme più semplici, almeno dove i committenti potevano permetterselo. L’accento sullo splendore fu particolarmente sottolineato dalla Controriforma, che coincise con la fase barocca delle belle arti. Ciò significava che, per alcune orecchie, il canto piano era forse un po’ troppo… piano per i bisogni più sentiti del momento. Fu ancora utilizzato, ovviamente, ma passò in sott’ordine.
Le antiche melodie vennero abbreviate o corrotte, e i neumi costretti a conformarsi a un ritmo regolare, al pari della musica in metrica contemporanea, e vennero scritti nuovi canti che mancavano dell’ispirazione e del gusto degli originali. Se nella Germania del XIX secolo avessimo preso in mano un Liber Gradualis, vi avremmo trovato melodie spogliate dei loro melismi o abbellimenti melodici, così da poter essere cantate il più rapidamente possibile, in modo che il coro potesse concentrarsi sulla “vera” musica a più voci o accompagnata dagli strumenti. Questa mentalità utilitaristica ha eliminato la bellezza principale dei canti gregoriani, e ha rovinato l’equilibrio interno delle diverse parti della liturgia.
La restaurazione di un così immenso tesoro della Chiesa – e vera parte integrante della sua solenne liturgia! – doveva, prima o poi, avvenire. È arrivò tramite gli sforzi combinati di un monaco e di un papa. Dom Prosper Guéranger (1805–1875) fondò l’Abbazia di Solesmes nel 1833 e la trasformò in un concentrato di osservanza monastica, dove tra l’altro l’Ufficio divino e la Messa venivano completamente cantati. I monaci di Solesmes, nel loro lavoro di restauro delle melodie e dei ritmi distintivi del gregoriano, si sono dedicati anima e corpo allo studio di centinaia di manoscritti antichi e medievali. Subito dopo la sua incoronazione nel 1903, Papa San Pio X incontrò a Roma i monaci di Solesmes, e li incaricò del monumentale compito di pubblicare i libri liturgici di canto gregoriano, con le melodie e i ritmi corretti. Da queste direttive pontificie nacque una lunga serie di influenti pubblicazioni realizzate (o approvate) da Solesmes – molte delle quali sono ancora oggi in uso, in particolare il Liber Usualis, il Graduale Romanum, e l’Antiphonale Monasticum.
Si può tracciare una linea diritta e logica che va da Guéranger, Solesmes e Pio X fino al capitolo 6 della Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (so bene che questa Costituzione ha ricevuto, e merita, molte critiche, ma si da il caso che il capitolo 6 sia profondamente tradizionale). Permettetemi di condividere con voi alcuni estratti di quel documento – parole che per molti di voi potrebbero suonare familiari:
“La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d’inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne…
Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue…
L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto… Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le «scholae cantorum»… La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica”.
Devo dire che quando ho letto per la prima volta queste parole, molti anni fa, sono rimasto sbalordito. Non corrispondevano in alcun modo a quello che da giovane cattolico avevo sperimentato crescendo nell’America degli anni ‘70 e ‘80, frequentando una chiesa con tappeti viola, luci alla Star Trek e cantanti pesantemente microfonati, dove il meglio che si poteva sentire era “On Eagle’s Wings” o “Yahweh, I Know You Are Near”. Il Movimento Liturgico originale, a cui si ispiravano queste emozionanti parole di Sacrosanctum Concilium, operava per restaurare e recuperare le tradizioni più ricche e più belle della preghiera cattolica, non per abbandonarle e sostituirle con canzoncine popolari di seconda o terza categoria. Una combinazione esplosiva di antiquarianismo fantasy e mania di aggiornamento/modernizzazione ha di fatto demolito l’edificio del culto cattolico, cancellando il canto gregoriano dalle vite dei fedeli. La buona notizia è che un lento processo di ricostruzione, qua e là, ha riportato il canto gregoriano da una quasi-estinzione a una condizione moderatamente fiorente. In ogni caso, il gregoriano non morirà mai perché è musica liturgica perfetta, e ogni volta che questo fatto viene riscoperto, la gente se ne innamora di nuovo.
