Qui le altre parti
Roberto
Liturgia,
consuetudine e diritto canonico
delectique sacerdotes in publica vota
officio vinxere deum; quibus ipsa potentis
numinis accendit castam praesentia mentem,
inque deum deus ipse tulit patuitque ministris.
[M. Manilio, Astronomica, I, vv. 46-50, ed. Flores]
officio vinxere deum; quibus ipsa potentis
numinis accendit castam praesentia mentem,
inque deum deus ipse tulit patuitque ministris.
[M. Manilio, Astronomica, I, vv. 46-50, ed. Flores]
La
posizione di controparte
Rispetto alle
possibili modifiche alla Liturgia, la posizione di “Traditio
Marciana”, se l'ho intesa correttamente, si direbbe questa: esse
dovrebbero avvenire soltanto, o quasi soltanto, in forza “del diritto
consuetudinario, cioè dello sviluppo organico della liturgia basato sull'azione
del πλήρωμα della Chiesa”,[1] ossia dell'insieme “autorità
+ fedeli”. Riscontrato che, soprattutto da S. Pio X in poi, questo sviluppo
organico – fonte ed essenza della “autentica tradizione liturgica romana”
- sarebbe stato interrotto da massicci interventi unilaterali dell'autorità
pontificia, la mia controparte, pur senza pretese propagandistiche, auspica in
sostanza che si riportino indietro le lancette dell'orologio, si ripudi la
massima parte di codeste modifiche e si faccia ripartire lo sviluppo organico, per
via consuetudinaria, più o meno là dove la mano violenta dei Papi l'ha
stroncato. Non per nulla, lo scopo principale della replica è “illustrare perché
liturgicamente il rito del 1962 non può identificarsi né con la 'messa
tridentina', né con la 'messa di sempre'”; e altrettanto fa per il
Breviario riformato da S. Pio X.
Questa
concezione, a mio avviso, è problematica anzitutto sotto il profilo storico.
La
tradizione ha sempre un autore determinato... a costo di inventarlo!
L'insistito
ricorso dei miei interlocutori al termine “tradizione” ha già richiesto un chiarimento
previo, data la sua equivocità. Ora, però, vorrei sottolineare un tratto
che invece è comune a tutte le sue accezioni: si tratti del deposito della
Fede, della Rivelazione non scritta o, fatte le debite proporzioni, di semplici
norme disciplinari, traditio è il vocabolo che designa
l'introduzione di un'usanza da parte di un autore determinato, “consegnata”
alla comunità affinché la osservi e la tramandi fedelmente.[2] Tanto che, per scambio tra
causa ed effetto, passa poi a significare anche l'osservanza pura e semplice
della legge (cosa diversa dalla consuetudine, che ad essa aggiunge o toglie qualcosa
almeno in termini interpretativi). Si tratta, invero, di una più generale forma
di legittimazione delle norme, comune a cristiani e pagani, all'antichità come
al Medioevo: il “potere tradizionale” di Max Weber, all'incirca. Ma ciò
significa che la consuetudine, sebbene possa essere di fatto opera della
collettività indistinta che controparte sembra postulare, si legittima
soprattutto appoggiandosi ad un autore. Tanto che, se non ce l'ha, lo
inventa. Sia tra i cristiani sia tra i pagani.
Tutto al contrario
del nostro, infatti, il mondo classico e tardoantico considerava l'antichità di
un'usanza o di una dottrina come sorgente di una legittimazione forte, quasi
una prova di verità in sé: le dimostrazioni sovrabbondano e vanno dal rispetto
romano per il mos maiorum alla querelle antigiudaica, e poi
anticristiana, se Platone avesse copiato da Mosè o viceversa, o se putacaso
avessero entrambi “copiato” dagli Egizi la cui religione era considerata la più
antica di tutte, fino a Giamblico che sfrutta questa patente di antichità per
innestarvi la propria teurgia;[3] per non parlare poi di come
tutta la letteratura classica, fin dalle origini, sia improntata alla ripresa
di modelli anteriori, tra imitazione e rivalità, o di come perfino un autocrate
quale Giustiniano, promulgando il Digesto, avverta di aver cambiato multa et
maxima nei testi degli antichi giuristi, e tuttavia li lascia ciascuno
sotto il nome dell'autore originario,[4] perché nella sua compilazione
deve trovarsi “raccolto, come al riparo di un muro di cinta, tutto il
diritto antico e niente al di fuori”.[5]
E tuttavia, le
tradizioni più antiche avevano sempre un iniziatore, di solito un
personaggio del mito o della leggenda: tutte le leggi di Sparta venivano fatte
risalire a Licurgo, mentre Atene da questo punto di vista era più varia;
ciascuno dei sette re di Roma si vede attribuire l'atto fondativo di qualche
istituzione; in letteratura greca, poi, Omero passava per l'inventore di tutti
i generi letterari.
