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Spesso quando si parla di una scuola romana di musica sacra, si ha da parte degli “oppositori” una metaforica scrollata di spalle, come se questa scuola romana non fosse che una pretesa che non ha fondamento nella realtà. Mi viene allora in mente Giovanni Maria Nanino (1545-1607), maestro a Santa Maria Maggiore, San Pietro e San Luigi dei Francesi, probabile allievo del Palestrina. Intorno al 1580 aprì una scuola di musica a Roma, di cui fu consulente Palestrina stesso. Pensate, è come aprire una scuola di teologia e avere come consulente San Tommaso d’Aquino.
Fu compositore, come il fratello Giovanni Bernardino, oggi purtroppo dimenticato. Si ricordano alcune composizioni a 8 voci che sono scarsamente presente negli attuali repertori corali. Ma la sua vocazione didattica ci sembra importante e da ricordare. E da questo partiamo per dire lacune cose sulla scuola romana.
Fu compositore, come il fratello Giovanni Bernardino, oggi purtroppo dimenticato. Si ricordano alcune composizioni a 8 voci che sono scarsamente presente negli attuali repertori corali. Ma la sua vocazione didattica ci sembra importante e da ricordare. E da questo partiamo per dire lacune cose sulla scuola romana.
La musica si imparava facendola, la musica era un fare, non una conoscenza meramente teorica. I compositori erano stati per la gran parte pueri cantores nelle varie chiese, come Palestrina lo fu a Santa Maria Maggiore, ed imparavano non solo la tecnica, ma soprattutto lo spirito del cosa significava fare musica sacra.
Le caratteristiche della scuola romana sono: l’attenzione al testo, la parola di Dio, che bisogna rivestire con suoni che saranno comunque sempre inadeguati. Da questo deriva l’adesione all’oggettività del rito, la musica non è l’espressione del compositore in quanto soggetto singolo, ma canto della Chiesa tutta. Non sono io che elevo il rito con la mia musica, ma il rito che eleva me quando è celebrato santamente. Al centro non c’è l’assemblea, non è antropocentrico ma teocentrico.
C’è stata sempre una preferenza, nella scuola romana, per il canto a cappella, non in senso esclusivo ma come termine di riferimento. Dal tempo dei Nanino si cominceranno ad introdurre strumenti musicali. Ma il canto a cappella ha qualcosa di superiore, di puro in essenza essendo la voce non artificiale.
Poi la cantabilità italiana, una espressività che può sempre trovarsi al bivio fra emozionalismo (da evitare) e sentimento puro (da incoraggiare). Questo perché questa cantabilità non è sciolta da vincoli, ma legata all’oggettività del rito.
Poi la bellezza precede l’utilità. Cioè, oggi siamo molto legati a “ciò che funziona” senza preoccuparci di ciò che eleva. Ma questo pragmatismo musicale alla fine è sterile, fine a se stesso.
La scuola romana fu esaltata dai pontefici, pensiamo a Pio X nel motu proprio “Tra le sollecitudini” che parlando delle qualità della musica sacra così ebbe a dire: “Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della Scuola Romana, la quale nel secolo XVI ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pier Luigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La classica polifonia assai bene si accosta al supremo modello di ogni musica sacra che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni più solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche essa restituirsi largamente nelle funzioni ecclesiastiche, specialmente nelle più insigni basiliche, nelle chiese cattedrali, in quelle dei seminari e degli altri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non sogliono fare difetto”.
Purtroppo queste parole sono vilipese e incomprese. Ma sarà bene tornare alle sorgenti per poter sperare di produrre repertori sempre degni del tempio santo di Dio.
Aurelio Porfiri
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