Lo dobbiamo ammettere: per la nostra mente l’incipit del Vangelo giovanneo è impossibile da cogliere nella sua quiddità, cioè nella sua trascendenza divina, ed anche il più erudito impegno teologico e filosofico (compresa la presente piccola meditazione) resta impotente di fronte al Principio/Verbo, vale a dire all’Assoluto, etimologicamente «il Libero, l’Indipendente, ossia prosciolto da vincoli e limitazioni» da cui le più raffinate esegesi ed indagini, per loro natura oggettivanti e quindi disintegranti in una molteplicità di parole concatenate in definizioni, fatalmente si allontanano. Ed infatti l’etimologia ci dice: «DEFINIRE limitare, circoscrivere, comp. della partic. DE intensiva e FINIRE por fine, terminare, determinare, limitare, verbo denominat. da FINIS fine, limite, termine». Le parole sono forme e a loro volta le definizioni sono forme composte di forme, impossibilitate, proprio in quanto tali, a cogliere l’Essenza Somma che è senza forma, cioè l’Assoluto.
Pertanto, a rigore, più lo si pensa e se ne parla e se ne scrive, tanto più l’Assoluto si eclissa, e persino la parola “Assoluto” è di troppo, essendo una forma che individua (illusoriamente) il Libero, l’Indipendente, il Senza Forma, l’Infinitamente Piccolo e Infinitamente Grande. Volendo essere pignoli, si può dire che un foglio di carta bianco, cioè vuoto, è assai più rivelatore dell’Assoluto di un libro di cinquecento pagine piene di “nero su bianco”, cioè zeppe di parole che cercano invano di imbrigliarlo e, invece, non possono fare altro che girargli intorno, dacché Vuoto è sinonimo di Silenzio che il chiassoso pieno di parole può soltanto infrangere (nell’uomo e non certamente in Sé).
Quindi, l’incipit giovanneo non ci resta che CREDERLO; ma possiamo crederlo soltanto se lo sentiamo vero; soltanto se in noi è attiva quella sensibilità ultra-cogitativa che rende superflua l’erudizione; quella facoltà intuitiva che non necessita di cultura né di alcun titolo di studio; quell’intima persuasione che non abbisogna di prove; quel fine e delicato sentimento che si chiama FEDE e che s’invola sulla scia del colpo d’ali d’aquila che la mente dell’Evangelista, per Grazia ricevuta, ha compiuto fuori di sé, presso un Cielo irraggiungibile dal pensiero, salvo poi rivelarlo (ri-velarlo, cioè velarlo di nuovo, direbbe Attilio Mordini) con un espressione impenetrabile dalla mente umana: «IN PRINCIPIO ERA IL VERBO».
L’Essenza Somma, l’Assoluto, il Principio-Verbo, Dio, è la Verità prima e ultima, ossia l’Alfa e Omega, e perciò si trova dappertutto da sempre e per sempre (per omnia saecula saeculorum), e nulla può sfuggire alla Sua signoria, nemmeno l’errore, che non può esistere di per sé ma soltanto come contraffazione della Verità, come relativizzazione dell’Assoluto ad opera della limitata e fallibile mente umana, viziata (e illusa) dalla eccessiva e presuntuosa fiducia in se stessa.
Il Libro dei ventiquattro filosofi, testo filosofico e teologico medievale, propone un’impossibile figura geometrica assai pregnante dell’Assoluto/Dio che ancora una volta trascende la capacità discriminante della mente umana:
«Definizione II – DIO È UNA SFERA INFINITA, IL CUI CENTRO È OVUNQUE E LA CIRCONFERENZA IN NESSUN LUOGO».
«Definizione XVIII – DIO È UNA SFERA DI CUI TANTE SONO LE CIRCONFERENZE QUANTI I PUNTI».
