Pubblichiamo di seguito gli appunti dell'amico Giovanni Formicola (Comunità Opzione Benedetto, vedere anche QUI) per la conferenza alla Fondazione Magna Charta a Norcia il 9 ottobre 2010 , che ringraziamo.
Per altri interventi di Giovanni Formicola vedere QUI.
Strumento utile per contrastare le pazzie che la new wave ecclesiale sta cercando di far fare il cambio di paradigma in tema di Dottrina Sociale, facendola quasi un'ancella dei Centri Sociali e dei Movimenti No Global.
Buona formazione mirata per i nostri lettori.
L
Norcia
Capitalismo e Dottrina Sociale
della Chiesa
9 ottobre 2010
-Mt., 19, 23-26: «Gesù allora disse ai suoi
discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei
cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago,
che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero
costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di
loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è
possibile». Però il «cammello» non è quello con le gobbe, ma pare che la
parola greca kamelos indichi anche una corda da barca, spessa, sì, ma considerando
gli aghi dell’epoca, e in particolare quelli coerenti con l’esempio, cioè
quelli da pescatore per rimagliare le reti, allora qualche speranza c’è anche
per il ricco, ché altrimenti sarebbe condannato in quanto tale, perché è
piuttosto impossibile che difficile che un «cammello passi per la cruna di un
ago»…
-Gesù e i poveri: episodio di Giuda e dell’olio
prezioso, Gv., 12, 1-8 (cfr. Mt., 26, 8-11 e Mc., 14,
3-9).
-Lv., 19, 15: il giudice non deve farsi
condizionare né dalla ricchezza e dal potere, né dalle lacrime del povero.
-S. Teresa d’Avila, mistica del cinquecento, dottore
della Chiesa («Teresa senza la grazia di Dio è una povera donna; con la
grazia di Dio una forza; con la grazia di Dio e molti denari una potenza»)
e S. Josè Maria Escrivà sul danaro.
-La scuola austriaca e la scuola di Salamanca nella
Spagna del siglo de oro: Juan de Lugo, Juan de Salas, Castillo de
Bovadilla, «dr. Navarro», Juan de Mariana, Luis de Molina, Diego de
Covarrubias, Luis Saravia de la Calle
-Stark su cattolicesimo e capitalismo
«Concludo che non possiamo prendere decisioni in
merito a una politica per la vita pubblica [public policy], alla legge sugli illeciti civili, ai diritti o
alle responsabilità sulla base dell’efficienza o della minimizzazione dei costi.
Ma se escludiamo entrambi, allora su cosa ci baseremo? La risposta è che solo i
principi etici possono servire come criteri per le nostre decisioni.
L’efficienza non può mai servire come base per l’etica; al contrario, l’etica
deve fungere da guida e da pietra di paragone per ogni valutazione
dell’efficienza. L’etica è la cosa fondamentale. Nel campo della legge e della
politica per la vita pubblica la considerazione etica fondamentale è quel
concetto che “non osa pronunciare il proprio nome” – il concetto di giustizia» (Murray
N. Rothbard [1926-1995], The Myth of Efficiency, in Time, Uncertainty,
and Disequilibrium, a cura di Mario Rizzo, Lexington Books, Lexington,
1979, poi in M. N. Rothbard, The Logic of Action One: Method, Money and the
Austrian School, Edward Elgar, Gloucester, 1997, p. 273, cit. in Thomas E.
Woods jr., La Chiesa e il mercato. Una difesa cattolica della libera
economia, Liberilibri, Macerata 2008, p. 53).
«Perciò il sapientissimo Pontefice aveva già
dichiarato non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse
esorbitanti la proprietà privata da renderla quasi stremata». (Pio XI, Quadragesimo Anno, n. 49).
Beneficenza e magnificenza (nn. 50 e 51).
«È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che,
per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se
non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma
deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa
sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono
compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è
ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e
inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno
sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di
qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera
suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle» (n. 80).
«Se non che, quanto abbiamo detto circa la
restaurazione e il perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere
attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce
ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un
ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte
irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione,
secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da
gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col
progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e
in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti
dall’egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il
crescente numero della moltitudine, i quadri di quell’ordinamento, o perché,
traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi
autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione» (n. 98).