Nella
Chiesa, le cose non sono affatto andate diversamente;[6] anzi, forse era ancor più
sentita l'esigenza di poter invocare, a supporto della tal regola o usanza, un
personaggio autorevole, un auctor,[7] eminente per santità, quanto
più antico tanto meglio: l'ideale era che fosse ricollegabile in via diretta,
se non alla cerchia dei Dodici, almeno ai settantadue discepoli del Signore o
alla prima generazione cristiana. Così, giusto per fare un esempio, la
collezione di diritto canonico più antica prende il nome di Canones
Apostolorum, ma è certo che gli Apostoli non ne sono stati in alcun
modo gli artefici; e questa forma mentis è passata inalterata al
Medioevo, dando luogo sia alla caratteristica legittimazione del pensiero per auctoritates
(...appunto), sia ad analoghe ricerche di legittimazione, che esagerano il
ruolo storico di una figura o addirittura lo inventano di sana pianta.[8]
In ambito
liturgico, valeva lo stesso discorso, a Est come ad Ovest. I vari riti
orientali prendono nome da S. Giacomo Apostolo, da S. Basilio, da S. Giovanni
Crisostomo e via dicendo; l'effettivo ruolo avuto da S. Ambrogio nel plasmare
quello milanese è stato amplificato fino ad attribuirgli la paternità
dell'intero, donde appunto il nome di “rito ambrosiano”. A Roma poi, che è la
Sede di nostro specifico interesse, già le fonti locali più antiche ci mostrano
un sensus Ecclesiae che legittima le usanze liturgiche attribuendone
l'introduzione all'iniziativa di un Papa.
Così, infatti,
il Liber
Pontificalis (fine V-VI sec.),[9] nonostante l'ovvio appoggio
scritturistico, ascrive a papa Lino, ma per ordine di S. Pietro, l'uso che le
donne stiano in chiesa a capo velato; a Clemente la redazione ufficiale di atti
dei Martiri (che venivano poi recitati nelle commemorazioni liturgiche);
invece, Papa Alessandro
I “Avrebbe introdotto la commemorazione della passione del Signore
nel canone della messa e avrebbe disposto che la benedizione delle case si
facesse con acqua e sale”; dal canto suo, Sisto I è l'auctor del
divieto per i non consacrati di toccare le cose sacre, oltreché del canto del Sanctus
nella Messa; a Papa Telesforo vengono attribuiti il Gloria[10] e la Messa notturna di
Natale, nonché il digiuno nelle sette settimane prima della Pasqua; solo con
Pio I, però, si sarebbe stabilito di celebrare quest'ultima di domenica. E
potrei continuare ancora a lungo,[11] ma conta la sostanza: non
c'è un tassello della S. Messa che non venga attribuito a un Papa
(Consacrazione a parte, ovviamente) e, si può dire, non c'è un Papa che non
innovi qualcosa.
Questa è
l'autocomprensione ufficiale della storia del rito romano, da parte della
Chiesa di Roma, tra la fine del V e il VI sec. E questa rimane in seguito,
perché il Liber Pontificalis è ben conosciuto, letto, copiato, entra
nelle collezioni di diritto canonico e nelle storie della Chiesa.
Questa è anche
la percezione che i Papi di allora avevano della propria autorità concreta in
materia liturgica: sempre secondo il Liber, la cui attendibilità
ovviamente cresce a mano a mano che si avvicina all'epoca dei primi redattori,
l'uso di cantare Salmi durante la Messa fu introdotto da Celestino I (422-431),
mentre Gelasio (492-496) fu autore di nuovi Prefazi. Da plurime fonti sappiamo
per certo che, nel 501, Papa
Simmaco cambiò addirittura la data della Pasqua, in modo che non
coincidesse con quella dei Greci, allora separati da Roma in forza dello scisma
acaciano. Certo, lo scandalo fu grande, tanto che – non solo per quel motivo –
egli si ritrovò uno scisma in città, un antipapa in Laterano, un assedio al
Vaticano e un processo per accuse infamanti; almeno una volta, rischiò di
essere lapidato mentre sta andando a un'udienza o forse ne ritorna... ma non
mollò e, circostanza forse più importante ai nostri fini, ebbe dalla sua il
sostegno della maggior parte del popolo (contro l'aristocrazia senatoria
filobizantina). Lungi dall'essere criticato per l'innovazione liturgica, che
pare non rientrasse neppure tra i capi di accusa, è venerato come santo.
Insomma, anche
se la più antica raccolta di testi liturgici romani, il Sacramentario Veronese,
il cui materiale dovrebbe essere più o meno coevo al Liber Pontificalis,
attesta la permanenza di una pluralità di formulari e, quindi, fors'anche di
consuetudini diverse da chiesa a chiesa, il Vescovo della città esercitava, e
riteneva che i suoi predecessori avessero sempre esercitato, un potere di
innovazione rispetto ad ogni consuetudine, per quanto radicata. Come dire che l'accentuazione
dell'autorità papale va anticipata di almeno cinque o sei secoli rispetto
al 1054, che per “Traditio Marciana” parrebbe segnare il discrimine.
