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giovedì 30 aprile 2020

San Carlo Borromeo: Sante Messe, la peste e la vera Chiesa "con l'odore delle pecore"

Una bella segnalazione di un amico.
Protagonista, san Carlo Borromeo e il comportamento, prudente ma missionario, da tenere durante un'epidemia.
Visti gli uomini della Chiesa, dai capi in giù, spariti dai radar durante tutto questo tempo, sarebbe cosa buona che rileggessero queste note su come ci si deve comportare per aiutare il  "Popolo di Dio" (come continuano a dirci che recita il Concilio Vaticano II) e come la cosiddetta "Chiesa in uscita" e "con l'odore delle pecore" non ci pare stia assolutamente facendo.
Sono solo diventati mosche cocchiere del potere statale.
Luigi.

Quando i vescovi erano vescovi e perciò stesso santi

Forse si poteva fare qualcosa del genere. Certo sarebbe stata necessaria la volontà di cercare un modo per non privare i fedeli della Messa, dei sacramenti, dei funerali cristiani. E questa volontà - lo dicono i fatti - almeno ai vertici ecclesiali e civili non c'è, non c'era, non c'è mai stata.
Traggo, anzi più precisamente copio, da un dotto articolo di Marco Rapetti Arrigoni
pubblicato circa un mese fa su  Breviarium.eu.
Era il tempo della peste del 1576-77, che sta (ovviamente allora) al coronavirus come un cancro ai polmoni con metastasi sta all'asma.
Le chiese non furono chiuse, l'assistenza sacramentale fu implementata, le processioni penitenziali si svolsero, e se il popolo non poteva andare alla Messa (fu chiuso in casa su richiesta dello stesso presule - ma era la peste, ripeto, d'allora, cioè senza rimedio alcuno se non la robustezza degli anticorpi naturali), fu la Messa ad andare al popolo.
Protagonista, san Carlo Borromeo.
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Per assistere spiritualmente gli infetti il Borromeo convocò sacerdoti e religiosi da tutta la diocesi, rivolgendosi in particolare ai chierici svizzeri, che avevano fama di non temere la peste, ed ottenne dall’Ayamonte che la direzione del lazzaretto fosse affidata a padre Paolo Bellintani ed ai cappuccini".

Andava in tutti i conventi, cercando padri et sacerdoti per questo servitio, et Iddio Benedetto gli dava gratia di trovare quasi quanti gliene bisognavano, et gli faceva venir in casa sua et quivi li tenea a sue spese (Marcora, Il processo diocesano informativo sulla vita di San Carlo per la sua canonizzazione, in Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. IX, Milano, 1962, p. 699).

"Per impetrare da Dio la grazia della fine dell’epidemia San Carlo dispose lo svolgimento di quattro processioni alle quali avrebbero potuto prendere parte solo gli uomini adulti, divisi in due file di una sola persona e distanti l’una dall’altra circa tre metri, vietando la partecipazione degli infetti e dei sospetti di contagio. Il Borromeo guidò, a piedi scalzi e con una corda al collo, la prima processione dal Duomo fino alla Basilica di Sant’Ambrogio.Il 5 ottobre si svolse la seconda ed il giorno successivo San Carlo decise di portare in processione il Sacro Chiodo della croce di Cristo, conservato in un reliquiario posto nel semicatino absidale del Duomo a quaranta metri d’altezza sopra l’altare maggiore; in tale occasione l’Arcivescovo stabilì che"ogn’anno si portasse solennemente in processione et che stasse esposto sopra l’altare maggiore del domo per lo spacio di quarant’hore (Marcora, cit., p. 229),“Poiché tali rinchiusi in quarantena «non potevano andare alle Chiese e ricevere il frutto delle cose sacre», San Carlo dispose che ad ogni incrocio, in luoghi visibili dalla maggioranza delle case, fosse eretto un altare, che avrebbe costituito il basamento di una colonna sormontata da una croce (le cosiddette 'crocette'), presso il quale celebrare le messe festive e feriali, cosicché i fedeli segregati potessero partecipare ai sacri riti dalle finestre delle loro abitazioni”.

Per gli essercitii spirituali di questo tempo ordinò prima che ognuno sentisse Messa divotamente ogni dì; per il cui fece ergere molti Altari per le vie croci, e luoghi cospicui della Città, per dar comodità a tutti di sentir la Messa stando in casa propria ( Giussano, Vita di San Carlo Borromeo, Libro IV, Cap. VII, Brescia, 1613, p. 234).