Ora, i Padri conciliari non offrono alcuna spiegazione del perché il canto gregoriano sia la musica propria del rito romano – o, più in generale, del perché l’uso di un canto antico sia proprio della celebrazione liturgica. Lo davano semplicemente per scontato? Questa, da parte loro, potrebbe essere stata un’ingenuità. Inutile dire che oggi la cosa non si può più dare per scontata, almeno in Occidente. Vorrei quindi fornire una giustificazione per l’uso coerente e predominante del canto gregoriano nel rito latino o romano.
Prima di addentrarmi nelle otto qualità distintive del gregoriano, vorrei affrontare una domanda più fondamentale: perché cantiamo i nostri testi liturgici? Perché non parliamo e basta?
Il canto dei testi sacri si ritrova in tutte le religioni del mondo. Questa pratica universale deriva da un senso intuitivo per cui delle cose sante e dei santi sentimenti che le accompagnano non si dovrebbe parlare come si parla delle cose ordinarie di ogni giorno, ma elevandole a un livello superiore attraverso la modulazione melodica, o sommergendole nel silenzio. I rituali autentici, dunque, tendono ad alternare silenzi e canti. Entrambe queste cose possono presentarsi da sole oppure in congiunzione con azioni simboliche. Il contrasto tra canto, che è espressione umana al massimo livello, e silenzio, che è un volontario trattenersi dall’esprimersi, colpisce di più del contrasto tra il parlare e il non parlare. Il primo è come l’alzarsi e il ricadere delle onde marine, mentre il secondo ricorda più l’accendersi e lo spegnersi di una lampadina.
Il parlato è una modalità principalmente discorsiva e istruttiva, rivolta “a” un ascoltatore, mentre il canto, che unisce in maniera più facile e naturale molti cantanti in un unico corpo, ha pure la capacità di farsi veicolo di sentimenti e di significati che superano la portata delle sole parole, aumentando notevolmente il potere penetrante delle parole stesse. Questo lo si ritrova soprattutto nei “melismi” del gregoriano, quelle lunghe elaborazioni melodiche su un’unica sillaba che danno voce a emozioni e aspirazioni interiori che le parole non possono esprimere appieno. “La parola che affiora sulle nostre labbra si libera dai suoi limiti e si dilata nel canto”, nelle parole di Giacomo Baroffio (23);
Ecco un meraviglioso esempio di un canto gregoriano pieno di melismi, preso dal tempo pasquale: è l’antifona di Offertorio per il Giovedì dell’ottava di Pasqua, che prende un versetto dell’Antico Testamento, da Esodo, capitolo 13, e lo applica ai cristiani appena nati dal Battesimo: “Nel giorno della tua solennità, dice il Signore, ti condurrò in una terra dove scorrono latte e miele, alleluia”.
Il filosofo Victor Zuckerkandl afferma:
“La musica è appropriata, è utile, laddove si presuppone o si richiede l’abbandono di sé – dove il sé va oltre di sé, dove soggetto e oggetto si incontrano. I toni sembrano fornire il ponte che rende possibile, o almeno facilita, l’attraversamento del confine che li separa… Per mezzo dei toni, colui che parla può uscire da sé e raggiungere le cose, e portare dentro di sé le cose che stanno al di fuori, di modo che non siano più “l’altro”, qualcosa di estraneo che egli non è, ma insieme “l’altro” e “sé stesso”… Il cantante rimane quello che è, ma il suo io si allarga, il suo raggio vitale si allarga: essendo ciò che è, ora può, senza perdere la sua identità, stare con ciò che non è; e l’altro, essendo ciò che è, può, senza perdere la sua identità, stare con lui”.
In definitiva, si può riassumere in questo modo: cantiamo quando siamo uniti, o desideriamo essere uniti, alla nostra attività o all’oggetto della nostra attività. Questo vale, ad esempio, quando siamo innamorati di un’altra persona. E vale soprattutto quando siamo innamorati di Dio. Questa è l’origine dell’insuperabile musica della tradizione cattolica. Sant’Agostino dice: “Solo l’amante canta”. Cantiamo… sussurriamo… e ritorniamo nel silenzio.