Considerato
che i successivi Sacramentari testimoniano ulteriori evoluzioni non marginali
della Liturgia,[12]
che ancora S. Gregorio Magno ha modificato il Canone – ultimo Papa a farlo
prima del 1962[13]
– senza ritenerlo né di origine apostolica né tantomeno intangibile, che il Sacramentarium
Gregorianum che va sotto il suo nome data, invece, almeno al Pontificato di
Onorio I (625-638) e che ha subito modifiche a più riprese, ancora sotto
Gregorio II (715-731),[14] mi sembra che si possa
tranquillamente affermare che l'autorità papale non si è affievolita neanche in
seguito.
Altrettanto
viva è rimasta anche la fonte consuetudinaria. Carlo Magno, in un'ottica di
uniformazione liturgica nei territori a lui soggetti, ha voluto introdurre i
riti romani, che però si sono variamente combinati con consuetudini anteriori o
ne hanno generate di nuove; in particolare, l'Ordo Missae ha subito
ulteriori ampliamenti, soprattutto in termini di orazioni sub secreto,
ed è stato cambiato anche il Canone, che a Roma non prevedeva la commemorazione
dei defunti. Ma, se al tempo d Carlo nessuno aveva levato alte stride in difesa
dei riti locali, ancor meno a Roma stessa, dove, nel corso del sec. XI, vengono
recepiti i libri liturgici trasformati d'Oltralpe, senza che vi faccia ostacolo
neppure l'accennata diversità del Canone. E va segnalato anche il caso
dell'Inghilterra, dove Beda il Venerabile attesta e documenta il progressivo
superamento delle usanze dei cristiani britanni, dopo l'arrivo di S. Agostino
di Canterbury, in favore delle norme liturgiche e disciplinari di Roma, ogni
scostamento dalle quali, per lui, sembra quasi equivalere a un sospetto di
eterodossia.[15]
Lo sviluppo
dell'Ordo Missae viene sostanzialmente a cessare dopo il XIII sec., ma
alcune delle novità successive, sebbene “minori”, hanno un profondo significato
dottrinale.[16]
E testimoniano, soprattutto, della persistente vitalità di entrambe le fonti,
legislativa pontificia e consuetudinaria. Invece, come si è visto, di una
sola cosa non si trova traccia in tutto l'Occidente: la pretesa intangibilità
della consuetudine liturgica.
Forse perché
non è mai esistita.[17]
La Liturgia fa parte del diritto canonico
Nel proprio amore per la consuetudine, “Traditio
Marciana” non manca di contrapporre in modo piuttosto netto la propria
concezione della disciplina liturgica alla mia, che sarebbe “legalistica”
e tutta imperniata sulla “norma canonica e positiva”; biasimo che in
sostanza vengo a condividere sia con il Card. Siri sia, si direbbe, con
l'Enciclica Mediator Dei, a me accomunati in un rimprovero generale: “si
attribuisce non alla Chiesa, ma all'autorità ecclesiastica, la facoltà di
cambiare arbitrariamente ciò che la Chiesa [manca il verbo] (il fatto che si definisca
'Chiesa' una parte sola della stessa, cioè l'autorità ecclesiastica, è simbolo
di una distorta concezione della Chiesa medesima).” (nt. 9 del testo).
Avendo
dedicato un
intero libro ai diritti soggettivi dei fedeli e all'esigenza di una loro
maggior tutela, fatico assai a riconoscermi in quell'identificazione tra Chiesa
e gerarchia che ex adverso mi si vorrebbe attribuire.
Di sicuro,
però, riconosco alla Gerarchia il monopolio del potere decisionale. Salvo
ovviamente il diritto divino, fondamento necessario di ogni autorità legittima
(cfr. Rm 13,1).
Tale monopolio
è pienamente compatibile sia con il fatto che, a certe condizioni, in diritto
canonico la consuetudine prevale sulla legge, sia con la cessazione
dell'obbligatorietà della legge anche giusta, eppure non accettata dal popolo:
entrambi gli istituti, infatti, restano in ultima analisi condizionati al
concreto volere e operare dell'autorità (e tra poco lo vedremo in maggior
dettaglio).