«[…] il Nostro Predecessore di f. m. nella sua enciclica
contemplava soprattutto quell’ordinamento economico con cui generalmente si
contribuisce all'attività economica dagli uni col capitale, dagli altri con il
lavoro […].
«Orbene, Leone XIII adottò ogni mezzo per
disciplinare questo ordinamento economico, secondo le norme della rettitudine;
sicché è evidente che esso non è in sé da condannarsi. E infatti non è di sua
natura vizioso: allora però viola il retto ordine, quando il capitale vincola a
sé gli operai, ossia la classe proletaria, col fine e con la condizione di
sfruttare a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l'economia tutta,
senza far caso, né della dignità umana degli operai, né del carattere sociale
dell'economia, né della stessa giustizia sociale e del bene comune» (nn. 100-101).
«[...] che dire nel caso che, rispetto alla lotta di classe e
alla proprietà privata, il socialismo sia realmente così mitigato e corretto da
non aver più nulla che gli si possa rimproverare su questi punti? Ha con ciò
forse rinunziato ai suoi princìpi, alla sua natura contraria alla religione
cristiana? […] Ora per soddisfare, secondo la Nostra sollecitudine
paterna, a questi desideri, proclamiamo che il socialismo, sia considerato come
dottrina, sia considerato come fatto storico, sia come “azione”, se resta
veramente socialismo, anche dopo aver ceduto alla verità e alla giustizia su
questi punti che abbiamo detto, non può conciliarsi con gli insegnamenti della
Chiesa cattolica. Giacché il suo concetto della società è quanto può dirsi
opposto alla verità cristiana.
«Infatti [...] il socialismo [...] suppone che l’umano
consorzio non sia istituito se non in vista del solo benessere.
«[...] i socialisti deducono che l'attività economica, nella
quale essi considerano solamente il fine materiale, deve per necessità essere
condotta socialmente. E da siffatta necessità, secondo essi, deriva che gli
uomini sono costretti, per ciò che riguarda la produzione, a sottomettersi
interamente alla società; anzi il possedere una maggiore abbondanza di
ricchezze che possa servire alle comodità della vita, è stimato tanto che gli
si debbono posporre i beni più alti dell'uomo, specialmente la libertà,
sacrificandoli tutti alle esigenze di una produzione più efficace. Questo
pregiudizio dell'ordinamento “socializzato” della produzione portato alla
dignità umana, essi credono che sarà largamente compensato dall’abbondanza dei
beni, che gli individui ne ritrarranno per poterli applicare alle comodità e
alle convenienze della vita secondo i loro piaceri. La società dunque, qual è
immaginata dal socialismo, non può esistere né concepirsi disgiunta da una
costrizione veramente eccessiva [...].
«[...] se il socialismo, come tutti gli errori, ammette pure
qualche parte di vero (il che del resto non fu mai negato dai Sommi Pontefici),
esso tuttavia si fonda su una dottrina della società umana, tutta sua propria e
discordante dal vero cristianesimo. Socialismo religioso e socialismo cristiano
sono dunque termini contraddittori: nessuno può essere buon cattolico ad un
tempo e vero socialista» (nn. 117-120).
«E in primo luogo ciò che ferisce gli
occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma
l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza
dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo
depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro
grado e piacimento.
«Questo potere diviene più che mai
dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde
sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo
economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché
nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.
«Una tale concentrazione di forze e di
potere, che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto
naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo
i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della
coscienza» (nn. 105-107).
«Nell’ordine poi delle relazioni
internazionali, da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte,
il nazionalismo o anche l’impe-rialismo economico; dall’altra non meno funesto
ed esecrabile, l’internazio-nalismo bancario o imperialismo internazionale del
denaro, per cui la patria è dove si sta bene» (n. 109).
«Chi non vuole lavorare non mangi» (2 Tess 3, 10).