Nel suo discorso, Zuckerkandl fa una considerazione che mi ricorda dolorosamente gli anni di crescita nel Novus Ordo, con assemblee che recitavano insieme il Gloria o il “Santo, Santo, Santo”: “Si può immaginare che delle persone si riuniscano assieme per parlare canzoni? Si può, ma solo come possibilità logica; nella vita reale, questo sarebbe assurdo. Trasformerebbe qualcosa di naturale in qualcosa di assolutamente innaturale.” La recitazione di testi che normativamente andrebbero cantati, in una messa bassa, “funziona” soltanto perché il sacerdote, da solo, recita i testi, e lo fa all’altare, ad orientem. Non sta rivolgendo le parole della canzone a nessun altro se non Dio. Così, esse acquisiscono uno status rituale paragonabile a quello del canone recitato. Parlare testi cantati non è liturgicamente l’ideale; a ben vedere, questa forma di Messa si è sviluppata per la devozione personale del sacerdote, quando si trovava a celebrare con soltanto un ministrante, a un altare laterale. Riempire di persone una grande chiesa per poi dire assieme delle canzoni, invece di cantarle, dovrebbe suonare a tutti alquanto strano.
Ci sono poi anche delle ragioni pratiche per cantare. Come dimostra l’esperienza, i testi intonati o cantati con la corretta elocuzione possono essere uditi con maggiore chiarezza e potenza, in una grande assemblea di persone, rispetto a testi che vengono letti ad alta voce o addirittura gridati. La musica ha la capacità di trasportare le parole e di farle penetrare nelle orecchie e nell’anima di chi ascolta (si pensi al “Dominus vobiscum”). Nell’antichità, la poesia epica e lirica, e anche certe parti dei discorsi politici, venivano cantate proprio per questo motivo. Gli atti di culto pubblico vengono resi più solenni, e il loro contenuto più attraente e memorabile, dal canto di clero, cantori, coro e fedeli.
Consentitemi una breve digressione sull’uso di microfoni e altoparlanti nelle chiese. L’amplificazione elettrica non è necessaria quando gli architetti costruiscono degli spazi che risuonano correttamente, e i ministri liturgici imparano a cantare in modo chiaro. Una chiesa ben costruita con cantanti ben formati non ha assolutamente bisogno di amplificazione artificiale. Inoltre, contrariamente a uno dei presupposti chiave alla base del distruttivo restauro che ha interessato i nostri riti, non tutto nella liturgia deve essere visto o ascoltato da tutti. Ovviamente, un moderno aeroporto senza altoparlanti per gli annunci è inimmaginabile; ma quando lo stesso tipo di produzione sonora tecnica, pragmatica, impersonale e sfocata invade le chiese, è una tragedia. In una chiesa, il microfono uccide l’intimità, l’umiltà, la località e la direzionalità della voce umana. La voce ora diventa quella di un gigante a-spaziale, di un Grande Fratello più grande della vita umana; una voce che viene da ovunque, e dal nulla, che domina e sottomette l’ascoltatore. Mettere microfoni e altoparlanti in una chiesa non migliora un processo naturale; lo sovverte. Non c’è continuità tra una voce naturale e una voce amplificata artificialmente: sono due fenomeni separati, con fenomenologie del tutto differenti.
Passiamo ora alle caratteristiche distintive del canto gregoriano.