La mia
controparte sembra ragionare come se “norma canonica” fosse soltanto la legge
umana scritta. Sono costretto a disingannarla: perfino il più raffazzonato
compendio della materia riesce pur sempre a dire che il diritto canonico
consiste di norme divine e umane, scritte e consuetudinarie, dei princìpi
generali[18]
e dell'opinione costante dei giuristi (cfr., ad ogni buon conto, cann. 19 e
23-28). Sia per questo, sia per il fatto che il concetto canonico di “legge”
comprende tutte le norme volte al bene comune, in questo caso soprannaturale, è
evidente che la Liturgia vi rientra a pieno titolo. Come ramo speciale e
specializzato, certamente, data la sua particolarissima relazione con la Grazia
divina e la salus animarum... ma questo non comporta un assetto diverso
delle fonti di produzione normativa; in particolare, la consuetudine liturgica
non gode affatto di uno statuto speciale. “Di che genere sia questo diritto e in che
modo venga introdotto, si deve ricercare secondo le regole generali sulla
consuetudine. Sembra infatti che non abbia nulla di speciale, ma gli si debbono
applicare, in modo proporzionato, i princìpi sulla consuetudine”.[19]
La fonte
consuetudinaria nel diritto canonico (e liturgico)
Come ho detto
in esordio, sembra che per “Traditio Marciana” esista un misconosciuto tertium
genus tra il diritto divino e il diritto umano: anche laddove abbiano
origine umana, le norme liturgiche non sarebbero modificabili se non per via di
consuetudine. Certo non in forza di un intervento della sola autorità
ecclesiastica, ancorché suprema. Non è chiaro, anzi sembra non importare
granché, se la trasgressione del preteso divieto ponga un problema di liceità o
di legittimità.
Sono
sicurissimo, naturalmente, che la mia controparte non intenda riproporre
l'opinione di John Major, secondo cui, dal momento che la Chiesa come universitas
fidelium è superiore al Papa, le leggi pontificie non hanno alcuna forza
obbligante fino a quando non diano origine ad una consuetudine conforme.[20] Dopotutto, è un'opinione
rimasta isolata già al suo tempo e oggi affatto inconciliabile con le
definizioni della Pastor Aeternus... ma, soprattutto, non gioverebbe
affatto ai suoi fini, perché tutte le riforme papali, almeno fino a S. Pio X
incluso, sono state recepite nell'uso generale.
In effetti,
non è chiarissimo – almeno per me - a quale principio intendano mai appellarsi.
Dunque, chiarisco intanto io la mia posizione.
In filosofia
del diritto, preferisco di gran lunga von Hayek a Kelsen, quindi anche per
me la fonte consuetudinaria è la fonte ideale per la produzione di norme
giuridiche. A maggior ragione nell'ambito canonico, dove la dottrina è concorde
nell'affermare che si tratta di quella più stabile e dotata delle maggiori
garanzie di rispondenza al bene comune.
Attenzione,
però: le norme non sono buone perché tradizionali, ma tradizionali perché
buone. Una norma che, alla prova dei fatti, ha retto per secoli è sorretta
da una presunzione di razionalità e adeguatezza molto forte; difficile pensare,
senza un'analisi congrua, che i presupposti su cui si fondava – e che hanno
durato tanto – siano improvvisamente venuti meno. Difficile... ma non
impossibile. In più, nella storia della Chiesa, tutti i grandi movimenti di
vera riforma, da quella gregoriana alla tridentina, hanno dovuto combattere
proprio contro usi plurisecolari, che magari all'inizio avevano avuto una
ragion d'essere ma poi erano degenerati in pietre di inciampo. Già solo per
questi motivi, la legge scritta deve sempre avere il potere di abrogare la
consuetudine.
Esiste
un'eccezione in ambito liturgico, magari relativa proprio all'autorità
pontificia? Per la verità sì, o almeno è stata teorizzata, ma stranamente la
mia controparte non ne parla: è l'ipotesi del Papa scismatico. Ne tratteremo a
proposito della non abrogazione del Messale del 1962.
A prescindere
da tale caso, tuttavia, vale anche in ambito liturgico la regola per cui la
forza giuridica di ogni consuetudine viene meno sia quando essa cambia sia
quando venga mutata o abrogata da una legge, a maggior ragione se questa
viene recepita dalla maggior parte della comunità destinataria.[21] Del resto, in tali ipotesi
viene meno lo stesso comportamento materiale in cui essa necessariamente
consiste, la costante ripetizione dei medesimi atti. Ma la condotta collettiva
non basterebbe affatto, da sola, a fondare una vera consuetudine obbligante: la
capacità di obbligare proviene sempre dal consenso dell'autorità, almeno
tacito o presunto.[22]
Ex adverso
si penserà forse ad una degenerazione da princìpi migliori, prevalenti nel
primo millennio, al tempo della “Chiesa indivisa”; e tuttavia, se anche per
loro è necessario od ottimale il consenso di autorità e popolo, quali saranno
le parti rispettive dell'una e dell'altro? Tanto più che, in ultima analisi, il
Popolo di Dio è tale perché riconosce la vigenza, la bontà e la giustizia della
Legge divina, cui tutti i suoi membri sono soggetti, e perché tutti si aiutano
nel perseguire il fine comune, che è la beatitudine eterna.[23]
La Liturgia
come “culto legale” - Un libro liturgico abrogato non è più liturgico
Temo che il
punto principale della mia posizione sia stato male inteso.
