Post in evidenza

Masciullo. "Il Grande Caos del Sinodo. Magistero ordinario o autentico?" #sinodo #sinodalità

Ancora sul Sinodo. " The Remnant Newspaper ha pubblicato, il 10 dicembre 2024, un mio articolo di commento alla Nota di accompagnamento...

mercoledì 25 settembre 2019

CRISIS MAGAZINE: il coraggio del Vescovo Schneider


Un altro bell'articolo su Mons Schneider (QUI le principali sue pubblicazioni) pubblicato da Stilum Curiae e tradotto da un amico comune.
Luigi

Marco Tosatti, 23 Settembre 2019 

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, la cortesia di un amico ci regala la traduzione di un articolo apparso su una rivista estremamente interessante, Crisis Magazine. Parla di un vescovo particolarmente coraggioso, il vescovo Athanasius Schneider, che non teme di dire quello che pensa in difesa della fede, e contro le ambiguità, le confusioni e le deviazioni a cui assistiamo ormai quotidianamente nel regime attuale. Buona lettura, e cerchiamo tutti di trarre esempio dal comportamento di questo presule senza paura. In un breve incontro qualche tempo fa, al termine di una celebrazione, lo salutai, e mi complimentai con lui per il suo coraggio. Mi rispose: “Se Dio è con noi, di che cosa dobbiamo avere paura”? Punto. Buona lettura.

Il coraggio del vescovo Schneider

di Jonathan B. Coe[1]
Nella storia della Chiesa, i cattivi vescovi non sono certo una novità. Gli storici stimano che, quando l’eresia ariana scosse la cristianità nel IV secolo, i quattro quinti dell’episcopato scelsero l’apostasia. Quando re Enrico VIII [1491-1547] impose ai vescovi il «giuramento di successione» [con il quale si riconosceva la legittimità di Anna Boleyn (1507-1536) come moglie del re e della sua prole per l’eredità al trono], tutti i vescovi accettarono di farlo tranne uno. Per questo suo rifiuto di rinnegare la propria fedeltà al pontefice, John Fisher [1469-1535], vescovo di Rochester, subì il martirio nel 1535 e, esattamente 400 anni dopo, fu canonizzato da papa Pio XI [1922-1939].

Non c’è dubbio che la maggioranza dei vescovi della nostra epoca rimanga nel proprio cuore fedele all’ortodossia delle fede. Ma, probabilmente, non si arriverebbe al 20% se volessimo contare chi, tra loro, è disposto a far sentire la propria voce a difesa di quell’ortodossia.

Non sono quindi i prelati ortodossi a essere rari, quanto i prelati ortodossi dotati di coraggio. Noi ne conosciamo almeno uno: Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana, in Kazakhstan, e canonico regolare della Santa Croce (O.R.C.). In una sua recente intervista dimostra di essere veramente degno del nome che porta: quello del santo vescovo di Alessandria d’Egitto che difese la dottrina della Trinità contro l’eresia ariana mille anni prima della nascita di John Fisher.

Le parole di mons. Schneider si leggono che è un piacere. Si distinguono per l’assoluta franchezza e per l’assenza dell’«ambiguità usata come un’arma» di cui sono maestri quei prelati «moderni» che seguono la direzione del vento come banderuole.

Per esempio, non è necessaria la saggezza di Salomone per rendersi conto che il summit organizzato lo scorso febbraio in Vaticano è stato uno specchietto per le allodole concepito per distogliere gli sguardi dai problemi che stanno alla base della nostra crisi.

Con una franchezza radicata in un assetto morale e teologico di spessore, egli ha identificato almeno quattro elefanti nella stanza[2]: l’omosessualità nei ranghi del clero, il relativismo nella dottrina morale, la formazione scadente nei seminari, e una mancanza di rapporto personale con Gesù Cristo. Le sue delucidazioni su queste quattro cause mostrano l’ostinarsi sul «clericalismo» da parte del Team di Papa Francesco per quel che è: una manovra diversiva.

Commentando la sottoscrizione vaticana di un documento nel quale si dichiara che «Il pluralismo e le diversità di religione […] sono una sapiente volontà divina», Schneider ha detto che ciò equivaleva a «promuovere l’abbandono del primo comandamento» e un «tradimento del Vangelo», e ha continuato esprimendo preoccupazione che si stava relativizzando l’unicità di Gesù Cristo e della sua Chiesa: se il documento non sarà corretto – ammonisce mons. Schneider – la missione ad gentes della Chiesa, cioè l’evangelizzazione rivolta agli uomini di tutte le nazioni, ne sarà paralizzata.

A proposito del vescovo Erwin Kräutler, uno dei principali organizzatori dell’imminente sinodo sull’Amazzonia nonché estensore di primo piano del suo documento preparatorio, mons. Schneider dice che il tipo di ministri che lui e molti suoi compagni di viaggio tra il clero vagheggiano sono «figure caricaturali di preti, che hanno il loro modello negli operatori umanitari, nei dipendenti delle ONG, nei sindacalisti socialisti e negli ecologisti». Non è uno che gira intorno alle cose, mons. Schneider.