Primato della parola. Il gregoriano è, soprattutto, musica al servizio della parola rivelata di Dio, alla quale conferisce un netto primato. È una preghiera cantata, una forma di quella logike latreia o “culto razionale” che San Paolo, nell’Epistola ai Romani (12:1), dice che dobbiamo offrire a Dio. Il gregoriano esiste per proclamare e interpretare parole divine o poesie umane ispirate da quelle parole divine. Sotto questo aspetto, si differenzia da molta della musica successiva, in cui il testo diviene quasi una “scusa” per la musica, un’impalcatura che la voce umana non può fare a meno di evitare, o in cui testi di creazione umana possono essere di qualità inferiore, o teologicamente problematici. La maggior parte dei canti gregoriani ci trasmette le stesse parole di Dio nella Scrittura, cantate con frasi musicali che evidenziano la profondità del significato delle parole. Dom Jacques Hourlier cita p. Hameline, quando dice: “Non si tratta di aggiungere musica alle parole, né di mettere le parole in musica. … Si tratta piuttosto di far emergere la musica che le parole già contengono”[i]. Il canto è una esegesi del testo: la melodia e il ritmo non sono legati al testo in modo casuale o accidentale, ma ne dischiudono e assaporano la verità, enfatizzandone questo o quell’aspetto. Il gregoriano può allora dirsi “ lectio divina musicale”. Ricama sulle parole nello stesso modo in cui gli scrivani medievali realizzavano miniature sulle lettere di inizio frase, e decoravano i margini del testo.
Per mostrare come davvero il canto gregoriano sia lectio divina musicale, diamo un’occhiata a questo canto di comunione del tempo dopo l’Epifania. [Nel video della conferenza ne si può ascoltare una spiegazione a braccio]
Ritmo libero. Proprio a causa della caratteristica precedente, il canto gregoriano è “ametrico” o “non metrico” – l’unica musica di questo genere nella tradizione occidentale. Le frasi musicali gregoriane seguono il ritmo irregolare dei testi della Sacra Scrittura. A differenza dei poeti pagani della Grecia e di Roma, gli ebrei non avevano una poesia metrica. Anche le traduzioni greche e latine dei Salmi, fedeli al carattere dell’originale, non sono metriche. Inoltre, i Padri della Chiesa erano contrari all’uso di musica smaccatamente ritmica nella liturgia – una “musica ritmata” – poiché sapeva troppo dei culti pagani. Dal momento che il canto non è limitato a una griglia predeterminata di battiti, come un ritmo binario o ternario (si pensi ad esempio a una marcia o ad un valzer), ma è adattato alle sillabe delle parole, le sue frasi sembrano fluttuare, scorrere, serpeggiare e librarsi. Esso respira, piuttosto che marciare; si muove con l’ondulazione di un’onda, o come gli uccelli che volteggiano nel cielo. Non-metricità e modalità sono le due caratteristiche che in modo più ovvio distinguono il canto gregoriano da ogni altra musica. Gran parte della “magia” del gregoriano è causata dalla sua fluidità e libertà di movimento senza vincoli, che sembrano sfuggire all’egemonia del tempo terreno e ai limiti della carne rappresentati dalla battuta ritmica.
Secondo il vecchio metodo di Solesmes, si può illustrare la non-metricità del canto contando gruppi di 2 e di 3 (raggruppamenti binari e ternari). Per quanto criticato sia stato questo approccio – derubricato come una ricostruzione romantica – nessun metodo alternativo si è dimostrato in grado di eguagliare il vecchio metodo di Solesmes in termini di lirismo, tranquillità di spirito, unanimità d’insieme e adeguatezza liturgica, per non parlare della chiarezza e facilità pedagogiche. Proprio perché queste qualità sono in effetti piuttosto importanti per noi, come credenti e fedeli in preghiera, io voterei ancor oggi per il vecchio metodo di Solesmes, in generale, anche se non mi dispiace accogliere idee dalla più recente scuola di Solesmes, come la ripercussione di ogni nota in una distropha o tristropha, l’omissione del cosiddetto episema verticale, l’estensione di un episema orizzontale di una nota sulla sua nota successiva, e una maggiore attenzione ai cambiamenti di tempo. Comunque, il mio consiglio è sempre che le scholae di nuova formazione, o con molti componenti, dovrebbero cantare con il vecchio metodo, mentre soltanto i cantori o una piccola schola di cantanti selezionati dovrebbero provare a introdurre qualsivoglia nuova intuizione, e solo nella misura in cui ciò produca risultati edificanti per tutti.