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La proprietà privata e la sua
conseguenza dinamica, il libero mercato, sono fondati sulla stessa natura
umana, su un ordine di cose che ha al proprio centro l’uomo come persona. Se le
istituzioni e gl’istituti sociali sono, per gli uomini in relazione, quel che
gli abiti sono per il corpo dell’uomo – sono cioè «abiti sociali» fino a
costituire un habitat –, allora la proprietà e il libero mercato sono
quelli tagliati sulla reale misura dell’uomo. Dunque, è l’antropologia
realistica e non quella sognata dalla malsana utopia, che conduce a difendere
proprietà e libero mercato, così come è la realtà dell’uomo, la sua stessa
natura, che lo ha condotto nei secoli a istituire il regime della proprietà
privata e, più o meno, del libero mercato. Sicché questi funzionano perché sono
a misura d’uomo, non sono a misura d’uomo perché funzionano. E la differenza
non è sottile: se fosse vera la seconda proposizione, allora se si riuscisse a
far funzionare l’economia «di piano», si potrebbe dire che anche questa è a
misura d’uomo. Ed invece è impossibile che essa funzioni, perché non è a misura
d’uomo, anzi, e peggio, pretende di trasformarlo, di farlo «nuovo», e in fin
dei conti, come tutto ciò che altera la natura di una cosa, lo distrugge.
Il principio che fonda la dottrina
sociale della Chiesa – né potrebbe essere altrimenti – è ribadito dall’ultima
enciclica sociale, la Caritas in veritate di B. XVI: «la questione
sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75, in
corsivo nel testo). Là dove è di tutta evidenza che la «questione sociale» non
è esaurita da quella socio-economica, ma è anche e principalmente questione di
libertà religiosa. È poi questione di libertà politiche, tra le quali la
libertà per la famiglia, quella naturale e perciò unica possibile, fondata sul
matrimonio indissolubile tra un maschio e una femmina, e quindi è questione di libertà
di educazione. È ancora questione di libertà di nascere e di non essere uccisi,
e quindi di diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, ma non può
essere questione di libertà di uccidere o di farsi uccidere, perché la libertà
è strettamente correlata alla verità e quindi alla responsabilità, attesa la
dimensione personale e il valore trascendente di ogni individuo, quali che ne
siano le condizioni. È dunque, e finalmente, questione di ordine e diritto
naturale, nel quale sono compresi gl’istituti della proprietà privata e della
libertà d’impresa, cioè del libero mercato. Insomma, l’opposizione, diretta o
larvata, alla proprietà privata – caricata anche di tratti «spiritualistici»,
messianici e utopistici (che ignorano il peccato originale e la sua eredità),
per cui secondo il comunismo la sua abolizione avrebbe portato al paradiso in
terra – deriva da un grave errore antropologico, e cioè dalla considerazione
dell’uomo solo come cellula del corpo sociale, e non come centro di esso, e
cioè come persona, dal valore unico e irripetibile, che concretamente si attua
in ogni individuo, con tutte le sue esigenze, comprese quelle materiali.
La proprietà è fondamento e presidio
perché la libertà dell’uomo e dei corpi sociali, primo la famiglia, sia
effettiva. Soprattutto contro la tendenziale prepotenza dello Stato moderno,
che dovrebbe limitarsi a proteggerla garantendo ordine e sicurezza (è piuttosto
l’invadenza socio-economica dello Stato – che lo distoglie dai suoi compiti
naturali e «necrotizza» la società – a favorire l’espansione della criminalità
organizzata, che la sua «assenza»).
Considerata sub specie economica,
la libertà è anche libertà di donare, possibile solo in regime di proprietà
privata, che arricchisce la vita economica della dimensione della gratuità, cui
non si è costretti – la contraddizione sarebbe in termini –, ma che scaturisce
da una sovrabbondanza d’amore, secondo ancora una volta quanto ribadito dalla Caritas
in veritate.
A proposito della libertà, si deve
distinguere tra un certo «capitalismo» e libero mercato. Il primo, più o meno
«turbo» per dirla con Luttwak, invero, non esclude i monopoli e i grandi
concentramenti di ricchezza/potere, ed anzi talvolta li genera, soprattutto
nell’ordine dell’economia finanziaria, e una volta che li ha prodotti propende
ad allearsi con lo statalismo. Il secondo, invece, designa più univocamente la
condizione preferibile che tende a ridurre tale concentramento di
ricchezza/potere in limiti fisiologici, ponendosi come fattore sorgivo delle
piccole e diffuse proprietà e imprese – nutrite dalle virtù del risparmio,
della sobria serietà del vivere, della sana cura per le cose, che difficilmente
sussistono senza la proprietà e la possibilità di trasmetterla –, e sta sempre
dalla parte delle libertà contro l’invadenza burocratica dello Stato padrone
e/o pianificatore.