Io non penso,
infatti, che la Liturgia sia “semplicemente” la forma cultuale stabilita
con legge positiva e sono ben consapevole della complessità delle sue origini e
fonti (credo di averlo poc'anzi dimostrato, del resto). Tuttavia, affermo che la
forza attuale di legge, scritta o consuetudinaria, è un requisito
indispensabile della Liturgia. Con l'ovvio corollario che un rito liturgico
abrogato o desueto potrà, magari, essere utilizzato da qualcuno a titolo di
mera devozione personale... ma quest'azione non sarà mai liturgica.
Perché? Perché
la Liturgia è il culto pubblico della Chiesa, che rende visibile il
Popolo di Dio come tale, clero e fedeli, tutti uniti nel cooperare, secondo i
rispettivi ruoli, alla giustificazione, all'aumento della Grazia nelle anime,
alla salvezza eterna e alla gloria di Dio. Ciascuno di noi vi partecipa con un
ruolo ufficiale, che, appunto in quanto tale, non è lasciato al suo
arbitrio, ma regolato dal diritto. Sotto l'Antico Testamento, a prescindere
dalle intenzioni, rendeva a Dio un culto oggettivamente gradito solo chi
seguiva la Legge mosaica; nel Nuovo, la stessa esclusiva vale in favore dei
riti stabiliti dalla Chiesa e da Essa mantenuti in vigore. A chi poi spetti il
potere normativo in materia, già si è visto.
In termini
giuridici, i Messali oggi in vigore nel rito romano sono due e due soltanto: il
Novus Ordo nella sua configurazione più recente e il Messale del 1962,
mai abrogato. Alla non abrogazione dovrò dedicare un articolo a parte, visto
che controparte sembra contestarla; ma basti qui il richiamo al “Summorum
Pontificum”. Siccome però è innegabile che sia abrogato tutto ciò che
precedeva il Codice delle rubriche, giuridicamente il rifiuto del Messale del
1962 è inammissibile.
Ma lo stesso
deve dirsi sul piano morale.
In termini
molto schematici:
1.
esiste un generale obbligo morale di seguire le
leggi e quelle liturgiche, in particolare, obbligano sub gravi, perché
riguardano il Primo Comandamento;
2.
non si può mai seguire una legge ingiusta perché
direttamente contraria al diritto divino, ma quelle ingiuste per altre ragioni
obbligano almeno a motivo dello scandalo;[24]
3.
il cambiamento di una legge è sempre un male e
richiede una causa giusta proporzionata, ma se la legge nuova, in origine non
giustificata, viene nondimeno accettata dalla maggior parte del popolo, allora
obbliga egualmente.
Il Messale del
1962 potrà anche costituire un peggioramento rispetto alla versione
ante-riforme di Pio XII,[25] ma questo non lo priva di
forza giuridica e nemmeno di obbligatorietà morale, se non altro perché, come i
miei stessi contraddittori sembrano riconoscere, la generalità del popolo
“tradizionalista” vi si è, grosso modo, conformata almeno dalla fine
degli anni Ottanta.
Ne segue che,
almeno per quanto mi riguarda, tutta la critica volta a dimostrare che esso non
è in alcun modo il “Messale di sempre” (e, per buona misura, il Breviario
nemmeno) va completamente fuori bersaglio, perché irrilevante sotto ogni
aspetto.
Per la
precisione: io potrei preferire forme liturgiche anteriori, per motivi validi o
anche per puro gusto personale; la ragione non farebbe differenza, non mi
renderebbe lecito utilizzarle, appunto perché non sono più liturgiche.
Del pari,
potrei certamente caldeggiare la loro reintroduzione, ma non per il semplice
fatto che, quaranta, cinquanta, cento... anni fa ritengo si sia commesso un
errore ad abrogarle: il punto sembra sfuggire completamente alle mie
controparti, ma ciò di cui si parla è un nuovo cambiamento della legge, che
richiede, come tale, un giudizio di opportunità hic et nunc. Supporre
di poterne prescindere per ripristinare una tradizione “autentica”[26] soppressa da innovazioni
“antistoriche” è almeno altrettanto antistorico... in effetti, è lo stesso
errore degli archeologisti, sorretto bensì da motivi diversi come il principio
dello sviluppo organico, ma in fin dei conti identico nella mitizzazione di un
passato più ideale che reale, senza troppo riguardo per il dato odierno.