Modalità. Un modo può essere definito come una particolare sequenza di gradini interi e mezzi gradini (dando per scontata la predilezione occidentale per una scala composta di otto gradini), tra i quali c’è un tono dominante (o recitante) e un tono finale su cui la musica arriva a riposare. Gli otto modi si dividono in quattro modi “autentici” (1, 3, 5 e 7), chiamati Dorico, Frigio, Lidio e Misolidio, e quattro modi “plagali” (2, 4, 6 e 8), chiamati Ipodorico, Ipofrigio, Ipolidio e Ipomisolidio. Una modalità plagale ha la stessa finale, ma inizia una quarta sotto e termina una quinta sopra.
Tutta la musica occidentale pre-barocca (e anche certa musica post-barocca) è stata scritta usando questi modi. La celebre aria “Scarborough Fair”, ad esempio, è in modalità dorica, come molti altri canti popolari inglesi. Ma a causa del prodigioso sviluppo dell’armonia nel Rinascimento e della teoria armonica in epoca barocca, dopo il 1600 la musica si cristallizzò attorno a quelle che furono chiamate tonalità maggiori e minori, che corrispondono (più o meno) a soltanto due degli otto modi originali.
Se il sistema di tonalità maggiore/minore permise sequenze di accordi sofisticate e modulazioni drammatiche, le melodie furono tuttavia vincolate entro confini più stretti, e quelle sottili variazioni di sensazione o di umore rese possibili dai modi andarono perse – tranne che nel canto gregoriano. E quanto meravigliosa è la varietà di questi stati d’animo modali! I musicologi medievali assegnarono a ciascun modo uno speciale epiteto descrittivo: il primo si chiamava modus gravis; il secondo, modus tristis; il terzo, modus mysticus; il quarto, modus harmonicus; il quinto, modus laetus; il sesto, modus devotus; il settimo, modus angelicus; e l’ottavo, modus perfectus.
Dal momento che le nostre orecchie sono così abituate al sistema di tonalità maggiore/minore, i canti gregoriani, utilizzando otto diversi modi che raramente si conformano alle nostre moderne aspettative musicali, ci colpiscono come ultraterreni, introspettivi, evocativi, incompleti o, per usare un termine che è stato applicato alle icone bizantine, “brillantemente tristi”. Dovremmo rallegrarci di questo fatto, che illustra una regola generale: una forma d’arte antica viene associata con più facilità, non meno, da un fedele moderno alla santità e alla verità immutabile di Dio, alla Sua “stranezza” o alterità, al Suo mistero trascendente, allo speciale omaggio che Egli merita, e alla nostra necessità di conversione dalla carne allo spirito, cioè da una mentalità mondana a una divina: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi riformare nella novità della vostra mente” (Romani 12: 2). Proprio l’essere differente della forma artistica, accentuata dal passare dei secoli, ha acquisito un significato teologico e religioso. Vediamo la stessa cosa con l’uso di antiche lingue liturgiche, di calici d’argento o d’oro, di paramenti sacerdotali decorati; con l’uso del velo muliebre, per le donne, e con l’architettura romanica o gotica. Tutte queste cose hanno acquistato un potere di espressione e impressione, grazie alla loro immemorabile associazione esclusiva con il culto divino. Quello che voglio dire, in altre parole, è che abbiamo dei vantaggi, in un certo senso, che le persone nel medioevo non avevano.
Canto all’unisono. Poiché il gregoriano è incentrato sulla parola di Dio che ci riunisce nell’unico Corpo di Cristo, è assolutamente appropriato che sia cantato all’unisono – cioè che tutti cantino la stessa melodia allo stesso tempo. Come ha affermato un documento del Vaticano del 1974 (un altro documento che è stato, per inciso, ignorato più o meno da tutti):
“Il canto gregoriano rimarrà un vincolo che renderà tanti popoli una sola nazione, radunata nel nome di Cristo con un sol cuore, un solo pensiero, una sola voce. Infatti questo impulso all’unità, espresso dalla concordia delle voci di una varietà di lingue, accenti e inflessioni [altrimenti] diverse, rende mirabilmente manifesto il variegato accordo di una sola Chiesa”. (Introduzione a Jubilate Deo)
Il fine ritmo del gregoriano e la tanto ammirata inventiva e complessità delle sue melodie sono possibili, a ben vedere, solo grazie a questa insistenza, al tempo stesso pratica e simbolica, sul canto all’unisono. La musica armonizzata aggiunge splendore alle cerimonie, ma comporta un qual certo sacrificio nella purezza e nella complessità melodiche. Anche se amo profondamente gli Ordinari della Messa in polifonia, e ne ho composti alcuni io stesso, credo tuttavia che ci siano delle grandi qualità irriducibilmente distinte nelle Messe in canto piano, che le rendono particolarmente appropriate allo spirito e alla lettera dei loro testi liturgici.