«La verità sulla questione» riassume, «è che quanti propugnano un clero amazzonico sposato con lo stratagemma dell’elegante motto “uomini provati” (“viri probati“) considerano i popoli amazzonici inferiori, perché presuppongono aprioristicamente che non abbiano la capacità di dare alla Chiesa sacerdoti celibi generati dal proprio ambiente».

* * *

Il coraggio e la franchezza del vescovo Schneider hanno senza dubbio radici nella sua famiglia. La sua giovinezza di cattolico tradizionale è stata forgiata nella fornace della persecuzione comunista: i genitori di Athanasius erano Tedeschi del Mar Nero che vivevano in Ucraina. Dopo la Seconda guerra mondiale, Stalin li aveva spediti nel Gulag di Krasnokamsk, fra le montagne degli Urali.

Gli Schneider erano attivi nella Chiesa clandestina. Maria, la madre di Athanasius, fu una delle molte anime coraggiose che nascosero il beato Oleska Zarycki [1912-1963], un sacerdote ucraino che, alla fine, morì da martire. Questa famiglia aveva una fede soprannaturale che si rifletteva in una santa riverenza e adorazione durante le celebrazioni dell’Eucaristia. I sovietici le avevano proibite e solo raramente gli Schneider potevano usufruirne nei loro incontri clandestini.

In uno di tali incontri, mentre un certo padre Alexij Saritski si apprestava a celebrare la Santa Messa, si sentì una voce esclamare: «Sta arrivando la polizia!». Quella stessa sera, Maria Schneider lasciò i suoi due figli piccoli con la madre e, con l’aiuto di una zia del marito, portò in salvo padre Saritski percorrendo 12 chilometri in una foresta a una temperatura che raggiunse i 22 gradi sotto zero. Questa famiglia veramente ha incarnato lo spirito del martirio: erano tutti disposti a rischiare la prigione e addirittura andare incontro alla morte per la propria fede.

Mons. Schneider dimostra lo stesso spirito di servizio disinteressato per la Santa Madre Chiesa. Per le sue prese di posizione pubbliche, probabilmente non indosserà mai la berretta cardinalizia in questo pontificato e, probabilmente, neanche nel prossimo. Ma il suo sguardo rimane fisso su un premio più grande: la corona imperitura che attende i prelati che hanno dedicato la propria vita terrena a condurre, da pastori, la Chiesa pellegrina sulla terra verso il paradiso.

Fra gli elementi distintivi della santità c’è quello di vivere la propria vita con lo sguardo all’eternità. Chi vi aspira agisce con coraggio, anche a costo di diventare persona non grata dei poteri mondani, perché sa che dovrà rendere conto al Pastore supremo nel Giorno del giudizio. In quel giorno, preti e vescovi verranno giudicati nei termini descritti dalla lettera di san Paolo ai Corinzi (1Cor 3,1-15): il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno – verificando se si tratta di oro, argento e pietre preziose, oppure di legno, fieno e paglia – per vedere che cosa sopravviva.

Tali portatori di santità sono poi corroborati dalle virtù teologali. Essi sperano di potersi presentare dinanzi al Pastore supremo irreprensibili, senza macchia e colmi gioia. Essi veramente credono di dover rendere conto a Cristo per le proprie opere, e la loro obbedienza è radicata nell’amore: «Se mi ami, osserva i miei comandamenti».

Tutto ciò che abbiamo scritto si applica, in principio, anche al laicato. Dobbiamo augurarci di poter correre la nostra corsa con pazienza, in modo da meritare anche noi, alla fine, una corona imperitura.

[1] Articolo dal titolo The Courage of Bishop Schneider apparso sul portale CRISIS MAGAZINE il 18-9-2019

[2] An elephant in the room è un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata.

2 commenti:

  1. Il vescovo Schneider, coraggiosamente, prende posizione contro l'attuale andamento ecclesiale chiaramente mondialista, anticristico e quindi anticattolico. Quello che dovrebbe essere spiegato è per qual motivo (e questo vale per il card. Burke) la denuncia della deriva cui sta andando la Chiesa, è di carattere anonimo. La posizione del vescovo (e del cardinale) è inopinabilmente contro il papato bergogliano e lo stuolo ben nutrito dei suoi ben conosciuti seguaci. Così facendo, le iniziative disfattrici rimangono sospese nell'anonimato il quale, finisce per ammmortizzare facilmente le coraggiose critiche del vescovo (e del cardinale).

    RispondiElimina
  2. Burke e Schneider criticano ma chiariscono: “Siamo veri amici di Francesco, stima soprannaturale della sua persona”

    https://www.radiospada.org/2019/09/burke-e-schneider-criticano-ma-chiariscono-siamo-veri-amici-di-francesco-stima-soprannaturale-della-sua-persona/

    RispondiElimina