Infine, ma non
da ultimo, lo studio di tali forme come dati storici è senz'altro più che
lecito... ma, nel momento in cui da siffatti studi si traggono conclusioni su
ciò che oggi sarebbe auspicabile o anche doveroso nelle norme
liturgiche, questa non è più una posizione (solo) accademica, bensì una
posizione (soprattutto) politica, cioè un giudizio relativo al bene
comune della polis cristiana, in questo caso di rito romano. E allora
dovrà tener conto anche di elementi estranei allo studio storico o alle
opinioni, quand'anche fondatissime, su quali sarebbero le forme liturgiche
ideali: elementi giuridici come l'individuazione delle norme in vigore,
elementi politici come le valutazioni sull'opportunità del loro cambiamento.
Altrimenti, peccherà del classico errore dello specialista appassionato, che
vede il mondo intero solo attraverso gli occhiali della propria disciplina.
Genova, li 31
luglio 2020
S. Ignazio di
Loyola
[1] Cfr. anche la nt. 1: “nella Chiesa
antica, e ancora nell'Ortodossia, il πλήρωμα della Chiesa è comunque
superiore alla singola autorità, gioverebbe ricordare; nella Chiesa cattolica
forse la mentalità è stata un po' forzata in altra direzione”.
[2] “Oportet tamen in primis advertere, in
rigore aliud esse traditionem, aliud consuetudinem. Traditio enim ad mores
pertinens, de qua nunc loquimur, videtur esse prima institutio alicuius operis,
seu modus operandi; vel doctrinam, per quam talis institutio hominibus data
est, seu promulgata; consuetudo vero traditionem continens est exsecutio, et
quasi conservatio primae traditionis”. F. Suárez, Tractatus
de legibus ac Deo legislatore, Napoli 1872, Lib. VII, Cap. III, n. 6.
Cfr. anche infra, n. 7: “invenitur quidem consuetudo sine traditione
praeceptiva, non tamen omnino sine traditione; nam ipsummet initium consuetudinis
ab Apostolis et primis pastoribus Ecclesiae approbatum traditionis vim habuit”.
[3] Ma si potrebbe aggiungere anche Giuliano
l'Apostata, che vuole legittimare tutto il proprio sistema filosofico tramite
interpretazioni allegorizzanti del patrimonio letterario e mitologico della
grecità pagana; l'allegorismo “spinto” non è affatto un'esclusiva dei Padri
alessandrini o di Origene in particolare, ma un altro tratto comune a pagani e
cristiani almeno nel Tardoantico, forse anche prima.
[4] Cost. Tanta,
De confirmatione Digestorum, n. 10: “Tanta
autem nobis antiquitati habita est reverentia, ut nomina prudentium
taciturnitati tradere nullo patiamur modo: sed unusquisque eorum, qui auctor
legis fuit, nostris digestis inscriptus est: hoc tantummodo a nobis effecto,
ut, si quid in legibus eorum vel supervacuum vel imperfectum aut minus idoneum
visum est, vel adiectionem vel deminutionem necessariam accipiat et rectissimis
tradatur regulis. Et ex multis similibus vel contrariis quod rectius habere
apparebat, hoc pro aliis omnibus positum est unaque omnibus auctoritate
indulta, ut quidquid ibi scriptum est, hoc nostrum appareat et ex nostra
voluntate compositum: nemine audente comparare ea quae antiquitas habebat his
quae nostra auctoritas introduxit, quia multa et maxima sunt, quae propter
utilitatem rerum transformata s unt. Adeo ut et si principalis constitutio
fuerat in veteribus libris relata, neque ei pepercimus, sed et hanc corrigendam
esse putavimus et in melius restaurandam. Nominibus etenim veteribus relictis,
quidquid legum veritati decorum et necessarium fuerat, hoc nostris
emendationibus servavimus. Et propter hanc causam et si quid inter eos
dubitabatur, hoc iam in tutissimam pervenit quietem, nullo titubante
reliquimus.”
[5] Cost. Deo
auctore, De conceptione digestorum, n. 5: “...his quinquaginta libris totum ius antiquum, per millesimum
et quadringentesimum paene annum confusum et a nobis purgatum, quasi quodam
muro uallatum nihil extra se habeat”
[6] In effetti, ferma la verità della
Rivelazione divina, fatti ad essa estranei come, ad es., la nascita delle
singole Chiese locali non sono certo andati esenti da una costante
antropologica come il mito
di fondazione.
[7] Sebbene il termine auctor sia uno dei
più complessi nella civiltà e nel diritto di Roma, vorrei qui osservare che,
nell'accezione fondamentale, l'auctor è colui che “accresce” un atto
giuridico, dandogli quella piena validità ed efficacia che altrimenti non
avrebbe.
[8] L'esempio più celebre sono le Decretali
Pseudo-Isidoriane, una collezione di false leggi dei primi Papi realizzata,
nel pieno di uno scontro tra Vescovi e potere temporale al tempo di Ludovico il
Pio, per conferire maggior forza al diritto canonico rivendicato dai primi come
vigente.