«Se con “capitalismo” si indica un
sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa,
del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i
mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia,
la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato
parlare di “economia d’impre-sa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente
di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la
libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto
giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri
come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e
religioso, allora la risposta è decisamente negativa» (C. A. n. 42). Insomma, né la proprietà privata è un
assoluto, né la libertà economica può essere sfrenata, come è proprio di tutto
ciò che pertiene ad un essere relativo – cioè costitutivamente in relazione
(con Dio, con sé stesso, con gli altri, con il creato) – qual è l’uomo, ma la
loro negazione rendono disumano l’habitat sociale.
La Scuola economica (ma anche
filosofico-antropologico-sociale) austriaca – forse sarebbe meglio dire
«asburgica», almeno nelle sue origini – e cioè dei Carl Menger (1840-1921), degli
Ernst Böhm Bawerk (1851-1914) – che già alla fine dell’800 letteralmente demolì
il Capitale di Marx (1818-1883) e la teoria del plusvalore con ragionamento
rigorosamente scientifico –, dei Ludwig von Mises (1881-1973) e del grande
Friedrich von Hayek (1899-1992), è erede di quella di Salamanca dell’epoca del siglo
de oro del regno asburgico di Spagna.
E di questa Scuola vorrei enunciare
alcuni dei principi.
La teoria soggettiva del valore, secondo
la quale le cose valgono per l’apprezzamento soggettivo da parte dell’uomo, e
non per un qualche valore-lavoro in essi oggettivato; la reale correlazione tra
costi e prezzi: sono i primi a doversi adeguare ai secondi, e perciò una delle
principali virtù dell’impren-ditore è capire a quale prezzo potrà vendere i
suoi prodotti e servizi e quindi ad essi adeguare i costi d’impresa; la natura
dinamica del mercato, per cui il valore dei beni, il «giusto prezzo», lo
conosce prima solo Dio (Juan de Lugo [1583-1660]), ed ogni pianificazione in
tal senso è fallimentare; il valore della concorrenza dinamica e regolata, che
migliora i prodotti e i servizi e riduce i prezzi; il carattere distorcente
dell’inflazione (in particolare dell’attività bancaria che crea moneta – e
causa inflazione – prestando danaro in eccedenza alla sua riserva di cassa)
sull’economia reale; l’impossibilità della pianificazione e della distribuzione
del reddito mediante mandati coattivi, cioè attraverso l’intervento autoritario
dello Stato, che genera solo mercato nero e illegalità diffusa, e viola il
diritto naturale di libertà economica.
Come insegna Papa Pio XII, «non
esiste dubbio sul dovere di ogni cittadino di sopportare una parte delle spese
pubbliche»; ma la lezione non finisce qui e meritano di essere riportate e
meditate anche le osservazioni immediatamente seguenti, non meno rilevanti.
b. «[...] da parte sua — prosegue infatti
il Sommo Pontefice —, lo Stato, in quanto incaricato di proteggere e di
promuovere il bene comune dei cittadini, ha l’obbligo di ripartire fra essi
soltanto carichi necessari e proporzionati alle loro risorse»;
c. soprattutto, «quindi l’imposta non può mai
diventare per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare il deficit
provocato da un’amministrazione improvvida, per favorire un’industria oppure
una branca di commercio a spese di un’altra ugualmente utile»;
d. inoltre, «lo Stato si vieterà ogni sperpero del
denaro pubblico; preverrà gli abusi e le ingiustizie da parte dei suoi
funzionari, così come l’evasione di quanti sono legittimamente colpiti».
e. «Oggi gli Stati moderni tendono a moltiplicare i
loro interventi e ad assicurare un numero crescente di servizi; esercitano un
controllo più stretto sull’economia; intervengono preventivamente nella
protezione sociale di numerose categorie di lavoratori; anche i loro bisogni di
denaro crescono nella misura in cui le loro amministrazioni si gonfiano. Spesso
le imposizioni troppo pesanti opprimono l’iniziativa privata, frenano lo
sviluppo dell’indu-stria e del commercio, scoraggiano le buone volontà» (Pio
XII, Discorso ai partecipanti al X Congresso dell’Associazione Fiscale
Internazionale (I.F.A.) indetto a Roma dal 1° al 5 ottobre 1956, del 2-10-1956).