“Ogni giorno i sacerdoti incaricati di recarsi presso le case dei reclusi in quarantena per confessare e comunicare i loro abitanti attraversavano le contrade portando un sedile di cuoio” et quelli che volevano confessarsi dimmandavano il sacerdote che passava dalle finestre, et esso si metteva con il suo scagno [sedile] alle porte, et venivano a basso a confessarsi, avendo per tramezzo l’anta della porta ( Marcora, Il processo diocesano…, vol. IX, Milano, 1962, p. 700).

“I fedeli che dopo avere celebrato il sacramento della Riconciliazione intendevano comunicarsi dovevano avere cura di collocare un piccolo tavolo fuori dalle porte delle loro case, in modo che i sacerdoti potessero sapere dove fermarsi. Per comunicare i reclusi ed evitare al contempo che il ministro stesso potesse divenire veicolo del contagio, secondo le norme emanate dall’Arcivescovo la particola doveva essere posta”in una lunetta de argento et senza tocare la bocha di quello che lo riceveva li comunicava etiam che fuseno in suspeto dil ditto malle ( Diario di Giambattista Casale [1534-1598], in Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. XII, Milano, 1965, p. 302).

"San Carlo ordinò inoltre che i sacerdoti, una volta amministrata l’Eucaristia, dovessero passare il pollice e l’indice sopra la fiamma di una candela allo scopo di disinfettarle. Da parte sua il Borromeo, durante la quarantena, continuò a visitare i milanesi reclusi, sani ed ammalati, per portare loro i Sacramenti ed il conforto derivante dalla sua paterna presenza.

"Il Cardinale deputò alcuni religiosi affinché visitassero quotidianamente i malati, per prestare loro assistenza spirituale ed impartire i conforti religiosi. Per incoraggiare il suo clero innanzitutto con l’esempio, l’Arcivescovo stesso provvide personalmente ad amministrare i Sacramenti dell’Eucaristia e della Confermazione recandosi quotidianamente dagli appestati rinchiusi nelle loro case o ricoverati nel lazzaretto ed alle capanne. Non meno premuroso si mostrò nel farsi prossimo ai numerosi sacerdoti ammalatisi nell’adempimento del proprio ministero". 

Lui communicava frequentemente ancora le persone appestate, et le cresimava lui stesso etiam quelli che erano moribondi ( Marcora, Il processo diocesano…, vol. IX, Milano, 1962, p. 506).

"Per tutta la durata della pestilenza San Carlo si dedicò con instancabile ed incessante zelo ed amorevole sollecitudine a soccorrere e confortare i bisognosi, i malati ed i moribondi, provvedendo ad ogni loro bisogno spirituale e materiale, percorrendo a piedi l’intera città anche dopo il tramonto".

Il cardinale scorreva ogni giorno, hora a San Gregorio [al lazzaretto], et hora a una Porta, et hor a un’altra, in tal modo che ogni settimana visitava tutti li appestati della città ( Marcora, Il processo diocesano…, vol. IX, Milano, 1962, p. 674).

“Visitando le capanne distribuiva generi alimentari ed elemosine e si intratteneva a consolare e conversare con ciascun ricoverato; domandava da quanto tempo”che vi erano, di che parochia fossero, se erano confessati […], di poi gli dimandava di bisogni temporali: se gli mancava cosa alcuna del vivere e de medicamenti, se gli mancava altra cosa come paglia, coperte et simile altre cose ( Marcora, Il processo diocesano…, vol. IX, Milano, 1962, p. 700).

"Il Cardinale non smise mai di agire con grande prudenza e senso di responsabilità, non volendo che a causa sua o del clero diocesano i fedeli fossero esposti ad eventuale contagio o messi in pericolo in qualsivoglia modo". 

Non ometteva però in nessuna occasione le necessarie cautele né mettevasi a rischio senza necessità. Quando poi avea fatto qualche azione pericolosa di contagio, per sette giorni almeno astenevasi dal comunicare con altri, ed in tutto da se stesso servivasi, e ciò volea che si facesse ancora dagli altri sacerdoti e curati ( Sala, Biografia di San Carlo Borromeo, Milano, 1858, p. 71).

“Per assistere i suoi concittadini e figli, per nutrirli e finanche per vestirli utilizzò gran parte del suo patrimonio, come testimoniò il cappuccino Giacomo da Milano, in una lettera del 4 ottobre 1576:”va spessissime volte al lazareto et consola li ammorbati, inanima li officiali, vede il cimitero dove si sepelliscono i morti contagiosi, […] va alle capanne, alle case sarate, con tutti parla, tutti consola. A tutti provvede quanto può, anco temporalmente del suo, de ogni cosa che si truova in casa. Hormai non ha da vivere et è fatto poverissimo ( Lettera di un padre cappuccino scritta da Milano nell’infierire della peste, in San Carlo Borromeo nel III centenario della canonizzazione, Milano, 1910, p. 328).

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