[9] L'opera, una collezione di biografie
ufficiale o quasi ufficiale, ci è pervenuta in diverse redazioni e l'edizione
di riferimento (Duchesne) le ha volute ricomprendere tutte in un testo unico,
supposto originario; oggi si
tende a pensare piuttosto ad una serie di riscritture successive; ma si
tratta comunque di una delle fonti più antiche sulle specifiche tradizioni
romane, soprattutto visto il carattere altamente congetturale (e divergente)
delle varie ricostruzioni proposte della Traditio
Apostolica.
[10] “Per quel che concerne l'introduzione
del canto del Gloria durante la messa, conviene osservare che nella prima
redazione del Liber pontificalis, come si ricostruisce dai
compendi feliciano e cononiano, la disposizione era limitata alla sola messa
del Natale, evidentemente a differenza dall'uso di cantarlo la domenica e nelle
feste dei martiri introdotto da papa Simmaco (cfr. Le Liber pontificalis, p.
263). In ogni caso non si hanno testimonianze del Gloria anteriori al IV
secolo, e un intervento in proposito di T. non può corrispondere a un dato
reale.”. F. Scorza Barcellona,
Telesforo,
santo, in Enciclopedia dei Papi, Roma 2000.
[11] Le già citate Decretali Pseudoisidoriane,
oltre a riprendere tutti gli esempi del Liber Pontificalis, ne
aggiungono numerosi altri, a cominciare dalle minuziose prescrizioni in materia
liturgica della seconda lettera attribuita a S. Clemente.
[12] Per questi sviluppi successivi, cfr., dove non
altrimenti indicato, A. Miralles, Teologia
liturgica dei Sacramenti. 3.1 La Messa, Roma 2014, edizione
digitale, pagg. 48-139.
[13] Peraltro con un intervento di riordino non
esattamente marginale, almeno secondo le ipotesi di A. Baumstark, Liturgia
romana e liturgia dell'Esarcato: il rito detto in seguito patriarchino e le
origini del canon Missae, Roma 1904, pagg. 110-3.
[14] In particolare, S. Sergio I (687-701) ha
introdotto l'Agnus Dei. Inoltre, nella versione più recente del
Sacramentario Gregoriano, risultano aumentati anche i segni di croce al Canone.
[15] Si tratta del tema principale di tutta la Historia
Ecclesiastica; decisivo il sinodo di Whitby del 664, quando la data della
Pasqua rimase stabilita, e da tutti accettata, secondo l'uso romano perché
tutti riconobbero che all'Apostolo Pietro era stato conferito il potere delle
chiavi e che la tradizione locale non poteva appellarsi ad un'autorità a lui
superiore; il re Oswiu, a quanto si espresse, volle evitare il rischio di
vedere l'Apostolo sbarrargli la via del Regno dei Cieli (lib. V, 25).
[16] Ma vale la pena notare che la genuflessione
del Sacerdote subito dopo la Consacrazione manca ancora nel primo Messale a
stampa (1474), mentre compare nell'Ordo Missae del Burckhardt (1502) e
vene recepita o mantenuta dal Messale di S. Pio V. Inoltre, l'uso della
Comunione sotto le due Specie, rispetto a cui ancora S. Tommaso d'Aquino si
preoccupa di giustificare teologicamente l'eccezione introdottasi in molte
Chiese (cfr. Summa theologiae, III, qu. 80, a. 12), per il Concilio di
Costanza è già precluso da antica consuetudine universale.
[17] Non dubito che si possa produrre un florilegio
di testimonianze patristiche in senso contrario; tuttavia, c'è una ragione se
il metodo dei dicta probantia è stato abbandonato da tempo, anche in
teologia. Affermazioni troppo generali sono facili e frequenti, in ogni tempo,
soprattutto poi quando si abbia a che fare con gli eretici; ma, allo specifico
contesto di ogni singolo Padre, bisogna considerare anche, e forse soprattutto,
ciò che poi di fatto avveniva.
[18] Il concetto di “principio generale” richiede
forse una qualche precisazione, perché, da come “Traditio Marciana”
formula la propria critica alla riforma di S. Pio X, sembra considerar tale, in
quanto comune alla generalità dei riti, l'antico ordinamento del Salterio. In
realtà i princìpi si dicono generali perché collocati ad un livello di
astrazione rispetto alle regole, p.es. è un principio l'uso di vesti sacre, una
regola quella che specifica quali indossare e quando. A questa stregua,
l'ordinamento del Salterio, complesso ma non astratto, non è un principio,
bensì una regola concreta e precisa. Se poi si vuol affermare che, in quanto
comune a tutti i riti, non potrebbe esser cambiata in uno solo ma, al massimo,
da tutta la Chiesa di comune accordo... l'affermazione mi sembra quantomeno
azzardata, perché presuppone un non so qual vincolo esterno allo sviluppo
autonomo di ogni rito; ma l'importante è capirsi.