Questa figura irrappresentabile propone l’Assoluto/Dio come un continuum senza un “dentro” e senza un “fuori” che non è alla portata della mente umana, la quale, abituata a funzionare esclusivamente secondo l’aut aut, può soltanto balbettare che “dentro” non è “fuori” e che il centro “è” un punto immobile e “non è” la circonferenza che gli ruota intorno. Per la mente umana ammettere una sfera infinita con un centro nel contempo fisso e mobile ed una circonferenza reale ma non individuabile è davvero troppo. Le serve, evidentemente, una Luce che le sia superiore e la illumini, ciò essendo possibile soltanto se, credendo nella Luce, la mente stessa rinuncia al suo apparato discriminante imbevuto, più o meno consciamente, di scettico razionalismo; se, appunto con un atto di fede, la mente scavalca il muro dell’aut aut.
«NEL VERBO ERA LA VITA E LA VITA ERA LA LUCE DEGLI UOMINI». Principio-Verbo-Vita-Luce: come pretendere di “capire” con la mente ben aggrovigliata su se stessa e per la quale la Verità corrisponde soltanto a quel poco, pochissimo di oscuro che essa ne può “capire” e, al colmo della pateticità, “scientificamente provare”? E già, la scienza, o, meglio, lo scientismo, nella sua tracotanza pretende di avere sempre l’ultima parola sebbene sappia che non può e non potrà mai pronunciarla dato il suo carattere d’incessante ricerca che non può ammettere nessuna ultima parola, bensì una inevitabile parola provvisoria che però pretende di essere l’ultima seppur in attesa di … provvisorio “aggiornamento”! Si pensi, per esempio, al famoso bosone di Higgs empiamente denominato “Particella di Dio”, quasi che l’Assoluto possa essere scomposto e analizzato, ovviamente con la speranza di impadronirsene nella sua interezza in quanto … fenomeno riproducibile!
Il Principio-Verbo-Verità-Luce è oltre lo spazio e il tempo, per Esso un istante è pari a mille anni:
«Ai tuoi occhi, Signore, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte» (Salmo 89),
«Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno» (Seconda Lettera di Pietro).
Ora, se all’impenetrabile «IN PRINCIPIO ERA IL VERBO» aggiungiamo «E IL VERBO SI FECE CARNE», ecco la mente umana – ed ogni religione il cui Dio se ne sia rimasto in cielo – subire un altro scossone, forse più potente del primo: l’Assoluto, il Principio, la Verità, la Luce, l’Alfa e Omega che si riduce a fattezza umana! L’eterea LUCE che si condensa in CARNE! Il Senza Forma che assume una Forma! Davvero qui è richiesto l’annientamento dell’aut aut, l’arresto dell’attività discriminante, l’azzeramento dell’apparato culturale, la demolizione dell’impalcatura concettuale, posto che il minimo pensiero, per quanto raffinato e “profondo”, costituisce un’ombra che impedisce alla Luce della Fede di illuminare la mente stessa, Luce unica che è quella dell’unico Verbo poiché unico è l’Assoluto, che permette anche, è da tenere presente, l’attività discriminante e raziocinante della mente.
Se poi, dulcis in fundo, si considera che la Luce si fa PRESENTE nel Sacrificio Eucaristico, il salutare sconquasso mentale giunge al suo acme: «sotto le specie del pane, ti è dato il corpo, e sotto quelle del vino, il sangue affinché, reso partecipe del corpo e del sangue di Cristo, tu diventi con-corporeo e con-sanguineo con Lui» (San Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche). Capito? L’Ostia è la Luce che rende partecipe di Sé chi con fede ed umiltà la riceve! Ma davvero la piccola mente umana può “capire” un tale evento inaudito e portentoso? Ed è proprio sicuro che di questi tempi i fedeli davvero sappiano e pensino Chi si va a ricevere?