Possiamo fare alcune considerazioni generali sui canti gregoriani dell’Ordinario. Il Kyrie, con le sue melodie melismatiche, ha un carattere di intensa implorazione della misericordia divina. La sua tradizionale struttura a nove ripetizioni gli conferisce un carattere trinitario doppiamente sottolineato. Come si addice a un testo più lungo, i canti del Gloria sono sillabici o neumatici (cioè ogni sillaba del testo è impostata su una nota musicale o, al massimo, su poche note) e pieni di gioia solenne, in linea con quello che è un inno intonato dagli angeli in onore della Redenzione. Le melodie del Credo sono semplici e maestose, aggraziate ed equilibrate, con un ritmo perfetto per la confessione orante dei dogmi della fede [ii]. Come i Gloria, tendono ad evitare i melismi, eccezion fatta per l’Amen finale. Le messe in canto del Sanctus, inno degli angeli per eccellenza, sono particolarmente solenni, in ossequio alla vicinanza di questa preghiera all’offerta della Santa Vittima sull’altare. Il Sanctus presenta spesso melodie ampie, alte, nobili, svettanti ed estatiche. L’ Agnus Dei, una litania in miniatura che completa il Kyrie penitenziale, presenta una struttura tripartita. Le melodie sono concentrate, imploranti e riservate, poiché vengono cantate alla presenza stessa del re.
Vocalizzazione senza accompagnamento. Ancora oggi, la tradizione cristiana orientale non consente l’uso di musica strumentale nella liturgia: si è tenuta fedele all’antica regola per cui nel tempio di Dio dovrebbe ascoltarsi solo la voce umana – lo strumento innato e donato da Dio, proprio della creatura razionale fatta (e rifatta) a immagine del Logos incarnato, Cristo, il “Canto Nuovo”, come Lo chiama San Clemente d’Alessandria. Sebbene la tradizione cattolica occidentale, a partire dal Medioevo, divenne più favorevole allo sviluppo della musica sia accompagnata che strumentale – e con risultati magnifici! – non si può negare che i cattolici si sono spesso scontrati con la difficoltà a mantenere sacra la nostra musica , o per dirla in negativo, di tenere il profano fuori dal tempio. Come sottolineava Joseph Ratzinger, tre sono stati i principali periodi di invasione di campo del profano: il secolo precedente al Concilio di Trento; il secolo precedente al Motu Proprio Tra le sollecitudini di Pio X; e il mezzo secolo successivo al Vaticano II, fino ai giorni nostri.
Per quanto questa quarta caratteristica sia forse la meno sorprendente (soprattutto perché ci sono altri tipi di musica vocale spesso cantata senza accompagnamento, come la polifonia rinascimentale), resta vero che il suono della nuda voce umana innalzata a Dio in preghiera è insostituibilmente reale,sincero, umile, concentrato – e meno vulnerabile a quel tipo di distrazioni che derivano dall’uso di strumenti musicali, specialmente se suonati in modo virtuosistico, roboante o semplicemente rumoroso. (A volte il canto gregoriano è accompagnato da un modesto e discreto accompagnamento d’organo, ma questo non è ottimale. Col tempo le persone imparano a cantare meglio, con maggiore sicurezza e con maggiore soddisfazione quando non si “appoggiano” al supporto di un organo.) Poche cose rendono in modo più impressionante una testimonianza dell’unità, dell’antichità e dell’universalità della Chiesa di una grande congregazione di fedeli che canta assieme il Credo durante la Messa, dimostrando all’atto pratico che la Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica.