[19] “Quale autem sit hoc ius, et quomodo
introducatur, ex generalibus regulis de consuetudine petendum est; nihil enim
videtur habere speciale, sed cum proportione principia de consuetudine
applicanda sunt”. F. Suárez, Tractatus
de legibus ac Deo legislatore, Napoli 1872, Lib. VII, Cap. V, n. 7. Per
quanto io nutra più di una riserva sul conto del Doctor Eximius, da cui
mi permetto di dissentire su vari punti (metafisici soprattutto), il suo
trattato è l'unico manuale di teoria generale del diritto prodotto in ambito
ecclesiastico dalla Controriforma in poi, vi ha acquisito un'autorità
indiscussa ed è la guida più sicura per interpretare, mutatis mutandis,
anche le norme generali del Codice latino vigente.
[20] F. Suárez, Tractatus
de legibus ac Deo legislatore, Napoli 1872, Lib. IV, Cap. XVI, n. 1.
[21] Ibid., Lib. VII, Cap. IX, nn. 10-11, e
Cap. XX; cfr. anche Lib. IV, Capp. XVI e XVII.
[22] “Praeterea sunt populi, qui nullam habent
facultatem statuendi, vel leges ferendi etiam municipales, sed illas bent vel a
supremo principe, vel saltem a propriis dominis, vel pastoribus accipere; et hoc
modo comparatur universa Ecclesia ad summum Pontificem, et omnes ecclesiae
particulares ad suos pastores; quia ad leges canonicas ferendas nulla est
potestas in populo, nec in ipso clero sine suo capite, et influxu eius,
servata semper proportione, inter varios modos legum et communitatum” (Ibid.,
Lib. VII, Cap. XIII, n. 3); “Notandum vero occurrit, cum consuetudo, ut est
lex, non inducatur principaliter a populo illam introducente, sed a principe
consentiente; potius considerandum esse, qua potestate consuetudo
confirmetur, et in ratione iuris stabiliatur, quam statum personarum, quam
illam observaverant. Nam voluntas principis, seu praelati est causa per se;
voluntas autem populi est causa motiva, et quasi occasio, et petitio talis
iuris.” (Cap. XVI, n. 10)
[23] Cfr. S. Tommaso
d'Aquino, Super Epistolas S. Pauli lectura, t. 2: Super
Epistolam ad Hebraeos lectura, Torino-Roma 1953, cap. 8 l. 3: “Sicut enim dicit Augustinus, II de Civit. Dei, c.
21: populus est coetus multitudinis, iuris consensu et utilitatis
communione sociatus. Quando ergo consentiunt in ius divinae legis, ut sint
adinvicem utiles et tendant in Deum, tunc est populus Dei. Apoc. XXI, 3:
ipsi populus eius erunt, et ipse Deus cum eis erit eorum Deus.”. Il sintagma ius
legis, secondo l'Index
Thomisticus, è un hapax nell'Aquinate
e si presenta di difficile traduzione; nel testo ho voluto esplicitare tutte le
accezioni, che secondo me si rinforzano a vicenda, tuttavia ritengo che ius
abbia anche qui come significato fondamentale quello della quaestio de iure,
ossia (non “diritto soggettivo”, non “diritto positivo”, non “autorità”, ma) ipsa
res iusta. Perfino prima di essere un “valore”, cioè un bene colto come
desiderabile, la Legge divina è giusta nella concretezza delle Sue singole
previsioni.
[24] La mia nozione di “legge ingiusta” è stata
criticata perché “restrittiva”, senza altre precisazioni. Non posso che
rinviare i miei contraddittori, quindi, alla disamina delle obiezioni da parte
di S. Tommaso d'Aquino, nell'articulus da cui l'ho desunta.
[25] Esso, infatti, viene accettato in quanto vigente,
non in quanto migliore di quel che c'era prima; che poi sia, almeno
relativamente parlando, migliore del Novus Ordo penso sia pacifico in
questa sede. Né il fatto di accettarlo comporta l'adesione al principio
dell'aggiornamento, salvi i rilievi già svolti sull'autorità liturgica: si accetta
– oggi - la legge come prodotto finito, per così dire, a prescindere dal
processo storico di cui è frutto e che, indubbiamente, ha portato al Novus
Ordo.
[26] Temo che il Dizionario Treccani non
registri il significato di “autentico” come “proveniente dall'autorità” perché
caratteristico del diritto canonico (e liturgico): è più ampio
dell'interpretazione autentica del diritto italiano e comprende entrambi i
paragrafi del can. 16. Non ho problemi, naturalmente, con il suo uso nel senso
di “autenticità storica” o rispetto ad una norma ideale, salve tutte le mie
riserve sull'applicazione concreta; quanto all'aggettivo “verace”, secondo me è
ingiustamente trascurato e meriterebbe – esso sì senza discussioni – di essere
riportato in onore.
Nessun commento:
Posta un commento