È giunto il momento, a coronamento di questa piccola meditazione, di proporre, a proposito della Fede, gli immortali versi con i quali il Poeta, in Paradiso XXIV, 64-65-66, traduce san Paolo: «Est autem fides sperandorum substantia rerum, argomentum non parentum» (Ebrei 11,1):
«fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».
La «quiditate», cioè l’essenza della Fede, risiede nel suo essere una «sustanza» e un «argomento». Con riferimento a quanto espone Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo ottimo commento al Paradiso, la «sustanza», risponde a quanto ne dice Giovanni Crisostomo: «Poiché le cose che speriamo non sembra possano avere consistenza, la fede dà ad esse sostanza, o piuttosto non gliela dà, ma essa stessa costituisce la loro essenza» (Epist. ad Habraeos), mentre l’«argomento», secondo il significato filosofico della parola, è una prova razionale che convince di una realtà di cui si dubita: «per argomentum intellectus inducitur ad inhaerendum alicui vero» (S.T. II ͣ II ͣ ᵉ).
Significativi, in merito ai limiti della mente umana, i versi da 70 a 75:
«E io appresso: “Le profonde cose
che mi largiscon qui lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,
che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la quale si fonda l’alta spene;
e però di sustanza prende intenza».
Ovvero, commenta la Chiavacci Leonardi, «le realtà divine (profonde, inaccessibili allo sguardo umano […] che qui (nel cielo Stellato ndr) si mostrano, sono così nascoste agli occhi di chi vive sulla terra, che il loro esser, la loro realtà, laggiù sussiste solo nella fede […] sulla quale fede si fonda la nostra sublime speranza, e perciò la fede può assumere il valore di sustanza (intenza, intenzione, vale “significato” in senso filosofico: ciò che per quella parola s’intende). Solo la fede dunque, non la ragione, ci può rivelare le profonde cose che la mente umana intravede e sospira di conoscere, non avendone però le forze».
Nel concludere, anche in Convivio III 15, 6, troviamo che:
«Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose il nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose affermano essere, che lo ‘ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono e con tutta la fede si credono essere, e però quello che sono intender noi non potemo, e nullo se non come sognando, si può appressare alla sua conoscenza, e non altrimenti».
La profonda professione di fede nel mistero dell'Incarnazione, pronunciata con la lettura del Vangelo di Giovanni alla fine della Messa è stata cancellata, con il NO, dai sovversivi novatori, benedetti da Paolo VI, privando il celebrante e i fedeli della contemplazione del, da loro rinnegato, fondamento dottrinale del Cristianesimo.
RispondiEliminaProfonda e ampia meditazione sulla fede del Natale del Signore la maggioranza della gerarchia cattolica non è più in grado di capire e di insegnare.
RispondiEliminaRicca ed erudita meditazione. E' anche bello ricordare, nella confusione dottrinale di oggi, alcuni passi della omelia che il santo vescovo T. Becket pronunciò durante la Messa di Natale, pochi giorni prima di essere assassinato dai sicari di Enrico II, come pensata da T. Eliot nel suo dramma , l'Assassinio nella cattedrale: " Ogni volta che la Messa vien detta noi facciamo rivivere la Passione e Morte di nostro Signore e in questo giorno di Natale noi la diciamo per celebrare la Sua nascita . Così nello stesso tempo noi ci rallegriamo della Sua venuta per la salvezza degli uomini e di nuovo offriamo a Dio il Suo corpo e il suo sangue in sacrificio per riparazione dei peccati del mondo intero....così questo è l'unico giorno dell'anno in cui celebriamo insieme la Nascita di Nostro Signore e la sua Passione e Morte sulla Croce". Tommaso d'Aquino , nel suo commento al Credo aveva scritto: " Come è necessario al cristiano credere all'Incarnazione del Figlio di Dio, così è necessario che egli creda nella Sua Passione e Morte" perché la sua nascita non ci avrebbe giovato a nulla , se non ci fosse servita a redimerci " ( vedi l'Exsultet).
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