Sempre Papa Pio
XII nota che «[...] molti — troppi — guidati dall’interesse, dallo
spirito di partito, oppure da considerazioni più sentimentali che razionali,
affrontano e trattano, economisti e politici improvvisati, i problemi finanziari
e fiscali con tanto maggior ardore e foga, come pure con tanta maggior
sicurezza e disinvoltura, quanto maggiore è la loro incompetenza. Talora, non
sembra che sospettino neppure la necessità, per risolverli, di studi attenti,
di molteplici indagini e osservazioni, di esperienze comparate.
«I bisogni finanziari di ogni nazione, grande o piccola, sono enormemente
cresciuti. La colpa non va attribuita solamente alle complicazioni o tensioni
internazionali; ma anche, e forse più ancora, all’estensione smisurata
dell’attività dello Stato, attività che, dettata troppo spesso da ideologie
false o malsane, fa della politica finanziaria, e in modo particolare della politica
fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di un ordine assolutamente
diverso» (Discorso ai partecipanti al
Congresso dell’Istituto Internazionale di Finanze Pubbliche, del 2-10-1948).
Non diversamente
valuta il problema Papa Giovanni Paolo II parlando dello «Stato del benessere»
o «Stato assistenziale», quando osserva che, «intervenendo direttamente e
deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di
energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da
logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con
enorme crescita delle spese» (Enciclica Centesimus annus, del
1°-5-1991, n. 48).
Il diverso «ordine di
preoccupazioni» di cui parla Papa Pio XII è descritto da padre Eberhard Welty
O.P., per cui «oggi esiste la forte tendenza sia verso la democrazia
economica che verso lo Stato assistenziale. Ambedue queste tendenze
favoriscono la socializzazione fredda. Democrazia economica significa per i più
che tutta la proprietà produttiva è amministrata, o almeno controllata,
collettivamente. Più si attende la “sicurezza sociale” dallo Stato, più questo
deve disporre di mezzi.
«[...] La socializzazione “fredda” deve
essere contenuta, o meglio repressa, se non si vuole che la proprietà e
l’economia diventino sempre più anonime e collettive a scapito del bene comune
dei cittadini».
Se «per socializzazione
s’intende il passaggio della proprietà privata in proprietà pubblica», «la
socializzazione fredda è la socializzazione in forma larvata: non è operata
attraverso l’espropriazione formale, ma mediante lo svuotamento e la privazione
dei diritti»; e «questo “scalzamento” della proprietà privata conosce
molte forme e vie», fra cui si possono rubricare la partecipazione del
potere pubblico al capitale azionario delle società anonime e di altre imprese,
il risparmio forzato — cioè la collazione di capitali in assicurazioni
sociali e private, in enti, in base ai contributi —, e l’accumulo di
eccedenze di cassa, attraverso tasse e altre contribuzioni (Eberhard Welty
O.P., Catechismo sociale, vol. III, L’ordinamento della vita
economica. Lavoro e proprietà, aggiornato fino alla Populorum progressio
da Carlo Danna, trad. it., Edizioni Paoline, Francavilla a Mare (Chieti)
1967).
«Campo
primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e
la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente
la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito
delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione
fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio.
Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico
sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella
della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza.
[…] Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a
vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la
ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria
onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita
concreta delle persone.
«[…] oggi occorre affermare che la
questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel
senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di
manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo.
La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della
clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale
cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché
si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l’assolutismo della tecnica
trova la sua massima espressione. […] Dio svela l’uomo all’uomo; la
ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia
vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica
la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il
richiamo della verità morale (Caritas in Veritate, nn. 74-75)..
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