Anonimato. La stragrande maggioranza dei canti latini veniva composta da monaci, cantori e canonici anonimi. Non sapremo mai i loro nomi, in questa vita. Che salutare correttivo all’egocentrismo che spesso accompagna la creatività e la performance artistica! Il canto gregoriano estingue la personalità identitaria – sia perché di solito non ne conosciamo l’autore, sia perché non possiamo “brillare” o risaltare come una rock star quando cantiamo in una schola o nell’assemblea. Esso rema contro al desiderio di spettacolo, incoraggia a immergere la propria individualità in Cristo, e ci permette di agire e sentirci come membra del Corpo Mistico. Come altre pratiche liturgiche tradizionali, l’uso del canto gregoriano ci spoglia dell’uomo vecchio e ci riveste di Cristo. Questo processo di conversione deve essere delicato e continuo se si vuole che in ultima analisi abbia successo. Non può essere il risultato di accessi di entusiasmo, sballi emotivi o violenza psicologica.
Moderazione emotiva. Sarebbe un errore dire che il canto gregoriano è privo di emozioni. Le sue melodie sono profondamente soddisfacenti da cantare e da ascoltare (quando eseguite bene). Esse esplorano le profondità della gioia e dell’esultanza, dell’amarezza e del dolore, del desiderio e dell’abbandono fiducioso. Esprimono molte belle sfumature di sentimento. Possono persino portare alle lacrime chi è spiritualmente sensibile. Tuttavia, le emozioni nel canto gregoriano sono moderate, delicate, nobili e raffinate. Inducono e conducono alla meditazione, alla fuga dello spirito in Dio, che è Spirito. In questo modo, il canto ben si adatta al moto ascensionale della preghiera, che inizia con l’incontro di un simbolo o di un testo, su cui ruminiamo, da cui viene acceso il desiderio, e che, col favore di Dio, riposa nel Suo abbraccio, mentre fissiamo lo sguardo su di Lui. Qui mi sto riferendo alle quattro fasi della lectio divina, che Guigo il certosino identifica come lectio, meditatio, oratio, contemplatio.
La “temperanza” del gregoriano assume un’importanza speciale ai nostri tempi, quando così tante persone vivono una vita dal ritmo incalzante (se non frenetico!), e piene di impegni sfiorano appena la superficie delle cose, esaltate e iperattive, suscettibili e financo stremate dalla troppa stimolazione emotiva (musica, film, video, internet etc.). In un modo che indubbiamente non era così necessario nel Medioevo, il gregoriano diventa per noi un rimedio medicinale, un salutare disintossicante, richiamo a una maggiore interiorità, aiuto per raggiungere un riposante silenzio, promotore e custode di una giusta gerarchia spirituale. Nelle parole di Giacomo Baroffio: “La preghiera liturgica insegna a mettersi su una certa lunghezza d’onda che è autonoma rispetto al caos mondano … Il canto gregoriano ha la forza di incantare, distogliere il cuore dalle preoccupazioni perché si dilati e si orienti a Dio nell’adorazione e nel silenzio attonito” (25; 33). Papa Leone XIII dice qualcosa di simile in una lettera del 1901:
“In verità, le melodie gregoriane sono state composte con molta prudenza e saggezza, al fine di rendere chiaro il significato delle parole. Risiede in loro una grande forza e una meravigliosa dolcezza mista a gravità, che suscita prontamente sentimenti religiosi nell’anima di chi li ascolta e nutre pensieri benefici proprio quando sono necessari”. [iii]
Sacralità inequivocabile. Questo è forse il fatto più ovvio, ma il suo significato è raramente apprezzato appieno: il canto gregoriano è nato esclusivamente per il culto divino, e non si presta a nessun altro uso. È intrinsecamente sacro, cioè riservato a Dio solo. È l’equivalente musicale dell’incenso e dei paramenti, che non vengono usati se non per il culto. Tutte queste cose sono come la “guardia d’onore” e gli “assistenti” privilegiati di Cristo, evocando con forza la Sua presenza e guidandoci senza sforzo verso quella presenza.
Il gregoriano, dice Swain, è “l’icona musicale del cattolicesimo romano”. In quanto tale, contrasta con gli stili di musica secolari che, quando introdotti in chiesa, trasmettono un significato ambiguo: abbiamo a che fare con il nostro Signore o con il mondo (se non con la mondanità)? Stiamo abbassando Dio al nostro livello, o Gli stiamo chiedendo di elevarci per prendere parte alla Sua divinità? È stato spesso osservato come la connessione tra gregoriano e cattolicesimo sia ben sfruttata dai registi di Hollywood, i quali, ogni volta che vogliono evocare un ‘“atmosfera cattolica”, si assicurano che ci sia in sottofondo qualche canto gregoriano. Se soltanto il clero di oggi avesse anche solo la metà del loro “senso degli affari”!
Ricapitolando: le otto caratteristiche del canto gregoriano sono: primato della parola; ritmo libero; modalità; canto all’unisono; vocalizzazione non accompagnata; anonimato; moderazione emotiva; sacralità inequivocabile. Queste caratteristiche, prese insieme, mostrano che il gregoriano non è solo un po’ diverso dagli altri tipi di musica, ma è radicalmente e profondamente diverso. È musica liturgica in tutto e per tutto, esiste esclusivamente per il culto divino ed è perfettamente adatta alla sua natura verbale e sacra, nonché alle esigenze dei fedeli che la associano al culto e che la trovano contemporaneamente bella e strana, come lo è Dio stesso.
Gli esseri umani sono fatti per la contemplazione di Dio. Il canto gregoriano ci prepara a questa contemplazione e la inaugura. È musica che ci evoca e ci attira verso la visione beatifica. In particolare, i melismi esprimono “gli ineffabili sospiri e gemiti” dello Spirito. Il canto gregoriano – e, in modo diverso ma complementare, la silenziosa Messa bassa – porta in ogni chiesa qualcosa di quello spirito rivitalizzante del chiostro, la tranquillità della monastica “ricerca di Dio”. Se il monachesimo non è altro che la vocazione battesimale cristiana vissuta nel modo più radicale e integrale possibile, allora anche la nostra liturgia dovrebbe avere questo nucleo di identità, purezza ed efficacia monastiche. Senza tale nucleo, siamo già su un sentiero in discesa verso la superficialità, la distrazione e la mondanità. [iv]
Possiamo capire meglio ora perché il Concilio Vaticano II afferma che il canto gregoriano è una parte necessaria o integrante della liturgia solenne; perché dà una forma più nobile alla celebrazione della liturgia; e soprattutto, perché è particolarmente adatto al rito romano e, al suo interno, merita di gran lunga il primo posto. Quando viene eseguito in modo edificante, il gregoriano in sé e per sé “si accorda con lo spirito dell’azione liturgica”, cosa che non si può dare per scontata per qualsiasi altro tipo di musica. È, in altre parole, la definizione stessa di ciò che significa “essere in accordo con lo spirito dell’azione liturgica”, e le altre creazioni musicali devono mettersi in coda, per così dire, per essere valutate alla stregua di questo criterio supremo – proprio come aveva detto Papa Pio X nel suo Motu Proprio Tra le Sollecitudini:
“[Si può] stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”.
(Traduzione a cura di Carlo Schena)
Note:
[i] Hourlier, Spirituality of Gregorian Chant , 27.
[ii] Nella sua grande opera su Bach, Albert Schweitzer afferma che il Credo è un testo scomodo e difficile da mettere in musica, poiché è stato scritto senza alcuna idea che in seguito lo si sarebbe cantato. Sembra che Schweitzer non avesse grande familiarità con i Credo gregoriani, così cantabili e così eleganti nella forma.
[iii] Leone XIII, Lettera Nos Quidem all’abate di Solesmes dom Paul Delatte, citato da Hourlier, p. 27.
[iv] Come dice Baroffio in modo piuttosto schietto: “l’espulsione del gregoriano dalla liturgia [ha] favorito, invece, il diffondersi di schiamazzi e sdolcinature che, al di là dell’inconsistenza artistica, non sono in grado di orientare i cuori a Dio” (42) .
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